Un’anima messa a nudo, abbarbicata alla propria lingua come fosse una corazza

Un ricordo di Raffaello Baldini

Pubblicato il 30/12/2013 / di / ateatro n. 146

Questo testo è stato pubblicato originariamente in Stratagemmi. Prospettive teatrali, n. 26, giugno 2013.

Per me Raffaello Baldini è stato a lungo soltanto una voce, al telefono. Al lunedì, se non ricordo male. Una voce insieme roca e vellutata: c’erano due armoniche, una più bassa, ruvida, l’altra più dolce, quasi di flauto.
Avevo iniziato a lavorare da Franco Quadri alla fine degli anni Settanta, e uno dei miei compiti – in un’era ormai lontana, in cui non esistevano né computer né fax – consisteva nel trascrivere a macchina i manoscritti delle sue recensioni per “Panorama”. A volte Franco non era in ufficio, quando arrivavamo Silvia Bergero e io, e non aveva nemmeno lasciato il testo sulla scrivania di via Caradosso. Non esistevano nemmeno i telefoni cellulari, in quell’evo lontano. Se Franco era in viaggio o in giro per qualche incombenza, non c’era modo di contattarlo.
Immancabili, cominciavano ad arrivare le telefonate dalla redazione di “Panorama”, sempre più frequenti ed ansiose. Cercavamo di placare l’ansia di Raffaello Baldini, che gestiva quella sezione del settimanale. Invano.
In tutti quegli anni, Franco ha sempre rispettato le scadenze. Ma se non c’era il pezzo sulla scrivania (e questo, nella mia memoria, capitava abbastanza spesso), l’angosciato rito telefonico si ripeteva, nell’arco della mattinata. O meglio, si ripeteva quello che noi avevamo iniziato a considerare un rito, ma che all’altro capo del filo doveva essere una preoccupazione autentica e crescente. Nelle prime telefonate, la voce era la solita, amichevole e calda, poi però cambiava. Prima scendeva verso il grave, e il ritmo rallentava, poi il tono s’impennava e il ritmo del respiro aumentava. Le chiamate s’infittivano, malgrado le nostre vaghe rassicurazioni, sempre più pressanti. Finalmente arrivava Franco, o la sua telefonata, e il telefono smetteva di squillare.
Poteva anche presentarsi un altro caso, più sottilmente inquietante. Franco non c’era, ma il pezzo sì. La sua calligrafia era molto fine, ordinata ma fitta, e vergata con un pennarello dalla punta grossa, insomma pressoché indecifrabile, se non dopo accurata dissezione grafo-filologica dei passi controversi. A quel punto l’ansia era nostra: Franco tornerà in tempo per sciogliere i dubbi (facendoci fare la figura degli imbecilli, visto che per l’autore il senso era chiarissimo)? Oppure dobbiamo prenderci la responsabilità di azzardare un’interpretazione, che può essere errata (sottoponendoci alle inevitabili ire dell’autore)? Non so se rendessimo partecipe Baldini delle angosce che questa volta inquietavano noi, credo che lo tenessimo all’oscuro per evitargli un altro logorante dilemma. Ma in quegli affannosi lunedì si era stabilita una specie di solidarietà, ai due capi del filo, come spesso accade nel caso di sofferenza condivisa.
Qualche anno più tardi, toccò a me: dovevo mandare a “Panorama” un paio di pezzi che avevo scritto io, giovane di bottega chiamato a sostituire temporaneamente il maestro. Feci il mio compitino con tutte le ansie del mondo, e lo consegnai al pony (ve l’ho detto, niente fax all’epoca: i pony express erano ragazzi in motorino che effettuavano una sorta di servizio postale).
La formula delle recensioni di “Panorama”, messa a punto negli anni Sessanta sotto la direzione di Lamberto Sechi, era stata rivoluzionaria. Non lunghe articolesse, ma sintesi chiare e precise, senza tecnicismi. La lunghezza – o meglio la brevità – era un imperativo. Naturalmente la mia scheda era troppo lunga (o forse nel frattempo lo spazio era diminuito). Al telefono una voce roca e vellutata mi chiese se potevo effettuare qualche taglio. Non l’aveva fatto lui stesso, come avrebbe potuto, ma leggemmo il pezzo insieme, lo commentammo e iniziò a suggerirmi, con grande rispetto, che potevo eliminare quegli aggettivi, e magari quell’avverbio, non sapeva ma insomma, e forse quella frase si potrebbe tagliare… e questo inciso, così adesso ci siamo… Con delicata attenzione, come se il mio goffo articoletto fosse stato opera di un vero scrittore. Inutile dire che ogni taglio, su un pezzo minuziosamente calibrato, per me avrebbe potuto essere una ferita. Inutile aggiungere che il testo, taglio dopo taglio, migliorava. Mi ricordo ancora il suo amore per le parole, la cura per l’integrità e la completezza del pezzo, e una straordinaria delicatezza nei confronti di chi l’aveva scritto – ancorché giovane e inesperto.
Che Raffaello Baldini fosse anche un poeta, l’avevo scoperto un paio d’anni prima, quando sulla scrivania di Franco era comparsa una copia (con dedica) di La nàiva, con l’inconfondibile copertina bianca einaudiana. Erano poesie scritte nel dialetto del suo luogo d’origine, Santarcangelo di Romagna, che conoscevo bene per via del festival. Sapevo pure che era il paese di Tonino Guerra, conosciuti come sceneggiatore prima che come poeta.
Come in una sorta di teatro di piazza (e di bar), La nàiva dava la parola ad alcuni personaggi del luogo, colti con uno sguardo insieme ironico e affettuoso: la consapevolezza di una differenza (quela tra l’autore e le sue creature, ma anche quella tra il lettore e queste figure) diventava subito empatia. Li vedevi subito lì, davanti a te, che ti raccontavano le loro illusioni e le loro vite sgangherate, e ti accorgevi che anche la tua vita era sgangherata, e nutrita di illusioni. (Non sapevo, e l’ho imparato molto più tardi, che il suo esordio come autore, nel 1967, era stato un volumetto di satira sociale pubblicato da Bompiani, un editore che Franco Quadri conosceva bene, essendo stato tra l’altro redattore capo di “Sipario”, rivista teatrale pubblicata allora da Valentino Bompiani: anche nel caso di Autotem, Baldini dava voce a diversi personaggi attraverso l’artificio retorico di una serie di lettere inviate a un fantomatico giornale e accomunate dal tema dell’automobile, il feticcio della modernità all’italiana).
Poco dopo, lessi il saggio di Franco Brevini (Le parole perdute, Einaudi, Torino, 1987), che poneva in termini nuovi il problema della poesia dialettale e del suo ruolo all’interno della cultura italiana. Iniziai anche a riflettere sui numerosi poeti del secondo Novecento che avevano avvertito la necessità scrivere per il teatro: Pasolini e Testori, Luzi e Raboni, Pagliarani e Porta, per citare autori e filoni molto diversi. Perché a un certo punto in questi grandi maestri la tensione lirica aveva cercato uno sbocco dialogico? (Il secondo aspetto riguarda l’inadeguata accoglienza del teatro italiano – soprattutto quello ufficiale – di fronte a questo straordinario dono.)
Ancora qualche anno, e nel 1993 Ubulibri (che nel frattempo avevo abbandonato) pubblicò il primo dei tre monologhi teatrali di Raffaello Baldini, Zitti tutti! L’aveva scritto su sollecitazione di un attore (Ivano Marescotti) e di un giovane regista con un grande talento di animatore culturale (Marco Martinelli); ha ricordato Quadri che il suo primo testo teatrale “il poeta [lo] aveva dato a noi anziché a Einaudi, per paura di esporsi, prima che il testo avesse un ottimo riscontro dalla messinscena di Marco Martinelli” (il Patalogo 26, p. 266). Era come se la voce di una delle sue creature poetiche si fosse incarnata in un personaggio teatrale. Zitti tutti! non era certo un’operazione regressiva, né sulla pagina né in teatro: “Non c’è nulla di nostalgico, di idillico, di regressivo nel suo racconto. Piuttosto, in quelle storie di sconfitte, di vocazioni infrante, di rinunce, di piccole manie, di goffaggini, in quei frammenti di vita che diventano immediatamente leggenda, scorre una vena grottesca e disperata, dove il rimpianto è rabbia mansueta, dove serpeggia una follia ora lunare ora aggressiva. (…) Quella che ci parla è una voce di sorprendente modernità, parente stretta di quei personaggi beckettiani che esistono solo finché si dicono e che dunque in questa coazione alla parola trovano la loro salvezza e la loro condanna. Richiama anche gli urli di Bacon, quegli esseri umani di cui resta solo l’eco inafferrabile di un gesto e l’oscenità di una ferita innominabile”, avevo scritto sul “manifesto” quando lo spettacolo era approdato a Milano.
In quella settimana di repliche milanesi conducevo Radiotre Suite: così invitai in studio l’autore e l’attore (ad accompagnarli venne anche Renata Molinari, con la promessa che non l’avrei fatta parlare, ma non ricordo se mantenni la promessa). Ivano Marescotti raccontò come avesse dovuto tradurre il testo dal dialetto di Santarcangelo di Romagna nel proprio dialetto, quello di Bagnacavallo, che si trova sempre in Romagna, a poche decine di chilometri. Così fecero sentire le due versioni, quella originale e la traduzione. Esplodevano le differenti sonorità, la prima più dolce, morbida, quasi cantata, a confronto dell’altra più dura e gutturale: due lingue sorprendentemente diverse, e molto lontane dall’italiano della traduzione curata dallo stesso Baldini.
Una delle ultime volte che ci siamo incontrati, a Santarcangelo nel 2001, Silvio Castiglioni e Massimiliano Speziani interpretavano (con la regia di Federico Tiezzi) il terzo monologo che Raffaello Baldini aveva scritto per il teatro, per la prima volta in italiano, In fondo a destra. A differenza dei precedenti, il protagonista è un “cittadino”, la sua esperienza è forse più vicina a quella del Baldini “milanese”. Stavamo per ripartire verso casa, chiacchierammo brevemente alla reception dell’albergo, e mi raccontò che – chissà… magari… però… – avrebbe voluto ritrovare un punto d’appoggio in paese. Forse l’intuizione di un possibile equilibrio tra la Romagna e Milano, tra la lingua madre e l’italiano, tra la poesia e il teatro, tra la memoria e il presente.




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