Il Che, la Nazionale & la classe operaia

Tre racconti teatrali per tre miti contemporanei

Pubblicato il 10/03/2003 / di / ateatro n. 050

I miti ci arrivano da un passato remoto e forse irrecuperabile. Ci sembrano il frutto di altre epoche, quando il mondo e gli uomini erano diversi, quando ancora sapevamo percepire la potenza delle divinità e della natura e coglievamo la loro profonda capacità di trasformazione.
Nella nostra società scettica e nichilista, in quest’epoca scientista e secolarizzata, sembra impossibile che nascano nuovi miti. Sembra un’era di nostalgie e reinvenzioni. Tuttavia continuiamo a provarci, a cercare e a inventare miti che nascano dal nostro tempo – cercando di ridare loro vita anche sulle scene.
Tre spettacoli che circolano in questi mesi, per diverse maniere interessanti, si muovono precisamente in questa direzione, con qualche elemento comune e altrettante specificità. Sono lavori che mettono in primo piano, più che i personaggi, la narrazione e il racconto orale, in una forma epicizzante. Per farlo, attingono spesso alle tradizioni popolari: non in vista di un qualche recupero filologico, ma attualizzate perché portano a efficaci modalità di comunicazione.
Operano tutti e tre sull’invenzione del mito, questi spettacoli, ma in direzioni diverse. Il Che. Vita e morte di Ernesto Guevara (testo di Michela Marelli, regia di Serena Sinigaglia per il gruppo ATIR) è tutto centrato sul recupero della figura dell’eroe. Il monologo scritto e interpretato da Davide Enia Il cunto della vittoria. Italia Brasile 3 a 2 gioca sulla memoria condivisa di un preciso evento storico (e massmediatico) con valenze collettive e forti meccanismi d’identificazione. Per raccontare un secolo di storia della classe operaia, Ascanio Celestini in Fabbrica punta invece alla ricostruzione di una memoria collettiva rimossa (o in via di rimozione) e cerca di ricomporla e rimetterla in circolazione. Ciascuno di questi tre spettacoli sembra dunque concentrarsi sul recupero di una dimensione del mito, senza tuttavia pretendere di restituirne la totalità e l’efficacia. Lo stesso avviene per il nucleo narrativo. Il Che, pur narrando le gesta di un eroe destinato come Ettore alla sconfitta e alla morte, ha come archetipo il viaggio: è una lunga odissea, dall’Argentina attraverso il Sud America, poi Cuba, l’Africa australe e l’ultima disastrosa avventura boliviana. Italia-Brasile 3 a 2 è la storia di una guerra, di una battaglia – a volte di un combattimento tra pupi, un duello tra Paladini e Mori. Fabbrica usa invece come filo conduttore la fiaba e il fantastico, restando dunque fedele a uno dei filoni di lavoro dell’attore-autore.
In tutti e tre i casi, il realismo non è ovviamente una preoccupazione, anche se poi dietro ai tre lavori c’è un lungo lavoro di documentazione (Ascanio Celestini ha girato l’Italia raccogliendo mille brandelli di storia orale). Ma la comunicazione con il pubblico punta soprattutto sul coinvolgimento emotivo.
La vicenda biografica del Che è punteggiata di canzoni e inserti musicali live che trasformano le sue avventure in un’allegra e drammatica sarabanda, grazie anche alla vitalità e alla simpatia degli interpreti (Maria Pilar Perez Aspra, Maria Spazzi, Sandra Zooccolan, Riccardo Tordoni e Massimo Betti). Poco importa, alla fine, che non vengano approfondite le ragioni della sconfitta politica di Guevara a Cuba, dei suoi scontri con Castro, delle scorribande in Angola, della disastrosa e velleitaria spedizione che gli sarebbe costata la vita. Perché questo Che ha tutti gli aspetti positivi degli eroi, compresa la morte precoce – il martirio – in battaglia. In un momento storico dominato dall’avidità e dal cinismo, l’identificazione con i valori positivi che incarna – sete di giustizia e amore della libertà, coraggio e abnegazione – raccontati per di più con il giusto pizzico di ironia, offrono un mix che travolge lo spettatore, se appena si abbandona a questa scanzonata agiografia.
Se il Che è diventato ormai da anni un oggetto di marketing, la partita di calcio è uno dei luoghi più frequentati dall’immaginario e dai mass media (oltre che dal marketing). Le partite sono sempre diverse e sempre uguali (ventidue ragazzi in mutande che corrono dietro a una palla, c’è chi vince e chi perde, anche se non si sa mai come andrà a finire). Ma alcune sfide (viste alla tv da milioni di telespettatori) si imprimono nella memoria di tutti e catalizzano simboli e identificazioni collettive (anche se sappiamo chi ha vinto, non smettiamo di parlarne). Un match certamente memorabile resta Italia-Germania ai mondiali del Messico nel ’68 (che non a caso ha dato ispirazione alla rivisitazione in chiave giovanilista e piccolo-borghese di Umberto Marino, in teatro e poi al cinema). Quasi altrettanto memorabile è la partita che nel ’72 aprì la strada della vittoria azzurra al Mundial spagnolo. In uno travolgente monologo che piace anche a chi non ama il football, Davide Enia (anche qui con il robusto sostegno musicale di Settimo e Riccardo Sperandeo) filtra quei 90 minuti attraverso i moduli dei cantastorie di piazza e la vocalità dei pupari. Davanti al televisore non c’è più un gruppo di ragazzi (come nel testo di Marino), ma una famiglia tipo. Lo sfondo tende al nazional-popolare, le biografie e i dilemmi dei singoli non hanno importanza, il babbo, la mamma, i fratelli, gli zii, sono tipi, maschere della sociologia italiana. Si tratta di cogliere, nei mille ricordi personali, quelli che possono essere condivisi e creare un patrimonio condiviso. Di esperienze, di emozioni, e forse anche di valori.
Fabbrica affronta invece il problema inverso. Si tratta di ricondurre all’unità una miriade di esperienze vissute da milioni di persone (la vita di fabbrica) ma che in primo luogo stanno scomparendo con il mondo che le ha generate, le grandi industrie, e in secondo luogo non hanno trovato un catalizzatore in un evento emblematico. Nel suo monologo Ascanio Celestini attraversa tutto il Novecento, dai primi opifici creati dai “padroni delle ferriere” (nonché “padroni del vapore”) alle moderne fabbriche dove l’operaio è sostituito da computer e tecnici in camice bianco. E’ un’epopea collettiva di cui in pochi anni stiamo perdendo anche il ricordo. Il monologo nasce da una sorta di inchiesta antropologica – quasi andando a raccogliere le voci degli ultimi superstiti di una qualche tribù cancellata dall’avanzare della civiltà. Ma il dato storico (le successive fasi dell’industrializzazione e delle lotte operaie, dai primi del Novecento al fascismo agli anni della repressione di Scelba) Celestini lo innerva sulla trama di una favola. La grande epopea collettiva si riflette nella storia dell’amore impossibile tra la bella operaia Assunta e il padrone: come fossero il re e la sua bella, un orco e una strega, condividono segreti e sentimenti a dimensione sovrumana. La storia segue inesorabile il suo cammino, e i personaggi vengono sospinti da un destino altrettanto potente, da passioni che li sovrastano.
Soprattutto per gli spettatori più giovani, che quegli eventi non li hanno vissuti (e che dai mass media ne hanno avuto al più versioni lacunose e distorte, per non parlare della scuola), questi tre spettacoli ricostruiscono un’esperienza e provano a trasmetterla per contagio. O meglio, ricostruiscono e trasmettono una esperienza organizzandola in strutture dotate di senso. E forse non è un caso che cerchino le loro energie e la loro necessità nell’intreccio tra la cronaca e il mito, tra una realtà storica e una memoria che diventa in qualche modo esemplare, e dunque fuori dal tempo.

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