Le recensioni di ateatro Água di Pina Bausch

Alla Biennale 2007

Pubblicato il 20/08/2007 / di / ateatro n. 111

Na Young Kim in Água (foto di Jochen Viehoff).

Rischiavano di confondersi nei colori della nostalgia le immagini evocate dalle scarne parole di Pina Bausch nel ritirare il Leone d’oro alla carriera e quelle che scorrevano sullo schermo alle sue spalle – Blaubart, Kontakthof, Viktor, Café Müller… Ma il ritorno del Tanztheater Wuppertal a Venezia, pochi giorni dopo il premio della Biennale Danza alla coreografa tedesca, ha riportato i sempre tantissimi ammiratori sul terreno di una ricerca che da tempo non inclina più al nero, al tragico, ma piuttosto alla leggerezza di un ritrovato “dire di sì” alla vita nelle sue infinite, mutevoli forme. Nato nel 2001 tra Rio, San Paolo e Bahia, e presentato in esclusiva per l’Italia alla Fenice, Água prosegue l’approccio nomade a culture e forme danzate che la Bausch ha iniziato fin da Viktor, creato a Roma nel 1986, per poi spostarsi a Palermo, Madrid, Vienna, Los Angeles, Hong Kong, Lisbona, Budapest. Le tappe più recenti, dopo la breve “residenza” brasiliana, l’hanno portata sempre più a oriente: Turchia, Giappone, Corea, India. Vedere di nuovo uno spettacolo di Pina Bausch nel teatro che la consacrò con la grande personale del 1985, ha il valore aggiunto di un’emozione palpabile che unisce l’artista a un pubblico fedelissimo. Qui la compagnia tedesca debuttò nel 1981 con Kontakthof e al Malibran portò Nelken nel 1983. Due anni dopo, alla Fenice, in strepitosa sequenza, sbarcarono Blaubart, Café Müller, La sagra della primavera, I sette peccati capitali, Sulla montagna si è sentito un grido, 1980, Bandoneon e Kontakthof. A Venezia si vide anche Viktor, nel 1992. Poi la Bausch non volle più tornare, in attesa della ricostruzione della Fenice, dove nel 2002 porterà un altro spettacolo in prima nazionale: Per i bambini di ieri, oggi e domani. Il nuovo pezzo brasiliano (così la Bausch continua a chiamare i suoi lavori) si apre con verdi riprese di palme mosse dal vento, un colore e una freschezza che sarranno dominanti lungo le oltre due ore e mezza di spettacolo. Sugli schermi che chiudono il palco scorrono grandi immagini (girate da Peter Pabst, che come sempre, dopo la morte nel 1980 di Rolf Borzik, firma anche la scenografia) di un Brasile popolare e prorompente, dominato da una natura maestosa e fragile insieme: il Rio e la foresta amazzonica, palmeti, lagune, cascate, pescatori su fragili imbarcazioni che sfidano le onde oceaniche, suonatori di tamburo delle scuole di samba, passaggi di animali (scimmie, fenicotteri, tigri, gabbiani). Su questo sfondo, un affresco che sfugge a logori esotismi quanto a facili ambientalismi, si muovono i danzatori in sequenze che a volte presentano un personaggio idealtipico, altre descrivono un comportamento (singolo, di coppia, di gruppo), altre ancora raccontano una reazione, un sentimento, una paura. Diventano foglie, scimmie, vento. Diventano soprattutto ciò che sono, esseri umani, uomini e donne. Il metodo compositivo è quello ormai “classico” di Pina Bausch, che pone domande ai suoi performer e sulla base delle loro risposte – gestuali, vocali, narrative – costruisce una partitura con soluzioni di continuità analogiche o contrastive. Il montaggio paratattico dei segmenti coreografici esclude subordinazioni didascaliche o nessi funzionali a una narrazione. La giustapposizione di materiali anche molto eterogenei trova inattese corrispondenze espressive nella cornice sonora e in quella delle immagini proiettate, lasciando lo spettatore a sua volta libero di attraversare e associare immagini e figure senza intenzione alcuna di fissare una “storia”. L’attrazione amorosa e le relazioni di coppia sono tuttavia una traccia sempre riconoscibile negli spettacoli della Bausch: un uomo e una donna si corteggiano lanciando segnali luminosi dai loro abiti innervati di lampadine (i costumi sono di Marion Cito); un’altra donna respinge l’innamorato elencando i propri difetti; un’altra invece si offre al primo uomo che passa, il quale però la guarda e se ne va per la sua strada. Un danzatore in piedi su una sedia solleva una danzatrice in un abbraccio che sembra soffocarla e lei dimena le gambe in una fuga impossibile (la scena verrà ripetuta da dieci coppie). I corpi si svelano in movimenti quotidiani, oppure si lanciano in assoli potenti, così densi che vi si sarebbe potuto costruire un intero spettacolo. Ma la poetessa, l’ultima rivoluzionaria della danza, come è stata definita, sa che l’arte è spreco. Questi corpi di prorompente vitalità e seduzione sono costretti in asimmetrie e contrasti che marcano differenze e individualità. Il rifiuto del corpo ideale, che ha sempre caratterizzato la poetica del Tanztheater, si vede qui per esempio nelle diverse stature dei danzatori, nell’accostamento di tecniche assai lontane, nella formazione di coppie spaiate. Così le due danzatrici più basse di statura sono spesso in coppia proprio con i danzatori più alti. In una scena che in altri tempi (e con altra musica) avrebbe forse avuto un effetto inquietante, queste due danzatrici salgono a pieni nudi sulle spalle dei danzatori, come si arrampicassero sul tronco curvo di una palma tropicale, si ergono in piedi e poi si lasciano cadere in braccio al partner, ripetutamente, con abbandono e tenerezza. La musica: un catalogo del sound brasiliano, da Baden Powell a Louz Bonfa, da Gilberto Gil a Caetano Veloso in coppia con David Byrne, da Bebel Gilberto ad Antonio Carlos Jobim, cui si aggiungono canzoni di Susana Barca, Tom Waits, Julien Jacob e tanti altri. In varie occasioni vengono lanciate delle esche al pubblico: una performer vorrebbe raccontare una barzelletta, un’altra chiede ad alcuni spettatori la loro città di provenienza e poi azzarda previsioni del tempo per quel luogo gettando in aria con il piede uno scarpone; un danzatore si fa accendere una sigaretta; altri addirittura offrono il caffè in platea, i vassoi portati sulla testa (in 1980 veniva servito il tè). Più che un tentativo di coinvolgimento sembra forse un modo per ricordare agli spettatori che non solo del Brasile visitato dalla compagnia, qui si sta vedendo il volto, ma anche di quello fissato nell’immaginario turistico-mediatico di tutti noi. Quello che appare è anche un fantasma dell’occidente. Sfilano così i modi di salutarsi delle donne, i modi di camminare, di atteggiarsi, di stare in spiaggia. Ma anche i quadri di una solarità artefatta: tutti prendono il sole su divani bianchi di pelle (i divani, come i microfoni, tornano in varie scene, spostati, composti), poi si alzano sorridenti coprendosi parzialmente con teli da spiaggia raffiguranti corpi nudi che ostentano bicipiti da culturista, labbra siliconate, glutei e seni gonfiati. In un’altra scena, quattro danzatori, abiti succinti e coturni colorati, salgono dalla platea sul palco e lì si passano, alzandola per le braccia, una ragazzina sorridente (una danzatrice così piccola che sembra tale): un accenno alla pedofilia? Si rischiano inutili forzature interpretative. Meglio lasciarsi andare alle emozioni e registrare ancora un cocktail di sapore coloniale, una scena nella giungla con gli schermi che si alzano su una vegetazione notturna di ficus giganti puntellati di lucette, un’altra completamente bianca: schermi, divani e abito lungo di una danzatrice che prova gesti, posture e inviti, coinvolgendo le anche, i gomiti, il collo, i capelli in una danza sulle ipotesi di seduzione. E’ lei la prima a riderne, un po’ brilla. Alla fine, l’elemento naturale così presente nei capolavori del passato (le foglie secche in Blaubart, il prato verde in 1980, la montagna di argilla in Viktor), si scioglie qui letteralmente nella sostanza liquida, mobile, inarrestabile, nell’oro blu delle guerre dei poveri. Le imponenti cascate riprese da un aereo sembrano riversarsi sul palco. Una conduttura fatta con legni cavi accostati dai danzatori porta l’acqua dallo schermo fino al proscenio. La scena è così bella che non ci si stupisce di vedere fuoriuscire acqua vera dai quelle tubature improvvisate. Poi la coreografia idraulica si scompone, tutti bevono da bottiglie di plastica e si bagnano a vicenda spruzzando l’acqua dalla bocca, accennano a passi si danza, scivolate, ondeggiano seduti su tanti tavolini tondi, in una scena festosa e vociante. Certo un richiamo allarmato all’importanza dell’acqua per la sopravvivenza del Pianeta, ma anche uno sguardo di fiduciosa apertura, di saggia comprensione, verso questo incastro di natura e artificio, realtà e immaginario nel quale ci troviamo a vivere.

Fernando_Marchiori

2007-08-20T00:00:00




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