Quando i supereroi pisciano sul Piccolo Teatro
Zorro di Antonio Latella
Zorro di Antonio Latella, che firma anche la drammaturgia con Federico Bellini, è uno spettacolo esplicitamente politico, anche nelle intenzioni. In apparenza denuncia la crescente povertà e le drammatiche disuguaglianze nella società del capitalismo predatorio. Fa satira sull’imbarbarimento di Milano, in superficie sempre più ricca e attrattiva, ma nella pancia la città nasconde l’impoverimento, il degrado e la rabbia di una quota crescente dei suoi abitanti.
Protagonisti dello spettacolo sono quattro performer (Michele Andrei, Paolo Giovannucci, Stefano Laguni, Isacco Venturini) che compaiono vestiti come Elvis Presley (o meglio Liberace) sul palco di un concerto: colori sparati, lustrini, pantaloni a zampa d’elefante e una cappa che svolazza sulle spalle (costumi di Simona D’Amico). I quattro attori si alternano nei ruoli del povero e del poliziotto, mentre sullo sfondo un terzo fa da cavallo e l’altro da servo muto: sono Tornado e Bernardo, i due irrinunciabili partner di Don Diego de la Vega. Sono quattro supereroi in evidente crisi d’identità: in un orizzonte dove non si capisce più che cosa è il Noi e resta solo l’Io, continuano a salire dalla platea per farsi inutili fototessera nell’apposita macchinetta (nella scena è di Annelisa Zaccheria).
In scenette a due da stanco varietà intellettuale, si affrontano ogni volta un poliziotto e un povero. Sia il poliziotto sia il povero rispondono a una serie di cliché. I poveri sono criminali, fannulloni, riottosi, ribelli nelle intenzioni ma in fondo passivi, tendenzialmente nomadi – o meglio migranti. I poliziotti sono prepotenti e arroganti, potenzialmente violenti, anche se con questi sottoproletari da cabaret non c’è nemmeno bisogno di ricorrere al teatro della crudeltà. I poliziotti sono ottusi, anche quando sembrano colti.
È una società ridotta ai minimi termini, ancor più spolpata di quella che disegnava Margaret Thatcher quando diceva che la società non esiste, esistono solo gli individui, e al massimo le famiglie. Qui non ci sono neanche le famiglie, visto che le donne sono assenti (a maggio al Piccolo Teatro Studio approderanno le quattro protagoniste del secondo pannello del dittico di Antonio Latella sui supereroi, Wonder Woman).
In Zorro non arriviamo nemmeno alla dialettica hegeliana servo padrone, con la logica asimmetrica e potenzialmente emancipatoria del rispecchiamento reciproco. Si contrappongono solo norma e trasgressione, ordine e caos. Si affrontano solo potenziali vittime e potenziali carnefici, senza nemmeno provare a dare la colpa alla “società”. E’ la realtà come ci viene raccontata da Donald Trump o Giorgia Meloni, un gioco a guardie e ladri, dove la repressione militare e poliziesca è condizione necessaria e sufficiente per cancellare le contraddizioni, per ripulire il disordine da pigri e malintenzionati (una turba composta per lo più da immigrati assassini e pervertiti). I costumi quasi identici e i cambi di ruolo dimostrano che poveri e poliziotti sono due facce della stessa medaglia, o forse sono la stessa cosa (si avverte un’eco della poesia di Pier Paolo Pasolini su Valle Giulia, Il PCI ai giovani!, con i poliziotti figli del sottoproletariato e gli studenti figli della borghesia).
Ogni tanto arriva qualche dato su povertà e disuguaglianza, ma lo spettacolo è soprattutto punteggiato di dialoghi pseudofilosofici e battute facili facili. La satira politica è prendere in giro il Ministro Lollobrigida, che è come sparare sulla Croce Rossa. C’è pure il poliziotto strafatto che racconta che a Milano tutti i suoi colleghi sono cocainomani. Però né poveri né poliziotti ricordano che a Milano un ragazzo di diciannove anni in motorino è morto dopo essere stato inseguito per più di nove chilometri da una macchina dei carabinieri e che sono scoppiate rivolte in diverse città d’Italia per chiedere la verità. Né poveri né poliziotti ricordano che il caro affitti di Milano è anche frutto delle politiche speculative sull’edilizia in sostanziale continuità delle giunte di destra e di sinistra. Né poveri né poliziotti ricordano che a Milano una famiglia conta un padre presidente del Senato, un figlio consigliere d’amministrazione del Piccolo Teatro e un fratello assessore alla sicurezza in Regione Lombardia (mentre suo genero è deputato). Pettegolezzi che gli spettatori milanesi conoscono benissimo e commentano ogni mattina al bar o davanti alla macchinetta del caffè.
Si sprecano le frecciate contro il politicamente corretto, disprezzato sia dai poveri sia dai poliziotti. E ci si fa beffe del teatro politicamente o culturalmente impegnato, che sia il teatro sociale o quello dei maestri della regia, compresi Giorgio Strehler e Luca Ronconi, i due grandi direttori del Piccolo Teatro di Milano. Siamo proprio sul glorioso palcoscenico di via Rovello. Se qualcuno se ne fosse dimenticato (spoiler), alla fine del primo tempo cala dall’alto un gigantesco flag da geolocalizzazione, come quelli di Google Maps, sul quale scintillano le lucine colorate del logo del più glorioso teatro pubblico italiano. Anzi, del nostro Teatro d’Europa.
Perché i protagonisti dello spettacolo non sono solo poveri e poliziotti: il vero protagonista, il bersaglio politico di Zorro è il pubblico del Piccolo Teatro, in apparenza borghese e di sinistra, ma in realtà reazionario, a suo tempo sbertulato da Giorgio Gaber.
Per capire quale sia il vero nemico identificato dalla quadrigia degli Zorro, dobbiamo togliere la maschera al personaggio del titolo. Don Diego de la Vega è il capostipite della genealogia dei supereroi mascherati, che nello spettacolo vengono nominati quando gli attori giocano simpaticamente a far credere che in platea, tra i bravi spettatori del Piccolo Teatro, siedano l’Uomo Ragno, Batman, Wonder Woman e naturalmente Superman.
Che cosa imputano i grotteschi protagonisti di Zorro ai supereroi dei fumetti? Dovrebbero amarli, perché difendono i deboli, i poveri, gli umiliati, perché cercano di ristabilire la verità e la giustizia. Ma perché questi cavalieri del bene comune portano la maschera? Perché non ci possono mettere la faccia. Sono bravi borghesi, magari ricchissimi (come Batman), che non rinunciano ai loro privilegi. Non diventano “traditori di classe”, uno dei capi d’accusa della destra contro Giacomo Matteotti, mentre le sue origini destavano i sospetti dei leader della sinistra. Dunque questi eroi benpensanti non possono “metterci la faccia”. Recitano con la maschera e questa doppia identià nasconde la loro ipocrisia.
L’ultimo monologo dello spettacolo è affidato a uno dei quattro anti-supereroi (Paolo Giovannucci). Smessa la divisa da star glamour, indossa un elegante completo giacca e pantaloni, sul quale si possono ancora intravvedere i rombi del costume di Arlecchino, nero su nero. Arlecchino ovvero lo Zanni. Inizia con la zeta proprio come Zorro: i supereroi hanno rubato la maschera all’eroe degli sfruttati, dei diversi, degli immigrati, degli affamati… All’unico vero eroe, il povero.
Sono diversi gli spettacoli che di recente hanno provato a decostruire la maschera di Arlecchino. Ha cominciato lo stesso Antonio Latella, che nel 2013 portò in scena proprio Arlecchino servitore di due padroni, lo spettacolo-manifesto che il Piccolo Teatro continua a riallestire dal 1947: la sua lettura e la beffarda interpretazione di Roberto Latini – che aveva sbiancato il suo coloratissmo costume – vennero considerate oltraggiose dai custodi dell’ortodossia strehleriana. Per Le donne gelose di Carlo Goldoni (2016), Luca Ronconi si era immaginato un Arlecchino grigio, ormai in disarmo dopo la rivoluzione goldoniana. Alla morte del regista, lo aveva impersonato con toccante malinconia Fausto Cabra, con la regia di Giorgio Sangati. Sul suo volto si vedeva ancora il segno della maschera che si era strappata. Lo stesso Roberto Latini ci aveva riprovato con il testo che condensa il progetto goldoniano, Il teatro comico (2017), riducendo Arlecchino a un manichino frammentato. Lo scorso anno Pascal Rambert in Durante aveva messo in bocca al suo Arlecchino un duro atto d’accusa contro la destra al governo e le sue politiche culturali (e il suo tentativo di mettere le mani sul Piccolo Teatro), mentre Giorgio Strehler lo osservava muto e sdegnoso.
Diventa così evidente che il bersaglio non sono le disuguaglianze o le violenze gratuite della polizia. Non è il ritorno dei fascismi. Zorro lancia diverse provocazioni. Per cominciare, uno dei quattro anti-supereroi chiede agli spettatori: “Quanti di voi sono poveri? Quanti di voi hanno rinunciato alla cena per pagarsi il biglietto per vedersi questo spettacolo?” Più avanti un suo collega domanda quanti neri ci siano in platea (anche se in realtà un gruppo di spettatori di A teatro nessuno è straniero aveva partecipato a una prova dello spettacolo e incontrato il regista). A essere presa di mira è la falsa coscienza, l’ipocrisia del pubblico del Piccolo Teatro e in generale del ceto intellettuale di sinistra, i radical chic detestati dalla destra, ricchi e privilegiati che a parole difendono i poveri senza però rinunciare ai loro privilegi.
Il Piccolo Teatro nacque nel dopoguerra proprio perché alcuni cittadini più o meno privilegiati volevano allargare i diritti dei loro concittadini, a partire dalla partecipazione culturale, per dare vita a un progetto collettivo: il primo teatro pubblico italiano. Questa è stata l’ispirazione della cultura di sinistra che ha avuto in Italia per decenni l’egemonia culturale, almeno secondo le destra. Ora che la spinta ideale è finita – e l’egemonia non c’è mai stata – Antonio Latella prova a mettere il dito nella piaga: la borghesia colta e politicamente schierata appare oggi del tutto impotente di fronte ai recenti mutamenti sociali e politici. Non scende più in piazza, non ha più espressione politica. Il campione sociologico più rappresentativo di tutto questo è pubblico di via Rovello, il vero protagonista di Zorro, che almeno alla prima ha digerito tranquillamente la provocazione e molto spesso se la rideva, anche quando veniva sbeffeggiato.
La provocazione arriva fino al punto che il più sgarrupato dei quattro anti-supereroi si mette a pisciare proprio sulla gigantesca insegna piantata nel bel mezzo del sacro palcoscenico del Piccolo Teatro. E’ un esplicito oltraggio. Ma, a differenza di quello che accade nelle performance di Marina Abramovic e Jan Fabre, di Tino Sehgal e Angelica Liddell, dove il sangue, il sudore, l’urina, lo sperma sono reali, qui la pisciata è solo mimata. Siamo sempre al Piccolo Teatro e le buone maniere coincidono con il dovere della finzione e dello straniamento. E’ nella natura di quell’ipocrisia provvisoria che è il teatro di rappresentazione.
In questo Zorro, alla fine, la provocazione dev’essere solo virtuale. La diagnosi di Latella è impietosa. Se non siamo più in grado di capire la realtà, possiamo essere solo spettatori passivi del gran teatro del mondo. Se non siamo più in grado di capirlo, non possiamo più nemmeno pensare di cambiarlo. Non abbiamo più la legittimità per chidere verità e giustizia. Allora dobbiamo continuare a sghignazzare più forte che possiamo per non percepire l’orrore. Come nei cabaret di Berlino all’epoca della Repubblica di Weimar.
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