Il brivido attorno agli zigomi: Franz Kafka e il teatro

Una scena del corpo e della voce

Pubblicato il 28/05/2024 / di / ateatro n. 198

Pubblicato originariamente su “il manifesto”, estate 1997.

È in pieno svolgimento a Cividale la seconda edizione del “Mittelfest”, affidato quest’anno alla direzione di Georg Tabori e interamente dedicato a Kafka. Una scelta obbligata per una manifestazione che ha per fulcro l’Europa centrale, visto il ruolo centrale dello scrittore praghese nella cultura e nell’immaginario del nostro secolo. E insieme una scelta che suscita diverse curiosità in varie direzioni: non tanto per ciò che riguarda le pagine di Kafka direttamente destinate alla rappresentazione (rimangono soltanto alcuni abbozzi di un dramma incompiuto, Il custode della cripta), quanto – più in generale – per il significato che il teatro ha assunto nell’itinerario biografico e nell’opera di Kafka.
Non è certamente privo di significato il fatto che, come sottolinea Claude David nel suo Kafka (Einaudi, 1997), a far scoprire allo scrittore le sue radici ebraiche sia stata una compagnia di teatro yiddish: quella in cui recitavano Jizchak Löwy (grande amico di Kafka, che iniziò addirittura a stendere la sua biografia), e la “signora Tschissik”, cui il ventottenne scrittore dedicò nel suo Diario annotazioni insieme penetranti e partecipi:

Dal complesso della sua vera recita la si vede ogni tanto spingere il pugno in avanti, torcere il braccio, che avvolge nelle pieghe di strascichi invisibili, e posare le dita divaricate sul petto perché il grido non è sufficiente. La sua recitazione non è variata: ella guarda atterrita l’antagonista, cerca una via d’uscita sul piccolo palcoscenico, la sua voce dolce ascendendo breve e diritta diventa eroica soltanto con l’aiuto di una forte eco interiore senza amplificazione, la gioia la pervade attraverso il viso che si apre e dall’alta fronte si dilata fino ai capelli, ed ella si accontenta del canto singolo senza far ricorso a mezzi nuovi, e incontrando resistenza ha un modo di rizzarsi che costringe lo spettatore a occuparsi di tutto il corpo di lui; quasi tutto qui.

Sarà stato forse merito della silenziosa infatuazione del giovane scrittore per l’attrice, o forse è quello che Kafka stesso definisce “il brivido in cima agli zigomi che provo ogniqualvolta ascolto la sua voce”. Sta di fatto che il suo sguardo di spettatore appare terribilmente acuto e “moderno”. Come accade in altre occasioni, quello che Kafka vede emergere dall’evento teatrale (più che la trama, la qualità della scrittura, gli effetti scenografici eccetera) è innanzitutto un autentico “teatro del corpo”. La sua estrema lucidità di spettatore risiede proprio in questa capacità di leggere il corpo dell’attore come una scena: su di esso agiscono forze di cui sono generalmente inconsapevoli tanto l’attore quanto lo spettatore; così, il corpo dell’attore si rivela uno spazio in cui prendono forma gesti che sono insieme sintomi e segni, dove affiora una realtà intima di cui l’attore è insieme vittima e messaggero. Attraverso l’attore, Kafka legge una sorta di danza, una coreografia dell’anima. Allo stesso modo avverte il canto che, oltre delle parole, oltre il loro significato, sottende la recitazione. Aldilà del testo drammaturgico e della sua messinscena, coglie direttamente quello che c’è di poesia nel lavoro dell’attore.

Per questo motivo, volendo dare vita al mondo di Kafka attraverso il teatro, non è necessario ricostruire le trame o le situazioni “kafkiane”, adattare per la messinscena questo racconto o quel romanzo, quanto porsi in sintonia con il livello di comunicazione teatrale al quale lo scrittore era più sensibile, un livello insieme immediato e profondo. In questa direzione si è mosso per esempio Giorgio Barberio Corsetti nella trilogia su Kafka (di cui rimane traccia nel volume L’attore mentale: dalla trilogia su Kafka al Legno dei violini, a cura di Renata Molinari, Ubulibri, 1992) e che trova a Cividale un’ulteriore tappa in Verso Ramses: dopo aver esplorato, nei lavori precedenti, alcuni racconti, questa volta Barberio Corsetti si misura con il romanzo Amerika. Quello che colpiva nei recenti spettacoli di Barberio Corsetti era appunto l’assenza di situazioni canonicamente “kafkiane”, a favore di una drammaturgia del gesto e dello spazio, fatta di energia, leggerezza e ironia: e spesso segnata – nei gesti e nei movimenti degli attori – da un sospetto di imbarazzo, di goffaggine. Tratti che ricorrono in maniera sorprendente in alcune annotazioni del Diario:

La signora Tschissik calpestò una volta l’orlo della propria veste e barcollò un istante in quella sua princesse da sgualdrina come una colonna massiccia; una volta s’impappinò e per calmare la lingua si volse agitatissima verso la parete di fondo, benché ciò non corrispondesse affatto alle parole.

Siamo al limite del clownesco: un clownesco tragico, perché involontario, che però riflette anche un limite invalicabile per l’attore, e per il teatro in generale. Lo spiega lo stesso Kafka, poche righe dopo, riferendo di una discussione (con l’amico Brod) sulla supremazia della letteratura sul teatro e commentando una recita che è riuscita a coinvolgere emotivamente il pubblico:

Il dramma nel suo più alto sviluppo finisce in una insopportabile umanizzazione che l’attore ha il compito di abbassare e rendere tollerabile, analizzando, smuovendo, agitando la parte che gli è assegnata. Il dramma dunque si libra nell’aria, ma non come un tetto portato dalla bufera, bensì come un intero edificio i cui muri maestri si lanciano su dalla terra con una potenza oggi ancor molto vicina alla follia. Talvolta mi sembra che il dramma stia lassù sopra il soffitto e gli attori ne abbiano staccato una striscia che per giuoco tengono in mano ai capi o si sono avvolti intorno alla vita, e che solo di quando in quando una striscia difficile da staccare sollevi in alto un attore con grande spavento del pubblico.

Kafka ribadisce dunque la supremazia del dramma (la scrittura) sul teatro (l’attore). E nel farlo, mette a fuoco l’ironia su cui si fonda inevitabilmente il lavoro dell’attore – un’ironia tragica che nasce proprio da una inadeguatezza: incapace di sostenere la forza del dramma, la sua carica poetica, l’attore può essere solo trascinato via dall’indicibile annidato nella scrittura. Solo così, solo rendendo trasparente il proprio sgomento e trasmettendolo allo spettatore, tocca il vertice della sua arte.

L’incontro con la compagnia di attori ebrei giunta da Lvov, la sua comunità affascinante e vagabonda che soggiornò a Praga per qualche mese (dalla fine del settembre 1911 alla metà del successivo gennaio), colpì profondamente Kafka: sembra di avvertirne gli echi in diverse pagine successive, che potrebbero quasi essere interpretate come riflessioni e approfondimenti sull’idea di teatro.
Nel celeberrimo Nella colonia penale, per esempio, l’attenzione si concentra sul rapporto tra il corpo e la scrittura. Il racconto descrive puntigliosamente una macchina atroce, concepita per straziare il corpo del condannato con il comandamento che ha violato. In questo inquietante patibolo, frutto di un’ignota scienza del corpo, si condensano e si sovrappongono – in una sintesi di insopportabile violenza – il teatro e la scrittura. E’ necessario incidere nella sua carne una consapevolezza del corpo che il condannato nel delitto ha forse dimenticato; nell’azione della macchina – che rende evidente il “lavoro del corpo” che normalmente il teatro sottintende – il gesto finisce per coincidere con il segno. Sulla perversa scena del patibolo, il corpo dell’attore-condannato diventa insieme pagina e palcoscenico. Dopo sei ore, scrive Kafka, il condannato “comincia a decifrare lo scritto; stringe le labbra come se stesse in ascolto. Lo ha visto lei stesso, non è facile decifrare lo scritto con gli occhi; ma il nostro uomo lo decifra con le sue ferite”. Da ferite invisibili ma analoghe nasce l’efficacia segreta del gesto dell’attore. Ma, avverte l’apologo di Kafka, il prezzo della consapevolezza assoluta è la morte.

Ancora: nelle pagine finali dell’incompiuto America, le difficoltà e le miserie della compagnia dell’amata signora Tschissik sembrano trovare un immaginario riscatto. E’ l’invenzione del Teatro Naturale di Oklahoma, “il più grande teatro del mondo”, il sontuoso Circo Barnum nel quale finisce per arruolarsi il giovane Karl Rossmann. Grandiosa impresa commerciale, megalomane e trionfalmente pubblicizzata, il Teatro di Oklahoma è una utopia teatrale che sembra in grado di inglobare e trascendere l’intera realtà, per soddisfare ogni desiderio – ma proiettandolo nell’immaginario, nella finzione. Dietro questo “gran teatro del mondo” sembra già di intravvedere la premonizione inquietante di quello che sarà la “Società dello Spettacolo” (curiosamente, l’unica immagine del Teatro Naturale di Oklahoma descritta in America è il palco del presidente degli Stati Uniti). Con ironico sarcasmo, il finale sospeso del romanzo prefigura un mondo ridotto a rappresentazione e simulacro, talmente perfetto da risultare inattaccabile (fino ad assumere l’agghiacciante implacabilità di un incubo totalitario).
Nell’ultimo racconto di Kafka, Giuseppina la cantante, dove si raggrumano moltissimi temi della sua opera, sembra tornare ancora una volta, come in filigrana, quel ricordo lontano: in certi gesti della protagonista, nel suo rapporto insieme fondamentale e sfuggente con il suo popolo. Il teatro non è più un’utopia totalizzante, ma un sogno individuale, quasi privato – se i suoi effetti non riverberassero misteriosamente sull’intera comunità. Il canto della protagonista è una trasparente metafora dell’attività dello scrittore. Le sue difficoltà e sofferenze, quel soffio che è insieme canto e malattia, offrono una toccante proiezione autobiografica; così come il “popolo dei topi” è una trasposizione del popolo cui Kafka sentiva di appartenere.
Chi, provenendo dal teatro, s’accosti all’opera dello scrittore praghese, non può eludere le sue sfide, che tracciano insieme nostalgie e speranze, utopie e incubi: quei frammenti di “scienza del corpo” e il loro rapporto con la scrittura, l’inevitabile fallimento dell’attore, il trionfo di una dimensione trionfalmente spettacolare, la necessità di immaginarsi e inventarsi il “fischio”, così difficile da cogliere e da definire, in cui consiste l’arte di Giuseppina la cantante.

IL LINK
America di Giorgio Barberio Corsetti visto da Oliviero Ponte di Pino.

Vedi anche Guido Massino, Fuoco inestinguibile. Franz Kafka, Jizchak Löwy e il teatro yiddish polacco, Bulzoni, Roma, 2002.




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