teatro e ricerca 2024 | Per una ricerca della ricerca

Apologia della pratica teatrale interiore per andare oltre le macerie del passato

Pubblicato il 21/05/2024 / di / ateatro n. 196 | teatro e ricerca 2024

Accolgo l’invito di Raúl Iaiza a stendere su carta alcuni pensieri, riflessioni, sulla pratica teatrale più specificatamente definita di “ricerca”.
Pare ci sia un nuovo interrogarsi su questa pratica, poiché la “ricerca” è una pratica cioè un praticare il “cercare” che in sé mantiene fortemente il senso della natura umana.

Teatro delle Bambole, Se Cadere Imprigionare Amo (ph. Luca Di Bartolo)

Esiste, sappiamo, una ricerca definita “pura” e che, quindi, lascia aperte le porte della pratica stessa a tutto ciò che giunge a livello “energetico”, in primis, vibrazionale, tellurico, pur premettendo una ipotesi, altrimenti ricerca, comunque, non sarebbe ma inutile girovagare nel mondo di una illusoria ragione pura, tutta costruita a nostre umane sembianze.
Ma “breve” è la durata della ricerca pura. Breve poiché l’uomo non può immaginarsi senza scopo, senza un fine; egli è già insistentemente inserito nella programmatica partecipazione sistemica la cui sintesi è spesso un riflesso degli stessi corpi frutto di quella stessa ricerca e presto mangiati e digeriti, nella bulimia dei rifiuti esistenziali da cui gli avvoltoi-artisti attingono per dare lustro alle proprie idee. Dunque la “ricerca pura”, che pure è utilissima ed indispensabile per la ragione che nutre in sé il suo esser-ci, si tramuterà in “ricerca applicata” nel presto momento dell’accadimento delle sintassi alogiche a cui siamo stati abituati da tempo immemore sopportandone il colmo non-creativo.
Noi dobbiamo guardare al presente, senza che esso sguardo domini l’avvenire, per poter accogliere adeguatamente il passato che tanto rimpiangiamo. Sembra che ci si lamenti (con istanze inappropriate) della odierna mancanza di “maestri” in grado di volgere la ambrata “ricerca” (teatrale) a più degni consensi intellettuali (intellettualoidi). Accecati dai nomi dei maestri del passato che hanno tracciato la via, per l’appunto, maestra, non riusciamo o non vogliamo volgere il nostro sguardo alla realtà della ricerca attuale (anche pura, evidentemente nuova “moda” in essere nel mondo del teatro, visto che si riprende a parlarne ravvisando un gongolamento “auto-incensario” per l’avvenuta “scoperta”, avviata da qualche insoddisfatto accademico nostalgico delle “vere avanguardie”), malinconicamente dispersi in afflati stanislavskiani o grotovskiani, dai quali mai più, giammai!, riusciamo a distaccarci e a distinguere la bontà delle diversità insite nei processi di ricerca che, altrimenti, tali non sarebbero.

Teatro delle Bambole,

Ma ecco che emerge un nuovo e non casuale fattore: la potenza della volontà di potenza economica a sostegno del “maestro”. Ciò che, nel tempo, pare essere rimasto, quasi scolpito nella memoria come nell’etere, ha potuto esserlo grazie alla forza di un’economia che ha inteso investire e sviluppare processi di ricerca artistica con la profusione di denari per lo più statali (quindi tasse dei cittadini), talvolta premunendosi enormemente l’aggiudicata destinazione delle “spoglie del Santo” (come la storia insegna, esse hanno sempre portato lustro e potere politico alla città che le conservava, attribuendo alla stessa persino il potere di appropriazione delle reliquie), volta ad accrescere l’effetto di destinazione delle somme da investire, creando dunque un’economia che guarda sempre alla ricerca (di cosa, a questo punto?). Da qui tutto il sistema dei premi, dei circoli e circoletti artistici, dei critici, degli spettatori, delle mode, delle Accademie, in-stallati per l’obbligo al foraggiamento esistenziale e, quindi, ideologico. Tale ideologia (della ricerca sperimentata in quanto tale e cioè anche quale sistema “clero-proletaristico” assolutistico) è alla sommità delle protuberanze estetiche imposte dal “governo della messa in scena” e che nulla hanno a che vedere con la ricerca in sé, pura o applicata che sia.

Teatro delle Bambole

Così abbiamo un teatro che deve esser fatto in un determinato modo perché i parametri segnati dal sistema artistico-teatral-economico-sperimentale-di ricerca, benedetti dal “santo” e sostenuti da una fervida economia di stato, hanno determinato l’omologazione generazionale dell’intuizione artistica, praticamente una cecità permanente che non consente la benché minima intromissione di un pensiero “altro”, di una visione “altra”, poiché l’Altro è già stato assolutizzato e, come tale, procede per decenni, anzi, per secoli, alla monolitica fabbricazione automatica delle menti che si ispirano unicamente a un passato non rappresentato. Giacché “tutto” diviene “sistema”, non potrà mai esistere un “altro” di “Altro” e, se esistesse, esso verrebbe immediatamente tramutato in elemento di consumo, sempre che vi sia una preponderanza politico-economica-statale-comunitaria a suo vantaggio. Altrimenti nisba. È un po’ ciò che tutti noi facciamo, automaticamente, quando ci approcciamo a un’opera d’arte consumandola, ossia la proiettiamo su un tappeto di nostre conoscenze, sia per banalizzarla, cioè renderla a noi più “comprensibile” per poi non com-prenderla affatto, e sia per demolirla o demonizzarla cacciandola nell’oblio assoluto, colpevole di aver attentato a un sistema consolidato di idee, sistema che la ricerca mette sempre in discussione per definizione.
Il sistema che ha condotto alla mercificazione della ricerca, e i maestri che hanno consentito a tale degrado disonesto e mortificante, avrebbero il sapore della “colpa”, se non fosse tutto così aleatorio, piuttosto che la loro perpetua celebrazione proprio come figure santificate o beatificate. “Santini della ricerca”, ormai, perché nel loro nome essi contengono il senso “magico”, quasi “totemico”, del cambiamento, pur ignorandone totalmente l’essenza e il vero insegnamento: chi, oggi, sarebbe realmente in grado di rendere il processo di sintesi, per esempio, di Stanislavskij? Essi stessi, maestri della ricerca del passato, ancora oggi sfruttati a ridondanza del capitale, essi stessi continuamente figli dei loro epigoni, ormai soltanto esistenti in quanto nomi ripetuti a caso, nel vuoto colossale della scatola orrifica che chiamiamo impropriamente pensiero, accozzaglia di tesi volte a rimarcare un’attualità che è prettamente economico-consumistica e non artistica e culturale, oscurando di fatto le molteplici realtà che con il coraggio del creare dedicano l’intera esistenza allo stupore della scoperta.

Oggi, se vogliamo parlare di ricerca teatrale, dobbiamo poter guardare innanzitutto alle esperienze estetiche, alle forme e alle dinamiche estetizzanti, quali processi che non interrogano più la realtà (artistica) ma solo quella egoistica ed egoriferita, unicamente quale abbagliante inganno di una decantata profondità pedagogica inconsistente, maceria di un passato quale impalpabile “altrove”. E dovremmo anche guardare alla nostra totale incapacità di riconoscere, oggi, i maestri, e smetterla di lamentarci perché crediamo che non ve ne siano più ma, piuttosto, lamentarci della nostra incapacità di riconoscerli, grave mancanza di stupore e di intelligenza e di opportunità verso noi stessi e azione delittuosa che tende a privare una società di figure propositive e propulsive nell’ottica del cambiamento artistico, sociale, culturale, spesso denigrando l’esistente e promuovendo una tensione gerarchica basata soprattutto sul potere economico (con tutto ciò che questo significa e comporta) e mai sulle idee (la cui forza ben conosciamo e la cui attrazione alla censura egualmente apprendiamo quotidianamente).

Teatro delle Bambole, Kafka nel regno dei cieli, (ph. Andrea Casini)

In questo meccanismo delittuoso, la perdita della figura dell’intellettuale è certamente concausa della nascita di misteriosi e angoscianti interrogativi su un qualcosa che nemmeno capiamo, che non sappiamo riconoscere, riferendoci un po’ a vanvera a sistemi e grafici d’impotenza fattuale, rendendoci ridicoli e impagliati corpi stesi sull’obliquità della nostra noia, rendendo fatuo in nostro stesso interrogarci, date le premesse. È una pericolosa “fenomenologia della domanda”, un inutile muoversi alla cieca laddove le ragioni della volontà (ossia del senso delle cose) sono spesso vacue, poiché troppo presenti e troppo determinate, mentre la ricerca (delle domande) avviene con il determinare l’indeterminatezza e, quindi, attiene ad un sapienza rara, superiore, indicibile e irriconoscibile dai sonar troppo pieni di dettami.
Mi piacerebbe poter spostare il focus sul concetto di estetica teatrale, poiché in esso si possono sviluppare questioni legate all’esercizio del potere culturale, che copre interessi concreti di egemonia, tanto in campo artistico quanto in campo sociale, di genere, o nei rapporti tra culture diverse. L’egemonia a cui faccio riferimento è quella politica, direttamente connessa con quella delle “mode e degli stili”, la cultura del riflesso incondizionato: comprare un pensiero, non avendone, con lo sguardo rivolto sempre al passato.

Andrea Cramarossa è Maestro Concertatore del gruppo di ricerca teatrale Teatro delle Bambole




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