Teatro Fonderia Leopolda | Sul palcoscenico del mondo
L'intervento a "Lo spazio del possibile" , Follonica, Teatro Fonderia Leopolda, 26 maggio 2023
Il 26 maggio 2023 il Teatro Fonderia Leopolda di Follonica ha ospitato Lo spazio del possibile. Eugenio Allegri e il teatro come politica culturale dei territori, la giornata di studi promossa dal Comune di Follonica e dal Teatro Fonderia Leopolda, contenuti e curatela a cura di Oliviero Ponte di Pino (Ateatro) e Luana Gramegna (Zaches Teatro), organizzazione, logistica e tecnica a cura di Ad Arte Spettacoli srl.
Quella che segue è la relazione di Michele Martelli (filosofo, saggista, già docente Università degli Studi, Urbino). Nei prossimi giorni pubblicheremo le altre relazioni e il report della giornata.
Info sull’iniziativa alla pagina Lo spazio del possibile. Eugenio Allegri e il teatro come politica culturale dei territori.
Nei prossimi mesi Ateatro rilancerà il progetto con nuovi approfondimenti e incontri.
Leggendo questo breve saggio, Riflessioni circa il ruolo presente e futuro di un teatro comunale in Italia, l’ultimo scritto di Eugenio Allegri, forse il suo inconscio testamento spirituale, si ha l’impressione di vederlo salire sul palcoscenico tipo questo del Teatro Fonderia Leopolda, e cominciare a recitare un suo, anzi il suo monologo, l’ultimo, dall’ «incipit autorevolissimo», come egli stesso auto-ironicamente scrive, sul legame tra il «teatro di un [piccolo] territorio» e «il destino dell’intera nazione». Ma, autoironia a parte, va subito detto che in realtà nel saggio Eugenio si misura a tutto campo, da autentico intellettuale critico, con i problemi fondamentali della nostra epoca. Le sue argomentazioni coinvolgono infatti i le tematiche del Lavoro e della Costituzione italiana, del Profitto e del liberismo globalizzato, del Potere politico e dei principi della democrazia, ossia l’eguaglianza e l’inclusione, della tecnocrazia e della sua onnipotenza e duplicità, del presunto «“Uomo Nuovo”: l’uomo del terzo millennio», il webete dei media e dell’interconnessione globale, dello sfrenato e compulsivo consumismo di massa.
Nelle piacevoli conversazioni amichevoli con Eugenio, nelle interviste orali che ha spesso rilasciato, nelle introduzioni alle prove, in qualità di regista, per esempio di Mistero Buffo, a cui ho potuto assistere anche qui a Follonica, ho apprezzato la sua grande memoria, abilità e fascino narrativo, e ancor più la ricchezza trasbordante degli argomenti, sempre trattati in modo non unilineare, ma circolare, per così dire a cerchi concentrici, come tanti sassolini gettati in uno stagno. La stessa cosa si percepisce leggendo le Riflessioni, dove ogni pagina si irraggia e intreccia con le altre, le contiene in sé potenzialmente. Secondo un principio filosofico neoplatonico che ricorda l’Umanesimo rinascimentale, per cui nel microcosmo c’è il macrocosmo. E che è chiaramente contenuto nelle parole, citate da Eugenio (p. 9), del «grande pedagogo teatrale francese Jacques Lecoq», il maestro della Commedia dell’Arte a cui si richiamava anche il Dario Fo giullaresco di Mistero buffo: «Andare in fondo a una cosa permette di scoprire che essa contiene tutto. Trascorri la vita in una goccia d’acqua e vedi il mondo».
Tra la goccia d’acqua e il mondo non c’è cesura, nella goccia si specchia il mondo, nell’istante l’eterno. Come sperimentò lo stesso Eugenio, che in una sua memoria autobiografica racconta dello stage giovanile a Bologna proprio con Lecoq, quando, dopo aver improvvisato un pezzo senza riuscire, per l’emozione, a profferir parola, dall’imprevisto riso del maestro capì definitivamente che il teatro sarebbe stata la sua vita. Altrimenti avrebbe lasciato. Un istante può essere lo scrigno di tutta una vita.
Dunque, la goccia d’acqua e il mondo. O l’atomo e il mondo, come si legge più avanti. Se il piccolo, il micro è autentico, in esso c’è potenzialmente anche il grande, il macro. E perciò egli è polemico «con le grandi concentrazioni editoriali, televisive, social-informatiche, accademiche, private e ahinoi anche pubbliche», che «svuotano le casseforti dei finanziamenti» statali e lasciano ai «piccoli» le briciole, con «conseguenze catastrofiche» per le comunità locali (p. 19). Grandi concentrazioni che sono ovviamente condizionate dal Potere che le finanzia. Dunque non libere, né autonome e indipendenti.
La preferenza di Eugenio in questo saggio va invece ai micro-teatri, ai laboratori teatrali di periferia, di quartiere, dei piccoli centri e comunità locali. Perché? Per la ragione che solo essi sono in grado, a suo avviso, di esprimere cultura, partecipazione e creatività dal basso, nonché scambi orizzontali di esperienze, tecniche, programmi, innovazioni, capaci di allargarsi, a cerchi concentrici, in spazi sempre più vasti. L’auspicio di Eugenio è la creazione di un «maxi-sistema» in grado di coinvolgere «artisti, uomini di cultura, maestranze, studiosi, intellettuali, dirigenti, politici» (p. 10). In un ampio progetto politico-culturale, in cui teatro, arte e cultura non siano privilegio elitario, di pochi, ma patrimonio collettivo, di tutti. In questa visione, tra piccolo e grande teatro non c’è contrapposizione, come non c’è tra atomo e universo, goccia d’acqua e mondo, microcosmo e macrocosmo: l’uno presuppone l’altro, l’uno non sta senza l’altro. Nel ristretto spazio del palcoscenico, sia di un piccolo o di un grande teatro, che cosa si recita infatti se non la tragedia e la commedia dell’intero genere umano, sotto forma di vicende e personaggi particolari?
In alcuni brani Eugenio si spinge a ipotizzare una funzione salvifica del teatro, dell’arte, della cultura, condizione da cui dipende il presente e il futuro dell’umanità, la sua forse unica possibilità di «salvezza dal pericolo della barbarie» (p. 10). La cultura infatti non è che l’uscir fuori, l’emergere dell’uomo dallo stato belluino, prepolitico e precivile, dell’egoismo, della paura, dell’insicurezza e della violenza, della «guerra di tutti contro tutti» (Thomas Hobbes). Se ne trova una traccia dove Eugenio parla pessimisticamente degli uomini contemporanei «pronti a prevalere l’uno sull’altro col coltello fra i denti, o meglio nascosto dietro la schiena» (p. 15). Al contrario, i valori della cultura sono valori universali, in cui tutti possono riconoscersi, una sorta di sovramondo, o nuovo mondo in cui finalmente può rilucere l’umano, l’universalità e autenticità dell’umano.
Nel corso della lettura del saggio, ti imbatti inoltre, sin dall’inizio, in nomi di grandi intellettuali. Per esempio, in quello di Ernst Bloch (p. 8), il noto filosofo comunista tedesco dell’«Utopia Concreta», di cui è citata la frase seguente: «l’uomo non vive di solo pane, soprattutto quando di pane non ne ha» (la citazione è tratta parzialmente dalla Bibbia (Deuteronomio 8,3; Mt 4,4 e Lc, 4,4]. Il senso è che l’uomo vive di nutrimento non solo materiale, ma spirituale, culturale. Conformemente all’apologia della cultura che Eugenio sviluppa nel suo scritto. Ma che dire a chi «di pane non ne ha», agli affamati di cibo materiale? Come rispondere al loro disperato appello? Ecco, la filosofia utopica di Bloch vuol essere una risposta, così come l’impegno etico-politico del «compagno Berlinguer», in cui Eugenio, mi confessava nei nostri colloqui, si era sempre riconosciuto.
Ho detto «compagno». Ebbene, non è inopportuno ricordare che la parola proviene dal latino cristiano-medioevale cum panis (cum = insieme con, e panis = pane), e indica chi condivide il pane con altri, «coloro che mangiano lo stesso pane», in senso sia materiale sia culturale Mi chiedo se c’è un rapporto tra il Bloch filosofo dell’Utopia Concreta e lo spettacolo teatrale di Eugenio sul «compagno Berlinguer». Qui, in una scena memorabile, Eugenio, fissando lo sguardo in lontananza, dice di stare a dieci passi dall’Utopia, ma poi, di dieci passi in dieci passi, l’Utopia è sempre lì davanti, inafferrabile e irraggiungibile: «serve però a camminare», è la morale. Non solo a camminare, ma a progredire, a migliorare.
Arrivi alla fine del saggio, e leggi «Dedicato a Enrico Berlinguer», il segretario generale del PCI dal 1972 al 1984, sul quale Eugenio recitò lo spettacolo omonimo nel 2014, Berlinguer. I pensieri lunghi, regia di Giorgio Gallione, che era anche uno spaccato sul PCI e i primi 40 anni della storia dell’Italia repubblicana: uno spettacolo in cui Eugenio. profonde tutta la sua eccellenza attoriale e artistica, ma soprattutto la sua passione etica, politica e civile per un’Italia forse considerata non ancora del tutto perduta.
La figura di Berlinguer, è stata centrale nella formazione giovanile di Eugenio, come egli stesso testimonia in alcune interviste. Dove tra l’altro confessa di essersi trovato, poco più che ventenne, dinnanzi ad un bivio: che faccio, il politico di professione (era militante del PCI e consigliere comunale a Grugliasco) o intraprendo la carriera dell’attore? E dove racconta commosso l’aneddoto del suo non-incontro con Berlinguer, che casualmente alle Botteghe Oscure a Roma, gli passa davanti, gli rivolge un rapido sguardo e scompare per le scale diretto al suo ufficio di lavoro: una «figura angelica», commenta, «un servitore della politica», un lavoratore, dalla «faccia stanca». Morto per un ictus cerebrale, dopo un comizio finito a stento a Padova l’11 giugno 1984. Sul lavoro.
Anche Eugenio, negli ultimi tempi, aveva la faccia stanca. Lavorava senza risparmiarsi. Per lui il lavoro era sacro, egli proveniva da una famiglia operaia, e credo di non allontanarmi dal vero se dico che si riteneva un «lavoratore dello spettacolo», e che qui, nella Fonderia Leopolda dismessa, storica sede di duro lavoro operaio, si ritrovasse e lavorasse come a casa propria. Nel saggio cita l’immancabile Primo Articolo della nostra Costituzione «fondata sul Lavoro», espressione di un’autentica cultura politica e legislativa «a difesa della dignità dei lavoratori», «antagonista», egli scrive, a quella «economico-industriale-commerciale, ultraliberista e semplicemente scellerata» delle classi dominanti (pp. 20-21). Perché scellerata? Perché divinizza il profitto, whatewer it takes (Mario Draghi) e cosifica e mercifica il lavoratore, calpestando la sua dignità umana.
Al contrario, si può dire, e credo che Eugenio sarebbe d’accordo, che il lavoro, valorizzato o disprezzato che sia, è comunque la base fondante, strutturale di ogni tipo di organizzazione sociale. Friedrich Engels, stretto amico e collaboratore di Karl Marx, nel suo famoso scritto del 1876, Parte avuta dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia, osservava che è stato il lavoro (non Dio, di cui nulla si sa) a creare l’uomo. Tutto ciò che è umano, che è conquista e progresso della civiltà umana, non si sarebbe realizzato senza la parte decisiva rappresentata dal lavoro.
La mente, lo spirito inteso come sostanza auto-sussistente separata dal corpo, dalla materia, non produce nulla, anzi non è nulla. Non solo l’operaio, ma lo scrittore, il poeta, il pittore, lo scienziato lavora non solo con la mente, ma con le mani, maneggiando le macchine, la penna, il pennello o la tastiera del computer. Il pensiero concettuale non è che il riflesso attivo, la sintesi della prassi lavorativa. Anche l’attore teatrale, e ancor più il «giullare» della Commedia dell’Arte tanto amata da Eugenio, parlerebbe non molto dissimilmente da un robot, se non potesse esprimersi oltre che con la vocalità anche col linguaggio delle mani, della gestualità, del movimento corporeo, della mimica facciale. Eugenio, sulla scia di Lecoq, lo ha magistralmente spiegato nel suo intervento sul valore e le tecniche delle «Giullarate» dopo le prove di Mistero Buffo alla Scuola Normale di Pisa (Problematiche e presupposti per la messa in scena di Mistero Buffo di Dario Fo, in AA.VV., Ripensare Dario Fo. Teatro, lingua, politica, Mimesis, Roma, 2020, pp. 145-158).
In conclusione, alla fine della lettura del saggio hai l’impressione che il piccolo palcoscenico di Follonica si sia progressivamente allargato alla scena mondiale, sia diventato il palcoscenico del mondo, della storia del mondo. E ti sembra che Eugenio abbia recitato il monologo della sua vita, della sua autobiografia, del suo pensiero, per spunti e cenni essenziali. Si adatta allo scopo una frase del pittore Victor Brauner, il genio rumeno del surrealismo, trasmigrato a Parigi prima della Seconda guerra mondiale: «La mia pittura è autobiografica. Racconta la storia della mia vita. La mia vita è esemplare, perché è universale» (Robinson, inserto de «la Repubblica» dell’8 aprile 2023, p. 38).
Altrettanto possiamo dire della vita, e dell’opera, di Eugenio Allegri.