Rito e conoscenza nelle rivoluzioni teatrali del Novecento
A proposio del saggio di Marco de Marinis: Grotowski e oltre
Il 9 maggio 2023 si è tenuto in Bolzano29, a Milano, l’incontro Jerzy Grotowski | Oltre la rappresentazione, in occasione della pubblicazione del volume Jerzy Grotowski. Il superamento della rappresentazione (Editoria&Spettacolo, 2023).
Con l’autore Marco De Marinis ne hanno discusso Simone Faloppa, Raúl Iaiza e Oliviero Ponte di Pino, con un intervento in diretta da Buenos Aires di Estela Castronuovo (il video dell’incontro è disponibile sul canale YouTube di Ateatro).
Questo il contributo di Estela Castronuovo.
Buenos Aires
Che cosa significa il riferimento al rituale quando si tratta di descrivere la rivoluzione teatrale del Novecento?
Ancora una volta, Marco De Marinis ci invita a discutere certe idee cristallizzate dalla doxa teatrologica, in questo caso riguardo a Jerzy Grotowski, certamente un nome impossibile da eludere se vogliamo veramente capire il senso profondo di quella rivoluzione. E ci lancia la sfida nel suo stupendo libro Jerzy Grotowski. Il superamento della rappresentazione, in occasione di una significativa presentazione pubblica a cura di Oliviero Ponte di Pino e Raúl Iaiza, a Milano, il 9 maggio scorso.
Fin dall’inizio, Grotowski ci esorta a evitare la pretesa di imitare a teatro il rituale religioso; invece, nella sua idea del teatro concepito come un “atto totale” dell’attore, propone trovarne degli “equivalenti laici”. Questo teatro dell’atto totale propone andare oltre, superare il “teatro della rappresentazione”, il quale cerca di costruire sulla scena un doppio apparenziale, fittizio, un simulacro della realtà (sociologica, inoltre), cioè il teatro e la realtà sono considerati ontologicamente diversi, opposti (solo “la realtà“ sarebbe “reale”, vera; lo spettacolo è imitazione, mimesi, simulacro fittizio).
Tuttavia, fin dalla fine dell’Ottocento, i filosofi e i pensatori (il primo tra di loro, Friedrich Nietszche), si consacrarono a mettere violentemente in discussione questa nozione di “realtà” sociale, un’idea egemonica, imposta dalle istituzioni, l’arte e la letteratura borghesi, e la denunciano come una “maschera”, una menzogna, un costrutto ideologico e culturale che nascondeva, cancellava, reprimeva “il reale”: l’essenziale, dirà Grotowski.
Mi piace particolarmente questa differenza tra “la realtà”, sociologica, culturale, ideologica, e “il reale”, la vera essenza del mondo e della vita, che tutte le maschere mendaci e ingannose imposte da questa mistificazione socio–culturale non ci permettono di raggiungere. Soltanto l’arte, la vera, l’autentica arte, possiede il potere di stracciare le false apparenze della realtà e svelare il reale, la verità profonda, di natura sacra, della vita e dell´essere umano.
Ecco il progetto centrale dell’arte nel primo Novecento: il teatro come gnosi, come esperienza esistenziale e via di conoscenza, che il maestro polacco centra in pieno, procedendo fino in fondo nella stessa direzione. Come diceva Grotowski: “Io non vengo a scoprire niente di nuovo; vengo a ricuperare qualcosa di dimenticato”. A proposito, veramente bello il riferimento etimologico che ci propone Hans-Thies Lehmann nel suo splendido Tragedia e teatro drammatico: “esperienza” proverrebbe dal latino “esperire”, “attraversare un pericolo”; ciò ci fa pensare alla radicalità e al rigore della ricerca grotowskiana: searching for the essential, così, come ci ricorda Marco, definiva Richard Schechner lo scopo che il lavoro teatrale aveva secondo Grotowski, ricuperare, ritrovare “il reale” primigenio e primordiale nascosto, mascherato, represso dai costrutti socio – culturali e ideologici. Ecco il senso profondo dell’avvicinamento tra teatro e rituale
Peraltro, il Novecento scoprì che “il reale” può risultare feroce, terribile, straziante; è sempre al di là del Logos, di ogni tentativo di comprensione e di rappresentazione razionale. La ragione, infatti, e particolarmente quella “pura” di Kant, non è stata capace di spiegarlo, giustificarlo e, ancor peggio: prevederlo e ripararlo. E’ indicidibile e irrappresentabile. Tanti avatar ebbe “il reale” nel secolo XX e oltre: il nazismo e Auschwitz, i Balcani, il genocidio armeno, la tragedia dei rifugiati nell’Europa odierna.
Tentativi di denominazione ce ne furono, sempre sul piano estetico: il dionisiaco di Nietszche, il mysterium tremendumn et fascinans del Simbolismo, il sentimento dell’assurdo di Camus, Beckett, Ionesco; il doppio e la crudeltà di Artaud, l’essenziale di Grotowski.
Queste ricerche del primo Novecento saranno riprese e sviluppate nella seconda metà del secolo e che senza dubbio forniscono un contesto fondamentale di domande e inquietudini alla personale soluzione proposta dal maestro polacco, come ci spiega così chiaramente Marco. Un’ambito fondamentale della ricerca grotowskiana è il lavoro dell’attore su se stesso, l’attore dell’atto totale, il Performer, il doer, quello che non recita, non incarna un personaggio: l’attore che compie un’atto (letterale, chiarisce Marco), ontologicamente reale, anzi più reale della mendace “realtà” che circonda il teatro. Ciò significa la cancellazzione della nozione, propia del teatro borghese, di “personaggio”, concepito como un’individualità socio–psicologica, la quale è pure un simulacro, una maschera (l’etimologia ancora: “persona” in latino significa “maschera”).
Per Grotowski il personaggio è soltanto uno strumento che deve aiutare l’attore a “studiare ciò che è nascosto dietro la maschera di ogni giorno – l’essenza più intima della nostra personalità – per offrirla in sacrificio”. Un’essenza che, come risultato del lavoro attorale, si rivela come supra–personale, ancestrale anche. Quella del personaggio drammatico–scenico è paralella a un’altra crisi, un’altra esperienza radicale del Novecento: la crisi del soggetto individuo borghese, una delle categorie che fondarono la Modernità in Occidente. Si tratta di rompere a pezzi l’ego per rivelare l’Io: il Sé. Ci sono ricerche simili in diverse proposte teatrali del Novecento: per esempio, l’uomo totale del teatro Espressionista tedesco, traduzione dell’Übermensch di Nietszche, superamento assoluto dell’essere umano alienato della quotidianità.
Grotowski propone che il teatro sia il campo di eccellenza per compiere questa fondamentale ricerca esistenziale .
Ma perché mai il teatro sarebbe l’ambito privilegiato per conoscere noi stessi in profondità, quando sono a nostra disposizione la sociologia, la filosofia, la psicología, ecceera? Il teatro, nella pratica concreta del maestro polacco, è inanzitutto un’esperienza radicale, alchimistica si potrebbe dire (su questo punto Marco è particolarmente insistente), un’esperienza di scambio energetico tra i corpi compresenti nello stesso spazio che ci trasforma, agli attori e a noi, gli spettatori. Il teatro, e solo il teatro, può provvedere un’esperienza simile.
Per finire, la famosa “dialettica di derisione e apoteosi”, alla cui feroce azione di rovesciamento e sovverzione Grotowski sottomette, consapevolmente, i suoi materiali, ci porta a quella forma scenica, propria della teatralità del Novecento e ancora prevalente nel “teatro postdrammatico”: il Grottesco (Mejercol’d, Pirandello, Gombrowicz, Dürrenmatt, ma anche Heiner Müller, Sarah Kane, Ronald Schimmelpfenig); solo del Grottesco (nel teatro e fuori del teatro) il nostro povero mondo ha il diritto di considerarsi degno. Ma questa è un’altra questione.
Il video della presentazione in Bolzano29
Le opere complete di Jerzy Grotowski a cura di Carla Pollastrelli
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