Focus AdoleScen[z]a | Oltre il disagio della pandemia, la “sperfezione”

Alcune considerazioni su disagio e identità

Pubblicato il 20/12/2022 / di / ateatro n. 190 | Focus AdoleScen[z]a

La pandemia ha fatto soffrire moltissimo gli adolescenti e i preadolescenti: irritabilità, solitudine, assenza di routine, irrequietezza… Qualcuno di loro ha visto morire i propri cari, qualcuno ha avuto paura di morire. Gli amici sono stati lontani per molto tempo, gli amori resi difficili. La situazione d’incertezza ha generato in tutti loro un senso di impotenza. I ragazzi si trovano già in quell’età in cui si ci sente sbagliati, inadatti, incompleti; ma quello che hanno passato fa sì che oggi le emozioni siano vissute in maniera più acuta, si soffre di non essere ascoltati, chi sperimenta la solitudine la vive come vera e propria esclusione dal mondo. Tutto questo si è acutizzato e si è manifestato in maggior numero di abbandoni scolastici, crescita del fenomeno degli hikikomori, difficoltà ad affrontare gli ostacoli della vita quotidiana… Gli psicologi hanno visto aumentare negli ultimi mesi le richieste di aiuto. Ma vi è un dramma ancora più sottile: quello di chi l’aiuto non lo chiede e non sembra nemmeno averne bisogno, perché è diventato così competente nella gestione della propria immagine di facciata da riuscire a rendere invisibile la propria fragilità.

Con il normalizzarsi della situazione, gli adulti provano a correre ai ripari, cercano di raccogliere i cocci. Il mondo è stato toccato dal male e cercano di riaggiustarlo in qualche modo. Il tema della “cura” è divenuto centrale: le arti, il disegno, la musica, il teatro curano, possono consentirci di dire che stiamo male, che siamo arrabbiati, frustrati; mettono a fuoco gli inciampi, i fallimenti (che non vanno temuti), l’imperfezione o meglio la sperfezione.

Non si tratta di intrattenere, di divertire, si tratta di offrire uno spazio di libertà espressiva. Si tratta di trovare forza, fuoco.

“Sì, ce la caveremo.
E non succederà niente di male.
Esatto.
Perché noi portiamo il fuoco.
Sì. Perché noi portiamo il fuoco.”
(Cormac Mc Carthy, La strada)

Nel romanzo La strada il padre cerca di proteggere il figlio dai pericoli esterni, ma soprattutto dal buio che si può insinuare nella sua anima. Il padre resiste perché ha un figlio da salvare e il figlio ce la fa perché ha un padre.

Le scuole sono tornate ad investire nell’arte, in particolare nel teatro. E non solo le scuole. Regione Lombardia ha investito 7.004.698,00 euro nel bando “Giovani SMART (SportMusicaARTe)”, che

sostiene la realizzazione di progetti mirati ad azioni di contrasto ai fenomeni del disagio giovanile attraverso la promozione e il supporto di percorsi di crescita, partecipazione e inclusione sociale, nonché opportunità di supporto psico-fisico ai giovani, mediante l’organizzazione di laboratori artistici e musicali e l’accesso, gratuito e libero, alle attività sportive sul territorio.

IL LINK
Il bando “Giovani SMART (SportMusicaARTe)”

Ma i giovani fanno fatica a partecipare. Se sono laboratori scolastici, la cui frequenza nella maggioranza dei casi è obbligatoria, la partecipazione è garantita, ma se si tratta di laboratori promossi sul territorio, nei CAG (Centri di Aggregazione Giovanile), nelle biblioteche o in altri centri culturali, spesso i giovani disertano: la loro inquietudine si trasforma in apatia, in non-impegno. Non tutti, non sempre. Accade soprattutto a quelli che nascono in famiglie svantaggiate, che difficilmente accedono a pensieri e pratiche diversi da quelli che frequentano quotidianamente; oppure a chi vive nelle cosiddette “aree interne”, ovvero luoghi poco collegati ai centri primari e quindi tendenzialmente ripiegati su loro stessi. Neppure gli adulti (insegnanti, genitori…) credono fino in fondo che sia utile investire tempo ed energie in attività che non danno risultati immediati. Perché il teatro è vissuto come marginale, non è competitivo come lo sport, non si vince nulla, e non dà titoli, come invece fa la scuola.
Nel suo post su Instagram Il secchione terrorizzato che sono stato, Jonathan Bazzi, romanziere nato a Milano nel 1985, cresciuto a Rozzano, estrema periferia sud della città, scrive:

Conosco bene il sogno dell’eccellenza, della competizione con sé stessi e gli altri. Ed è una malattia, un’allucinazione malefica scambiata da tutti per trofeo, meraviglia. Prendevo i voti più alti ma ero senza dubbio il più fragile, sempre sul punto di andare in mille pezzi: avevo bisogno di quel piedistallo perché sentivo di non valere niente, perché dentro ero completamento cavo, disconnesso, vuoto. Avevo bisogno del risultato insuperabile, incontrovertibile, per cercare di mettere a distanza l’incapacità di accettare di essere me, solo me. Per riuscire a essere il migliore, senza ombra di dubbio il migliore, ho abbandonato passioni profonde, ho rinnegato parti di me. Basta lezioni di canto, basta romanzi: studiare e basta, studiare come una macchina che non sente niente, che nient’altro deve sentire.

Eppure non c’è vittoria migliore che riuscire ad essere sé stessi.

La gioia non deriva mai dall’altro, dall’approvazione della gente, ma è dichiarata da sé stessi, la gioia è l’approvazione che ciascuno dà di sé stesso. È una sensazione di significato, di pienezza di significato, una verifica che i propri ideali sono possibili e che in quel momento il mondo appare un’espressione della bontà e della compartecipazione, del legame, dell’alleanza.
(Vittorino Andreoli)

Non importa che tu sia grasso, magro, italiano, straniero, giovane, vecchio, non conta la tua identità sessuale o il tuo credo. Se fai un’esperienza artistica, qualunque siano le tue caratteristiche sono sempre un vantaggio. Ne puoi trarre sempre un vantaggio. Ciò che costruisci, il prodotto artistico a cui lavori, contiene una parte di te con la quale puoi entrare in dialogo. Anche quello che non ti piace, che rifiuti, anche ciò che consideri scarto.
Oggi, l’identità è uno dei grandi temi che stanno a cuore ai giovani, la reclamano in modo schietto, talvolta anche sfiorando la retorica (come è giusto che sia a questa età, per il disincanto ci sarà tempo). È un po’ il loro tormentone e la loro rivoluzione. Definire la propria identità richiede un processo che può coincidere in modo stupefacente con quello artistico: l’arte ti definisce come individuo unico; ciò che crei somiglia a te, è originale, non deve uniformarsi. Arte e unicità si sposano. Anzi, arte e ciascunità, come dice James Hillman.
Sulla porta di una gluten free bakery, gestita da sole donne, a Brunswick nel Maine, è appeso un cartello che potrebbe essere apposto fuori dai laboratori d’arte, dove le differenze sono viste come stimoli verso nuove possibilità, nuove forme di appartenenza.




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