Una conversazione con Federico Tiezzi (1988)

Da Il nuovo teatro italiano 1975-1988

Pubblicato il 16/12/2005 / di / ateatro n. 000

Il nuovo teatro italiano 1975-1988

La ricerca dei gruppi: materiali
e documenti


di Oliviero Ponte di Pino

La casa Usher, Firenze, 1988

© copyright Oliviero Ponte di Pino, 1999

Parte 2

Gli analisti del nomadismo mentale

I MAGAZZINI

 

Dalla stagione ormai lontana del teatro-immagine fino
a oggi, il nucleo artistico formato da Federico Tiezzi (regista), Marion
D’Amburgo (attrice) e Sandro Lombardi (attore), cioè il Carrozzone,
poi Magazzini Criminali e ora semplicemente i Magazzini, non ha perso nulla
della sua forza di provocazione e della sua incessante capacità
di reinventarsi, in un itinerario straordinariamente ricco e articolato,
aderente alla realtà del momento e insieme legato a una fedeltà
di fondo.

Procedendo per sensibilità e anticipazioni, individuando
affinità elettive e linee di fuga, tra parole d’ordine e gesti emblematici,
affilando segni e immagini in performance da bruciare in un’unica occasione
o in spettacoli rigorosamente formalizzati, D’Amburgo-Lombardi-Tiezzi hanno
disegnato una possibile mappa del teatro di questa nostra fine-secolo.
Una vorace successione di appropriazioni e sconfinamenti ha progressivamente
messo a fuoco una serie di punti di riferimento, con un procedimento che
coniuga l’immedesimazione e la mitizzazione, la citazione per frammenti
e il contagio emotivo.

Artaud, le arti visive dal concettuale alla body art,
da Beuys a Duchamp, la musica dai minimalisti a Brian Eno, passando per
i concerti rock tenuti direttamente dai Magazzini criminali, la new dance
e il teatrodanza, Copeau e Gordon Craig, la metropoli e l’avventura, la
moda e la pornografia, Kerouac e Burroughs, Pasolini e il teatro di poesia,
Genet e Beckett, Welles e Fassbinder, finiscono così per comporsi
in una medita ma coerente costellazione. Perché questa mobilità,
questo vorace nomadismo mentale sono sorretti e insieme misurati da una
ossessione analitica, dalla puntigliosa riflessione sul senso e il funzionamento
dell’evento scenico, dalla formalizzazione di rigorose grammatiche teatrali
che ogni spettacolo costruisce e consuma.

Da questa assoluta radicalità, concretizzata in
una serie di azzeramenti e svolte emblematiche e anticipatrici, nasce la
capacità di porsi come punto di riferimento sempre mobile. E la
spinta a bruciare periodicamente tutti i residui, per avvicinarsi sempre
più, da direzioni diverse, al senso profondo e segreto della propria
ricerca.


 

CONVERSAZIONE CON FEDERICO TIEZZI

La storia del Carrozzone comincia…

…su un treno, quello che portava me, Marion D’Amburgo e Vera Bemoccoli,
che era una componente essenziale del Carrozzone, sia come attrice che
come scenografa, ad Arezzo. Questo treno veniva dalla Val di Chiana, mentre
Sandro Lombardi, solitario, arrivava dal Casentino. Dovevamo incontrarci
appunto ad Arezzo. Proprio lì si sono formate le nostre prime idee
teatrali: da allora non ne ho cambiata nessuna, rispetto a quello che penso
sia il teatro. Già allora mi trovavo in disaccordo con alcuni nostri
compagni di classe, che ancora adesso fanno teatro e che pensavano che
il teatro dovesse essere come le canzoni di Celentano: portatore di un
messaggio semplice e comprensibile, che potesse giungere alla gente. Io
invece ho sempre pensato che il teatro sia una forma educativa: un’arte
educativa che arriva alle persone attraverso lo sviluppo della “notte oscura”
che ognuno si porta dentro. Si può cercare una soluzione a questa
“notte oscura” immergendosi completamente in essa, oppure cercando una
via di uscita; la testimonianza di questa ricerca è la forma più
alta, più politica, più educativa, perché indica una
strada: una strada morale.

Ad Arezzo è nato il primo spettacolo del Carrozzone, Morte
di Francesco,
una strutturazione molto rosselliniana della vita di
san Francesco d’Assisi, giocata su grandi immagini, grandi silenzi. Le
poche battute erano tratte da Aspettando Godot: Beckett è
stato il primo autore di cui abbiamo discusso a proposito di una eventuale
messinscena, insieme a un altro testo, A porte chiuse di Sartre.
All’inizio di tutto ci sono però tre spettacoli molto brechtiani
e livinghiani, che avevamo fatto al liceo montando materiali sulla guerra:
proprio l’Antigone del Living Theatre era stata per noi la prima
illuminazione.

Ancora prima posso citare, come esperienza teatrale, una commedia scritta
a otto anni, intitolata Messalina, che riguardava la famosa imperatrice
romana e il cui clou consisteva nel bagno che una bambina, mia coetanea,
faceva in un catino pieno di latte. Al liceo avevo anche scritto un altro
testo molto alla Beckett, interpretato da Sandro: c’erano tre teste, su
tre tavoli, che parlavano di cose assurde, pazzesche: del tempo, del clima,
degli stendi-biancheria ecc. Queste tre teste che dialogavano tra loro
erano di san Giovanni Battista; curiosamente, questa idea mi è ritornata
mentre lavoravo a Vita immaginaria di Paolo Uccello.

Però poi siete arrivati al teatro passando per le gallerie
d’arte, per le arti visive.

Quando Bartolucci ci vide, notò subito la preponderanza dell’immagine,
in un’espressione teatrale che basava il suo linguaggio soprattutto sulla
costruzione di quadri e di raffigurazioni.

Del resto quelli erano gli anni del teatro-immagine…

Il teatro era allora soprattutto ” teatro politico”: una concezione
con cui non abbiamo mai avuto a che fare, noi che apparteniamo a una generazione
a cui il Sessantotto è passato sopra la testa e il Settantasette
sotto i piedi, tanto eravamo cambiati. Ricordo che uscii scandalizzato
da Un uomo è un uomo, con la regia di Massimo Castri, che
doveva essere un esempio di teatro politico: la definii un’operazione di
intellettualismo di bassa lega. Secondo me quello che avveniva sulla scena
non poteva essere compreso perché mancava quel senso teatrale che
è un senso emotivo, il sentimento del teatro, qualcosa che poteva
colpire lo spettatore nel profondo.

Le gallerie d’arte accettavano il nostro lavoro perché aveva
poche parole e era molto visivo Senza dimenticare la presenza di Wilson
e del suo Lo sguardo del sordo… C’è una cosa curiosa, a
questo proposito: sia nello Sguardo del sordo che in La donna
stanca incontra il sole,
il secondo spettacolo del Carrozzone, c’è
un’identica immagine, l’ombrellino che brucia; quest’immagine fu usata
anche da Perlini, che però l’aveva ripresa da noi; mentre credo
che per Wilson e noi l’origine fosse una sola, Giorni felici di
Beckett, dove brucia l’ombrello di Winnie: era semplice e banale, e invece
ne nacque un autentico affaire.

È una di quelle immagini che, curiosamente, in un determinato
momento, riescono a catturare l’attenzione di diversi artisti come un’ossessione.

Sia Morte di Francesco che La donna stanca incontra il sole,
malgrado
questa raffinatezza visiva, si basavano su una narrazione di tipo fabulistico:
un narratore raccontava degli eventi che avvenivano con pochissime battute,
o addirittura muti, solo con dei suoni, secondo le teorie e le esperienze
del Living e di Grotowski, che sono alla base della nostra formazione.
Per me e Sandro fare spettacoli significava allora soprattutto riversare
nel teatro l’amore e lo studio per le arti visive. Ci consideravamo dei
pittori che dovevano fare teatro come se dipingessero dei quadri; ma dicevamo
anche che bisognava essere come Piero della Francesca o Kandinskij, quindi
modelli straordinari e irraggiungibili. Erano spettacoli di travestimento:
gli uomini si travestivano da donne, le donne da uomini… E c’era una
grande presenza del teatro giapponese, soprattutto attraverso i fondamentali
scritti di Zeami; La donna stanca incontra il sole si basava esclusivamente
su una sua dichiarazione: ” Prima bisogna far sentire il suono e poi farlo
vedere, perché l’occhio dello spettatore si ferma più sull’immagine
che sulla parola”. E in effetti, prima veniva raccontata, da un narratore
esterno alla scena, la storia di una donna che cercava il proprio amore
per mari, monti e pianure, fino a morire di mal di piedi… Poi l’attore
eseguiva il gesto, fermandolo ad un certo punto e componendo una figurazione,
come un enorme fotogramma o un quadro, in soli quattro metri di spazio.
Si parlava di spazio ontologico, astorico: lo spazio della fiaba di Propp,
quello mitico, quello allucinogeno. Non c’era, quindi, bisogno di grandi
palcoscenici, si poteva fare teatro in uno spazio ridotto: quello che contava
era la struttura poetica che riuscivi a dare alla storia. Poi, sempre lavorando
sull’immagine, arrivò
Lo spirito del giardino delle erbacce,
uno spettacolo straordinario, in cui per un ora e mezzo non si vedeva
praticamente niente: era quasi tutto buio, ogni tanto si accendeva una
lampadina o una candela e appariva, ad esempio, una sirena, una donna vestita
da sposa alta quattro metri, per finire con la danza di due donne su una
canzone di Bob Dylan, mentre appariva un giardino di aranci. Anche qui
c’erano travestimenti: una madonna che poi si trasformava in una nana con
una falce, che andava dietro ad un uomo enorme, travestito come in un film
dell’orrore… C’era anche in questo caso un narratore esterno che raccontava
la storia, mentre lo spettacolo era completamente silenzioso, come un film
muto con un sonoro a parte, asincrono. A partire da Lo spirito del giardino
delle erbacce
c e uno stacco netto, avvenuto sulla base di indicazioni
di Sandro – ho sempre detto che Sandro è la mente e io sono il braccio
– e di un testo di Filiberto Menna, La linea analitica dell’arte moderna,
secondo cui ogni opera d’arte nel momento in cui si fa riflette su
se stessa. Sandro aveva invece scoperto come modello l’esplorazione delle
qualità timbriche e tonali della tastiera del pianoforte fatta da
Chopin.

Su queste traiettorie mentali nacque il “teatro analitico”, che si concretizzò
in quelli che Sandro definì Studi: piccoli pezzi che esaminavano
un frammento di realtà, cercando di renderlo il più possibile
chiaro, matematico, esposto, decifrato. Per far questo era necessario muoversi
in una linea molto prospettica, molto architettonica.

Ci fu quindi una sorta di ribaltamento: da una comunicazione basata
sull’efficacia simbolica dell’immagine a una basata sulla sua analisi scientifica.

Gli Studi duravano dai cinque ai dieci minuti: vi entravano,
da un punto di vista analitico, i pittori che più amavo, come Duchamp;
c’era un brano di Ornella Volta sui vampiri; poi una interessante conversazione
di Franco Quadri con Richard Foreman, in cui Foreman indicava le radici
della sua arte nell’esperienza minimalista.

Alla base del lavoro c erano tuttavia dei testi. Gli Studi non
erano solo esposizioni matematiche di un movimento o di un paesaggio, ma
esploravano, nello stesso tempo, i termini linguistici del teatro: li sovrapponevi,
li mescolavi, li separavi, lavoravi su ognuno di loro, ma dietro ciascuna
di queste operazioni c’erano dei testi. Uno degli Studi fondamentali
era basato sulla morte di Raymond Roussel, così come la narra Sciascia;
ma alla fine era venuta fuori una cosa completamente diversa: c’era una
porta, che nello stesso tempo era la porta di Duchamp; poi c’era un letto,
un uomo che spostava un materasso, un altro che cercava di sfuggire ad
una donna che era arrivata attraverso una porta, e con questa porta si
misurava lo spazio tra l’uno e l’altro… Vedute di Porto Said si
muoveva ancora su questa linea, ma cominciavano già ad apparire
dei momenti, dei luoghi, dei significati.

Il manifesto che avete fatto allora parla anche di un aspetto “patologico”,
sottolineando l’elemento autodistruttivo inserito nella costruzione dell’evento
teatrale.

Da una parte c’era l’analitico; dall’altra il patologico, costituito
dalla body art, un altro punto di riferimento essenziale: soprattutto Gina
Pane e poi Ulay e Marina Abramovich, con il loro lavoro sui limiti a cui
arrivava il corpo. Per esempio: può il corpo dell’attore abbattere
un muro? In una performance, Ombra diurna, Marion e Alga sbattevano
nude contro un muro finché questo cadeva: era un’immagine sublime.

Sono esperienze cariche di una violenza che oggi difficilmente riusciremmo
ad accettare. C’era una sensazione di disagio, una volontà di fuga
che esplodeva in maniera molto violenta…

Non parlerei di violenza, ma di fuga…

…una violenza subita e interiorizzata…

In una prospettiva spiritualistica, erano come esercizi di santificazione.
Due donne che buttavano giù un muro colpendolo con il petto: era
una cosa terribile, pensandoci ora. Oppure l’attore che si tagliava con
una lametta, seguendo le indicazioni di Gina Pane. Era come se il proprio
corpo, il corpo dell’attore, fosse l’ultima spiaggia alla quale riferirsi.

Ma mi interessa di più il concetto di fuga prospettica: uscire
dalla storia, dal proprio corpo, per ribaltarsi in qualcos’altro, in una
prospettiva non materialista. Era un tentativo di sperimentare se l’attore
poteva vivere oltre se stesso.

Il tema dell’autodistruzione mi interessa anche da un altro punto
di vista. Uno degli autori che citavate allora, con molta pertinenza, è
Wittgenstein, con il progetto di costruzione logica del mondo tentato nel

Tractatus logico-philosophicus, che voi riportavate all’interno dello
spettacolo. Il progetto di Wittgenstein si scontrava con due limiti: da
una parte i confini del mistico, cioè il “Su ciò, di cui
non si può parlare, si deve tacere” con cui si chiude l’opera; dall’altra
ci sarà il teorema di Gödel che dimostrerà l’impossibilità
di fornire una prova di coerenza dì un sistema chiuso.

C’era un’altra cosa importante, sempre sull’attore, che riguarda il
fatto di tacere ciò di cui non si può parlare. Certe azioni
avvenivano rispetto al pavimento e alla parete, proprio perché intorno
all’attore c’era (e c’è) un esistente (ecco perché questo
teatro si chiamava anche “esistenziale”). E l’esistente, per l’attore,
era tutto ciò che esisteva nel momento in cui agiva: fondamentalmente
il pavimento e la parete.

Steve Paxton – a quei tempi la sua danza ci interessava molto – diceva
che il suo partner era il pavimento, che danzava con il pavimento; un attore
fa un po’ la stessa cosa, anche adesso che c’è il testo e tutto
il resto: danza o lavora con il pavimento, sempre per misurare i limiti
fisici al di là dei quali però c’è…

… ciò di cui non si può parlare e che non si può
mostrare.

E ora il mio personale tentativo è proprio quello di mostrare
ciò di cui non si dovrebbe parlare perché non si vede: e
quindi parlare esclusivamente, nella mia opera, di dio.

Uno degli elementi che più colpivano gli spettatori era l’irruzione,
in un orto chiuso come quello del teatro, di segni ed elementi della contemporaneità,
che normalmente ne venivano esclusi.

Ricordo una frase molto bella di Duchamp, in cui parlava della sua arte
come di morceaux choisis, pezzi scelti. Quegli spettacoli si basavano
proprio su dei “morsi scelti” che davi alla realtà visiva e fisica
che ti stava intorno. Erano gli inizi del postmoderno: i neon, oppure certi
elementi architettonici che alcuni avevano messo in evidenza, per esempio
Mendini e il suo gruppo, lo Studio Alchymia, che poi non a caso hanno collaborato
con noi; una collaborazione che si è interrotta nel momento in cui
il postmoderno è diventato una forma commerciale, televisiva (anche
se con questo non voglio dire che Mendini si muova ora in un’ottica televisiva).
A quei tempi, alla base degli spettacoli c’erano Wittgenstein, Burroughs,
Kerouac, cui poi abbiamo dedicato un intero lavoro. E c’erano gli elementi
che prendevi dalla realtà, che introiettavi, fagocitavi e restituivi
in una elaborazione estetica; in modo da formare scenicamente dei quadri
all’interno dei quali ci fossero dei ritmi e un montaggio di situazioni
tali da poter essere attivi nei confronti dello spettatore. Lo spettatore
non era mai un contemplatore passivo ma il destinatario di una serie di
rovesciamenti di materiali costruiti perché lui cambiasse. Questo
era il tema portante che avevo tratto da una frase di Artaud: “Quando si
entra in teatro si esce trasformati”; questo perché si assiste a
quello che ora chiamo “il rogo amoroso di segni scenici”.

Un altro versante di questa pratica era quello di attraversare i
generi, il cinema, la fantascienza, la moda, il giallo, la musica, la danza…

C’erano i film di Warhol e Fassbinder, tutti elementi che riportavamo
sulla scena cercando di formulare un linguaggio teatrale. Da Warhol, per
esempio, ho imparato l’idea di sequenza. Nei suoi film ci sono lunghi piani
in cui si vede una persona che si trucca; parallelamente, in Ebdomero,
Alga,
Marion o Mario stavano sotto una lampada e tutto quello che facevano era
una lunga sequenza con pochi movimenti e parole ripetute che riguardavano
il proprio corpo: una scena essenzialmente statica, che si dava in una
durata, una sequenza che aveva un ritmo di segmenti lunghi.

Anche le colonne sonore avevano una importanza fondamentale: il mio
lavoro consisteva molto spesso nella messinscena di una colonna sonora,
di un ritmo musicale variato a seconda di una drammaticità o di
una drammaturgia interna. Così è stato per Crollo nervoso,
in
cui è nata prima la musica, che era il vero testo, e poi lo spettacolo.
Tanto è vero che poi, con Sulla strada, la cui colonna sonora
non era stata creata da uno di noi, è nato quello scarto che non
ha fatto funzionare lo spettacolo.

La danza appare invece per la prima volta in Punto di rottura. Fu
Colette Godard, dopo aver visto lo spettacolo Ins Null, il lavoro
che facemmo con Hanna Schygulla allo stadio di Monaco, a parlare di una
preponderanza della danza. Era il momento in cui si cominciava a parlare
di Pina Bausch, e riflettevo su questo: visti da lontano, in Punto di
rottura,
i passi, le persone che dondolavano, le diapositive, componevano
un’enorme danza ritmica, una danza di guerra. Fu questa l’ipotesi sulla
quale lavorammo e da cui si generò Crollo nervoso.

Che dimensione ha portato l’innesto della danza sul gesto degli attori?
Era un fatto visivo, esterno, o si rifletteva anche all’interno, nel lavoro
dell’attore?

Questa problematica si è inserita in una continua ricerca e sviluppo
su quello che chiamavo il “movimento”. Già in Punto di rottura
c’era
una drammaturgia dell’essere, una drammaturgia del poetico, del verso:
veniva creata attraverso delle improvvisazioni fatte su materiali scelti
precedentemente, come “morsi scelti” dall’orizzonte urbano. Punto di
rottura
è nato da due cose: un testo-colonna sonora che si ribaltava
specularmente, costruito su musiche che andavano da Grace Kelly ai Rolling
Stones a Joseph Beuys (che è stato un altro punto di riferimento
fondamentale in tutto il nostro lavoro); e le corde elastiche che avevo
trovato in una fabbrica. La scoperta della corda elastica è nata
a sua volta dalla teoria della mancanza di centro, dall’idea di un universo
in cui tutto era marginalizzato: per cui nello spettacolo ogni oggetto
di scena si muoveva verso le pareti, spinto dalla forza delle corde elastiche.
Ma il loro uso era fondamentale anche per i movimenti e i gesti degli attori:
la corda elastica, attraverso il dondolamento, metteva l’attore in una
situazione in cui tutto quello a cui era abituato – il pavimento, le pareti,
il soffitto – diventava improvvisamente mobile. Così in Ritratto
dell’attore da giovane
il palcoscenico era formato da un bacino d’acqua;
i segni teatrali erano costretti, mettendosi in contatto con questo nuovo
elemento, a trasformarsi in un’altra cosa: sull’acqua il segno e il movimento
teatrale subivano una sorta di trasformazione alchemica, imponendo un’amplificazione
del lavoro gestuale dell’attore, così come la corda elastica lo
poneva in uno stato di completo disequilibrio.

Questo porta, ogni volta, a un nuovo sistema di segni, perché
il sistema di segni convenzionale si basa sull’attore con due piedi che
poggiano per terra. Per gli stessi motivi, in Crollo nervoso feci
muovere gli attori in punta di piedi, scossi da un tremito continuo. A
quei tempi, l’analisi di Sandro sul linguaggio teatrale e sull’attore mi
aveva portato a teorizzare che l’attore nasce e vive esclusivamente nel
disequilibrio; ora penso esattamente il contrario: un equilibrio tra passato
e futuro, che vive nel presente. E questo il primo nucleo da, cui si sviluppa
il movimento, il corpo espressivo dell’attore.

In Crollo nervoso appaiono, come elemento scenico fondamentale,
le veneziane, che diverranno un vostro segno chiave.

Anche la veneziana è un’idea scenica che nasce all’interno della
compagnia, da Sandro. In base alla nostra teorizzazione sulla frontiera
e il nomadismo, serviva sulla scena un elemento che racchiudesse, ma che
nello stesso tempo non imprigionasse, che permettesse il contatto. Con
Crollo
nervoso
entravamo in una fase diversa: il gruppo, con le sue stratificazioni,
cominciava lentamente a trasformarsi, nascevano la prima regia e i primi
personaggi, ad esempio Marion nella parte di Irene, Sandro nella parte
di Dillar che legge il libro di Bruce Lee, e così via.

Mentre invece, in precedenza, gli attori non erano che delle espressioni
matematiche all’interno della logica dello spettacolo: corpi sottoposti
a forze e tensioni apparentemente astratte.

Continuo a ripeterlo, anche se molto spesso allora veniva negato: dietro
tutto questo c’erano dei racconti. Morte di Francesco e La donna
stanca incontra il sole
erano vere e proprie storie, favole, con un
cantastorie, un vero narratore. Non è che poi, improvvisamente,
non si fosse più parlato di queste cose: solo che è stata
una letteratura differente a interessarci, più Joyce che Cervantes:
non a caso in Vedute di Porto Said, nel primo studio, appariva la
pagina finale dell’Ulysses. Si faceva teatro come se si facesse
pittura, o come se si scrivesse un libro: gli stessi libri, con le stesse
storie, entravano come materiale nelle improvvisazioni.

A proposito di improvvisazioni, c’è un doppio versante nel
lavoro di quegli anni. Da una parte spettacoli estremamente formalizzati,
come
Punto di rottura, in cui ogni minimo gesto era previsto e definito.
Dall’altra situazioni in cui si liberava una forza di improvvisazione totale.

Il teatro, allora, lo concepivo soprattutto come lo spazio all’interno
del quale si succedevano serie e frammenti di situazioni, come nei libri
di Burroughs: il procedimento era quello. Una volta ho cercato di spiegare
a un attore di Peter Brook, che aveva visto Vedute di Porto Said, che
gli attori che stavano su quelle panche misuravano la loro tensione, ma
non erano bambole meccaniche: non ci riuscii, lui aveva bisogno di una
storia, di altre cose.

C’era una grande forza interpretativa e rappresentativa, senza però
passare attraverso la psicologia o la narrazione: un’adesione immediata
e totale tra il gesto e lo stato d’animo di chi lo eseguiva.

C’era una drammaturgia, già allora, ma forse ci vorrebbe qualcuno
al di fuori di me per mettere in luce questo fatto. L’approdo al testo,
almeno nel nostro caso, non è stato per ragioni di comodo. La mia
ossessione è stata sempre la ricerca del testo che nasce dallo
spettacolo:
perché il testo non si scrive all’inizio, bensì alla fine,
ed emerge dalle varie situazioni che si compiono sulla scena, che già
in Punto di rottura erano situazioni drammatiche. Per esempio, quando
Marion e Alga si tiravano i capelli lungo il muro, era la fuga di una donna
inseguita da un’altra donna. Era un’immagine molto forte: ora la definirei
situazione drammatica, ma allora erano piccoli grumi drammatici che poi
si scomponevano per andare verso un’altra cosa. C’era tutta la letteratura
americana, quella della beat generation, con le sue ricerche formali; c’era
tutto quello che passava attraverso le diapositive; c’erano elementi estremamente
sentimentali, come le musiche, talmente sentimentali che ricostruivano
all’interno di se stesse delle storie, alle volte incomprensibili, alle
quali bisognava però affidarsi, secondo me, in maniera totale.

Beckett, a proposito di una sua regia di Finale di partita in
cui non si sentivano gli attori, ha detto: “Non importa se non si sentono
le parole, dovete agire sui nervi, non sulla ragione degli spettatori”.

Siamo arrivati a Sulla strada, che segna una delle vostre
numerose svolte. Credo che il nucleo centrale dello spettacolo fosse la
fuga…

Sulla strada era uno spettacolo tematico che cercava di avere
un significato molto forte; il romanzo di Kerouac era letto in modo narrativo.
Non c’era più necessità di astrazione ma di narrazione, e
soprattutto c’era l’abbandono dei temi precedenti. Avremmo potuto fare
un altro Crollo nervoso, la formula c’era: Fassbinder aveva ripreso
sia Crollo nervoso che Punto di rottura, e da quelle riprese
erano nati alcuni dei brani migliori di Theater in Trance. Ma c’era
una necessità quasi personale di sistematizzare una serie di ricerche:
sull’attore, sul dramma, sulla narrazione, su quello che poi ho chiamato
“teatro di poesia”. Era una mia necessità (e mi assumo la responsabilità
del fallimento dello spettacolo): costruire un metodo partendo da tutto
ciò che era avvenuto fino ad allora. Tra le varie etichette che
ci sono state date ne riconosco solo tre: “teatro immagine”, “teatro analitico”,
“postavanguardia”. Da allora tutto quello che è avvenuto, il lavoro
dei gruppi più giovani, salvo alcune esperienze che se ne distaccano,
come la Raffaello Sanzio, non fa altro che confrontarsi o riscoprire i
materiali della postavanguardia: portarli avanti, svilupparli, oppure,
nei casi peggiori, rifriggerli a un pubblico poco informato. Sul finire
dell’esperienza della postavanguardia, Sulla strada subiva un tale
bisogno metodologico da far scomparire il teatro.

Uno degli errori fondamentali fu quello di contare pochissimo sugli
attori attrezzati, allenati che avevano in pieno sviluppo quel fiore di
cui parla Zeami, e cioè, oltre a Sandro Lombardi e a Marion D’Amburgo,
Julia Anzilotti, Grazia Roman e Mario Carlà, per puntare invece
sulla ricerca di una formazione, di una pedagogia. Attraverso cento provini,
scegliemmo dieci persone a cui, nel corso di quattro mesi, cercai di insegnare
tutto quello che Sandro, Marion o Julia sapevano già: una capacità
di movimento, di pensiero drammaturgico, di montaggio di materiali che
l’attore mette a punto nelle sue improvvisazioni. Così persi di
vista il lavoro di chi avrebbe assicurato allo spettacolo la sua propulsività.
Per Genet a Tangeri accadde il contrario: invece di allargare il
gruppo, decidemmo di chiuderlo, facendo piazza pulita di tutto il marasma
che c’era intorno, restarono cinque attori sui quali fondare e rileggere
uno spettacolo. Genet a Tangeri ha costituito la vera svolta, che
si concretizzerà per tre anni nella trilogia Perdita di memoria,
completata
da Ritratto dell’attore da giovane e Vita immaginaria di Paolo
Uccello.
L’errore di Sulla strada era stato quello di voler
fare della pedagogia cercando di costruire uno spettacolo: fu una pura
follia, perché le scene migliori erano quelle in cui c’erano gli
attori con cui avevo già lavorato. A quel punto si poneva il problema
del nuovo attore: il principio di Genet a Tangeri era appunto quello
di basarsi sugli attori formatisi all’interno del gruppo.

Non era possibile in quelle condizioni formare un attore…

…che in poco tempo fosse “preparato” come il piano preparato di Cage.

Entra in gioco, proprio in quegli anni la parola. Che tipo di logiche
hanno portato al recupero della parola e della narrazione?

La parola appare inizialmente come narrazione, più che come parola
autosignificante. Era anche la riconquista di certi elementi del passato,
dei primi spettacoli, che non sentivo più come qualcosa da cui distaccarmi,
ma come una tradizione che avevo formato e a cui dovevo riferirmi: una
” cultura” del gruppo, di persone che avevano interessi comuni, che per
preparare uno spettacolo leggevano, vedevano dei film, facevano concerti.

In Sulla strada si trattava di una parola disfatta, perché
si basava su Kerouac: in realtà era un grande oratorio, parole che
diventavano un grande canto. Con Genet a Tangeri la parola si trasforma
in parola poetica, cioè una parola che, oltre che per il suono e
per la recitazione, vuole significare qualcosa in se stessa. Infatti il
lavoro era, curiosamente, una grossa discesa nella parola italiana, con
la scoperta che lo spettacolo verbale può essere, nel momento stesso
in cui si dà, un grande affresco della lingua: spettacolo e testo
si autodipingono come affresco della lingua, e non dell’unica lingua italiana
ma di molti “italiani”.

La logica della costruzione del quadro scenico si traspone nella
costruzione del quadro linguistico…

Mentre con Ritratto dell’attore da giovane torna addirittura
la ricerca di un testo completamente tradizionale.

Sostanzialmente si tratta di due monologhi. Nella trilogia c’è
anche un’articolazione dello spazio scenico molto particolare, con diversi
livelli. Come nasce questa articolazione dello spazio, con il filo spinato,
il proscenio, poi un primo sipario, la scena vera e propria, un altro sipario
oltre il quale si apre un’altra fascia?

In fondo è la stessa disposizione di Punto di rottura: in
primo piano una porta, il letto, una seconda porta, l’asse; poi una sezione
in cui c era un divano illuminato da una luce proveniente da una veneziana
e un materasso a molle su cui stava una sedia; e infine, sul fondo, due
assi trasversali oltre le quali c’era la parete, sulla quale ci si muoveva.
L’azione di Punto di rottura era inversa rispetto a quella di Genet
a Tangeri,
dove dal primo piano ci si spostava lentamente sul piano
di fondo. Era un residuo dell’analitico, una disposizione spaziale basata
sulla scoperta di uno spazio diviso per sezioni, per frammenti.

C’è sicuramente anche una chiave cinematografica: Punto
di rottura era come una zoomata progressiva verso il primo piano.

E’ uno spazio che si ritrovava in Crollo nervoso, con il quadrilatero
di veneziane che si apriva e si richiudeva.

Una specie di archetipo: anche in Come è ritorna un
movimento di questo tipo…

In Genet a Tangeri riemerge anche un altro tema chiave: il teatro
come ripensamento di se stesso. I due sipari avevano anche quella funzione.

È il discorso analitico che ritorna in un’altra forma.

Da quel momento è tutto un ripensamento della scena: come la
terza parte di Come è, in cui Sandro rimane solo, al centro,
dietro un muro che è contemporaneamente la quarta parete del teatro,
un elemento continuamente ripetuto. Anche in Ritratto dell’attore da
giovane
la vasca rettangolare diventa un’occasione di analisi di un
palcoscenico acquatico.

Si disegna in questi anni anche una sorta di mitologia, con una costellazione
di protagonisti della cultura contemporanea.

Cominciano a entrare in campo la letteratura, i gusti personali. È
come un grande affresco, come quello della Cappella Sistina, in cui metti
degli eroi e senti che a ogni mito a cui ti avvicini devi qualcosa. E’
come un sacrificio: il sacrificio della tua persona e della loro perché
possa nascere il teatro. E’ il sacrificio continuo dell’attore, un sacrificio
in termini mistici e religiosi: un rogo tra attore, testo (o figura mitica)
e spettatore, affinché da questo rogo di segni, di incroci, di sguardi,
nasca il dramma. Attualmente è questo l’elemento base del mio teatro:
la morte dell’attore e del testo, da cui nasce, per lo spettatore di fronte
al quale viene testimoniato questo sacrificio, il dramma, cioè una
terza entità differente dalle altre e che respira della loro agonia,
della loro morte. Heiner Müller è un autore che non fa certamente
parte di questa mitologia, anche se ha saputo esprimere in maniera corretta
certe disfunzioni, certi squilibri del nostro tempo.

È molto diverso il modo in cui avete utilizzato i suoi testi
e quelli di Beckett: quelli di Müller sono semplicemente un materiale
da utilizzare come spunto drammaturgico, insieme ad altre suggestioni,
mentre nel caso di Beckett, per esempio, c’era anche un aspetto biografico,
un omaggio all’intera opera…

Hamletmaschine non era altro che un dialogo tra un regista e
un attore su un materiale shakespeariano mediato da Müller Questo
corrisponde a ciò che sto cercando attualmente: il superamento di
una drammaturgia del testo. Il concetto di drammaturgia è stato
svilito dall’uso massiccio che ne è stato fatto, e soprattutto è
stato svilito il concetto meraviglioso di dramma; ma è come se mi
muovessi verso un superamento della drammaturgia e del testo, di cui Hamletmaschine
costituisce
probabilmente un esempio. Müller non è l’autore da mettere
in scena ma un punto mediano, attraverso il quale compiere nuovamente il
proprio processo stilistico e artistico. Sento il peso, per esempio, di
tutta l’attuale drammaturgia della tragedia greca, anche perché
molto spesso le persone che mettono in scena quei testi non conoscono il
greco, per cui il classico si imbastardisce in operazioni di postmodernismo.

Volevo chiudere questa conversazione con una riflessione sul teatro
dei gruppi. Molti di essi sono partiti da una distinzione dei ruoli praticamente
nulla…

Non è vero. Per quanto mi riguarda, il mio apporto fondamentale,
fin dal primo spettacolo del Carrozzone, è stato registico. Sono
stato il regista di questi materiali: regista nel senso di colui che fa
il montaggio, che crea il ritmo, che ha un’idea dell’attore…

All’interno di questa fisionomia ho avuto dei collaboratori non ristretti
a determinate funzioni. Se Marion D’Amburgo è stata sempre ed esclusivamente
attrice, Sandro Lombardi è stato attore, ma anche musicista, fonico
e regista: certi lavori li abbiamo fatti insieme, anche dal punto di vista
registico.

Quindi, piuttosto che di una indifferenziazione dei ruoli, si tratta
di competenze che possono attraversare diversi ruoli.

E molto simile a altre esperienze teatrali che, quando funzionano, funzionano
molto spesso su parametri che potrebbero essere di gruppo: penso al Laboratorio
di Ronconi, a Quartucci, a Leo De Berardinis.

Il gruppo come nucleo stabile di artisti…

Di artisti che però combinano in maniera differenziata il loro
lavoro: per creare la cultura del gruppo, con la sua tradizione e i suoi
punti di riferimento. I miei punti di riferimento sono stati sempre fondamentalmente
teatrali e cinematografici, quelli di Sandro letterari e legati alle arti
visive, quelli di Marion erano invece fondati su sensibilità personali,
come quelli di Alga o di Julia. All’interno di questa équipe entravano
via via altre persone, che collaboravano alla messinscena di un determinato
spettacolo; ma, in ogni caso, senza una formula originale, un indirizzo
di base, lo spettacolo non si fa.

Quando una compagnia si forma, ci sono delle situazioni di aggregazione;
ma, secondo me, in tutti i gruppi i ruoli erano definiti fin dal primo
momento. Se poi queste competenze non risultavano troppo evidenti all’esterno,
era perché bisognava contrattaccare il teatro tradizionale e la
sua divisione dei ruoli, e dunque era importante differenziarsi anche dal
punto di vista della socializzazione interna, come aveva scoperto anche
Copeau. Però credo che ora sia necessario scendere nel campo avversario,
fare riconoscere quel che facciamo non più come esperienza marginale,
ma come esperienza fatta da artisti, da scenografi, da registi, da attori,
da musicisti; un’esperienza che si compie produttivamente in maniera dissimile
da quella del teatro commerciale, ma con una maggiore sostanza specifica,
una maggiore interiorità, una maggiore possibilità educativa
e morale.

Una logica di questo tipo non porta alla dispersione centrifuga del
gruppo?

Il nucleo artistico si crea nel corso del tempo e degli spettacoli:
al termine di questo percorso ci sono persone come Sandro e Marion, che
sono diventati attori, o come me che sono regista. Ci siamo formati a vicenda:
loro hanno tatto delle richieste a me, io le ho fatte a loro, come le ho
fatte a Julia e ad altri. E’ un formarsi reciproco che non esiste nel teatro
commerciale, anche se l’interdipendenza dei ruoli non significa che la
regia sia di tutti ò che il testo venga scritto collettivamente.
E’ piuttosto un discorso di formazione e di pedagogia reciproca che attori,
registi e collaboratori vari compiono l’uno sull’altro, creando una situazione
molto simile a quella che permise a Copeau di abbandonare il Vieux Colombier.

Ora, invece, credo sia il momento di scendere nel campo del teatro,
naturalmente in certe situazioni e a precise condizioni, dicendo che quello
che facciamo è il nostro teatro. Infatti c’è stato
recentemente un momento di scomposizione, la fine storica di molti gruppi.
Oggi è inevitabile che attori e registi cambino la loro fisionomia,
mescolino modalità produttive e di lavoro differenti, pur conservando
il loro metodo teatrale. Con il gruppo, si rischiava l’idioletto, un idioma
creato da pochissime persone e capito solo da quelle: la presenza di questo
pericolo l’aveva già avvertita a suo tempo Franco Ruffini, in un
pezzo su Punto di rottura. Ma questa spinta regressiva la rischiavano
anche lavori come Lo spirito del giardino delle erbacce o Sulla
strada.
Anche per questo è necessario confrontarsi con lo spettatore.
Ricordo una frase di Bernardo Bertolucci: “Inizialmente mi sembrava che
fare film per il grosso pubblico fosse un disonore. Invece no: era una
maniera di riflettere sulla mia arte, su quanto quest’arte aveva da dare
alla gente, confrontandosi con la gente”. Questa credo sia la differenza
d’atteggiamento maturata in questi anni.

L’idioletto privato doveva e deve essere, con tutte le nostre forze,
spaccato, spezzato, per introdurre i gruppi nel mondo del lavoro del teatro:
solo le persone che provengono dai gruppi, ridiscutendo concetti come testo,
parola, regia, attore, possono realmente rinnovar9 il teatro italiano,
perché hanno alle spalle un’esperienza che li ha formati. E questo
il movimento propulsivo, come hanno capito il Piccolo di Pontedera o la
Gaia Scienza, come abbiamo capito noi. Non si tratta di rinunciare o di
rifiutare la cultura che abbiamo creato, che bisogna anzi salvaguardare.
Ma è indispensabile ricombinare le carte, aprirsi, mescolarsi con
una realtà teatrale che altrimenti ti marginalizza.

Dobbiamo prendere possesso di questa realtà per rinnovarla, perché
siamo gli unici in grado di farlo, non solo come registi, ma anche come
attori, scenografi, musicisti. Lo scopo è la rifondazione del teatro,
il suo rinnovamento totale. Ho sempre assunto su di me il destino del teatro,
come un destino personale: come se tutto quello che avviene in me, la mia
evoluzione artistica, profetizzasse in qualche modo il trasformarsi degli
eventi teatrali. L’ultima profezia riguarda la dissoluzione dei gruppi;
cioè la possibilità di trasformare un’esperienza che rischiava
di chiudersi in un idioletto, in un confronto, in un’attività continua
nei confronti dello spettatore: di chi, attraverso lo scambio che avviene
in teatro, si educa moralmente a una nuova forma di pensiero e di attività,
trasformando se stesso e la società.

 

Per leggere il testo dell’intervista Clicca qui.

Oliviero_Ponte_di_Pino

2005-12-16T00:00:00




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