Luca e Lucia, per un teatro dell’intransigenza e della passione
Parte il bando delle Residenze Digitali, scadenza 24 febbraio 2022
Le Residenze Digitali, una delle iniziative più interessanti nate durante la pandemia, già finalista al Premio Rete Critica 2021, hanno lanciato il bando per la terza edizione, scandenza giovedì 24 febbraio per candidarsi
Il progetto, che si rivolge agli artisti delle performing arts che vogliano esplorare lo spazio digitale nel proprio percorso autoriale, è ideato e promosso dal Centro di Residenza della Toscana (Armunia – CapoTrave/Kilowatt), in partenariato con l’Associazione Marchigiana Attività Teatrali AMAT, il Centro di Residenza Emilia-Romagna (L’arboreto – Teatro Dimora │ La Corte Ospitale), la Fondazione Luzzati Teatro della Tosse di Genova, l’Associazione Zona K di Milano, a cui si aggiungono quest’anno altre due realtà: Fondazione Piemonte dal Vivo/Lavanderia a Vapore e Fondazione Romaeuropa.
Questa rete di 9 partner nel 2022 seleziona e sostiene 6 progetti artistici con un contributo di residenza pari a 3.500 euro + iva ciascuno. Ogni proposta deve prevedere una restituzione online aperta al pubblico, che si terrà a novembre 2022.
Nell’occasione, Vincenza Di Vita ha intervistato Luca Ricci e Lucia Franchi di CapoTrave/Kilowatt.
Cos’è per voi il teatro?
Luca – Il teatro è un’arte che esprime l’ingegno e la sensibilità dell’essere umano. È un ambiente in cui le competenze tecniche si fondono con quelle artigianali, in cui, per viverlo quale parte attiva che produce contenuti, servono visioni culturali, storiche, antropologiche, pensiero sociale e politico, ma anche attitudini relazionali, psicologiche, organizzative: è proprio questa sua pluralità di prospettive a renderlo tanto affascinante, per me, ovvero un contesto sempre diverso, e una fonte inesauribile di espressione delle complessità che ognuno di noi porta dentro.
Lucia – Il teatro è un luogo di incontro delle diversità, anche di quelle che non hanno spazio e possibilità di espressione in altri contesti. Se ripenso al momento in cui ci sono entrata, a 18 anni, ricordo perfettamente la percezione di aver trovato un ambito in cui certe mie “storture” personali – che non avevano sin lì trovato un posto in cui stare a loro agio – stavano invece bene e, anzi, non erano più percepite come diversità, ma piuttosto mi rendevano parte di un gruppo, insieme ad altri.
Quando il teatro diventa comunità?
Lucia – Le comunità di riferimento del teatro sono sempre plurali, sia per le specificità dei differenti luoghi in cui un teatro opera, sia perché ogni teatro sceglie quali gruppi di persone vuole incontrare, a chi vuole parlare. Quindi prima di tutto va focalizzato con chi si vuole entrare in relazione. Il secondo passo è ascoltare: i bisogni che ogni luogo e che ogni comunità esprimono non sono mai univoci, bisogna avere la capacità di coglierli e interpretarli. Solo al terzo posto viene l’elaborazione del proprio racconto artistico e la capacità di saperlo trasmettere. Che non significa subordinare la libertà dell’arte agli altri passaggi che l’hanno preceduta, ma immaginare che l’arte possa e debba inserirsi dentro un dialogo con i luoghi e con le persone. Se questi sono i passaggi, si crea una comunità che sente di essere parte di un processo e di un discorso teatrale.
Luca – Quello che dice Lucia è il metodo che noi abbiamo applicato tante volte e che ci ha insegnato molto e dato bei risultati, nel medio e lungo periodo. Però poi ci capita spesso di pensare che la vera arte abbia in sé la forza pura e innata di parlare agli individui e al proprio tempo, e che la sua forza di attrazione basti a generare interesse e creare comunità. Dopodiché è vero che non sempre siamo in grado di proporre un’arte così assoluta e nitida, e dunque creare comunità intorno all’azione teatrale serve a formare un pubblico che è indulgente pure con gli esperimenti, le prove e gli errori di cui l’arte ha bisogno per farsi grande.
Avete mai pensato di fare un altro mestiere?
Insieme – Eeeh… molte volte!
Lucia – Io avrei voluto fare l’etologa, perché mi è sempre venuta naturale la relazione con gli animali, alle volte più di quella con gli esseri umani. Con gli animali si usa un linguaggio della sincerità del corpo, che non ha bisogno della mediazione delle parole, che sono spesso un inciampo, creano equivoci, hanno un peso specifico talmente importante che diventa facile spostare il significato delle proprie emozioni.
Luca – Al contrario, a me sono sempre piaciuti tutti i mestieri che hanno a che fare con la relazione tra esseri umani. Io trovo la mia dimensione più adatta nello scambio di idee, nel confronto, anche nell’espressione delle divergenze; discutere con le persone è per me una cosa molto naturale, un modo per entrare nel punto di vista di chi è diverso da me, alle volte lo è anche il litigare che considero un’opzione dialettica, tutt’altro che sconvolgente. Difendere le proprie posizioni con fervore è un valore, non mi piace chi è sempre d’accordo con tutti e su ogni cosa, e così si lascia scorrere tutto addosso. In conclusione gli altri mestieri che avrei potuto fare sono il giornalista, il politico, oppure il prete!
Siete stati premiati con i più importanti riconoscimenti italiani per il vostro lavoro, come vi ha reso questo? Che genere di responsabilità ha generato in voi?
Luca – Il primo premio Ubu, quello del 2011, dato all’azione dei Visionari come progetto speciale era stato lieve e leggero come metterci un paio di ali sulle spalle e invitarci a volare. I premi di questo 2021 che si è appena chiuso, il Premio della Critica ANCT a Kilowatt e il Premio Ubu a noi due, come migliori curatori, hanno invece il peso di una responsabilità molto più concreta: sono arrivati in un momento di grande crisi per tutto il sistema nazionale dello spettacolo dal vivo, e ci dicono che anche da noi due ci si aspettano idee, proposte, giuste domande e possibili soluzioni per la ripartenza del nostro mestiere e la crescita di tutti gli artisti, i tecnici e gli organizzativi che vi operano.
Lucia – Io sento che questa responsabilità di cui parla la tua domanda si estenda anche al ruolo femminile nel dirigere. Questi riconoscimenti affermano un possibile modo di esercitare il ruolo di direzione. Non è affatto detto che le donne debbano ispirarsi a un modello di direzione maschile. Io ho attitudini relazionali differenti da quelle di Luca e ho una personalità diversa da lui, e in questo c’entra molto anche la mia femminilità, ma non per questo ho un ruolo secondario nella direzione della nostra struttura. Sono a tal punto convinta che le donne possano guidare un progetto, un’azione, una squadra di persone, che non ho mai avuto l’esigenza di esibire questo mio ruolo: a volte questa mia attitudine è stata fraintesa, e non veniva letto come dentro questa direzione congiunta ci fosse un assoluto equilibrio di forze tra noi. Mi ha fatto piacere che i premi più recenti, e specialmente l’Ubu, colgano invece questa nostro modo sinergico di operare in coppia: io vivo ogni giorno questa parità, nel mio rapporto di co-direzione, e anche per questo non sento il bisogno di ostentare il mio ruolo, per di più in forme aggressive di rivendicazione.
Descrivete in una parola ciò che vi rappresenta nella quotidianità del fare teatrale.
Lucia – Intransigenza.
Luca – Passione.
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