Uno zapping fuori dal mondo, quarant’anni dopo
A Venezia il riallestimento di I was sitting in my patio di Robert Wilson
Non sapremmo dire quanto il riallestimento di I was sitting in my patio vada oltre l’esibito calligrafismo sfiorando qualche recondita corda della sensibilità del pubblico di oggi. Certo si tratta di un’occasione preziosa (un vero e proprio lusso, di questi tempi) per vedere (o rivedere) un pezzetto di storia del teatro del secondo Novecento. Prodotto dal Théâtre de la Ville di Parigi, dove ha debuttato il mese scorso, lo spettacolo andato in scena al Goldoni di Venezia ripropone la pièce firmata e interpretata da Robert Wilson e Lucinda Childs nel 1977, due anni dopo l’impresa delle quattro ore e passa di Einstein on the Beach.
Il titolo completo del lavoro riprende la prima frase del testo: I was sitting in my patio this guy appeared I thought I was hallucinating. Uno stesso monologo per due interpretazioni liberamente concepite dai due performer e presentate una di seguito all’altra. Specularità impossibile, ruoli indefiniti, libertà esecutiva. La maestria dei nuovi interpreti evita che l’operazione diventi museale e offre momenti di vibrante presenza attorale malgrado l’algida gabbia scenica in cui è costretta la loro performance. Lui è Christopher Nell, uno degli attori più noti del Berliner Ensemble, il formidabile Mefistofele nel Faust I & II diretto da Wilson a Berlino nel 2015. Lei è Julie Shanahan, figura emblematica del Tanztheater Wuppertal e una delle eredi di Pina Bausch.
Scena bianco-nero-blu, tre alte porte da cui entra in diagonale una luce fredda, un tavolino con un telefono, un ripiano con une flûte, una panca. Filo di neon bianco lungo tutto il proscenio. Ogni tanto, in alto a sinistra, un piccolo schermo scende a mostrare immagini di animali. In questo spazio asettico, e minimale si sviluppano il monologo e il suo doppio, un flusso ininterrotto di associazioni di idee incongrue, accenni a una nuova casa, ad animali da cacciare, a una telefonata sempre attesa, sempre disattesa. Quello che Charles Chemin, collaboratore alla regia, ha definito uno «zapping verbale». Lo sproloquio è insensato e proprio per questo costringe a seguire i movimenti e la gestualità degli attori costruiti su millimetriche, anche se piuttosto aride, partiture. Talvolta viene messo in rilievo un dettaglio, un arto, una torsione, un atteggiamento.
Prevalgono le posture angolose, le dislocazioni geometriche. Con continui richiami a un espressionismo cabarettistico nella versione maschile e all’immaginario cinematografico degli anni Quaranta e Cinquanta in quella femminile. Anche il trucco pesante (entrambi hanno labbra e unghie rosso fuoco) e i costumi sono connotati in tal senso. Una sorta di teatro dell’assurdo hollywoodiano, con qualcosa di orientale nella stilizzazione. Se si aggiungono le musiche da Bach, Schubert e Lully, si comprende la disinvoltura con la quale gli autori hanno attinto dal grande magazzino della postmodernità.
Grande prova attorale per i due protagonisti. L’affettazione nella recitazione è bilanciata da una buona dose di ironia: sguardi sornioni, maliziosi, ammiccanti, mimica facciale che tradisce la maschera, intonazioni in levare, esasperata musicalità del fraseggio. Christopher Nell ha sorrisi satanici, la leggerezza di un pipistrello. Julie Shanahan ha una dizione splendida, caricaturalmente grandattorale.
I loro monologhi allo specchio non si riconoscono, potrebbero moltiplicarsi all’infinito, in una mise en abîme che tuttavia sembra sfuggire all’intenzione registica. Entrambi diventano delle silhouette in una rappresentazione tutta mentale.
Mentre il mondo al di fuori di questa fantasmatica emersione del soggetto, di questa rappresentazione di una rappresentazione, se n’è andato da un’altra parte.
Proprio come il mondo reale fuori da questo teatro.
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