#Sanremo2021 | Eravamo tutti strehlerianamente innamorati di Ornella Vanoni
Dalle canzoni della mala a Sanremo passando per la canzone popolare del Risorgimento
A #Sanremo2021 ci sarà anche lei, sul palco nella serata finale insieme a Francesco Gabbani, vincitore di Sanremo 2017. Divideranno il palco del Teatro Ariston nel corso della serata finale, in onda su Rai 1 il prossimo 6 marzo. Interpreteranno la canzone Un sorriso dentro al pianto, composta da Gabbani insieme a Pacifico e alla stessa Vanoni: è il primo singolo dall’ultimo album di Ornella, Unica.
Per festeggiare questo ritorno sanremese abbiamo chiesto a Eduardo Rescigno di un ricrdo inedito sulla Ornella degli esordi, poco dopo l’incontro con Giorgio Strehler e l’inizio teatrale di una strepitosa carriera.
La prima difficoltà l’abbiamo avuto con il poggioeu, una parola milanese la cui pronuncia, con quelle quattro vocali tutte di seguito, ci ha messo in imbarazzo. Non basta essere nati a Milano per saper parlare il milanese. Con la pronuncia ci andavamo abbastanza vicino, con l’aiuto di un cameramen che si chiamava Ambrogio Brambilla, ma andar vicino non vuol dire essere del tutto soddisfatti. Quella parola suonava male, sulle nostre bocche, e soprattutto sulla bocca di Ornella.
Perché tanta importanza a quel poggiolo, o meglio, come ci suggerisce il Cherubini, “terrazzo, balcone che sporge un po’ in fuori”? Perché da lì, da quel balconcino, una donna vede continuamente passare il “pover Luisin”, e se ne innamora, così, pur senza mai scambiar parola con lui, che se ne sta giù in istrada. È il tema di una bella, dolce, tenera canzone milanese, che mi è stata suggerita da Roberto Leydi – perché legata ai giorni della Seconda guerra d’indipendenza, quella del 1859. E noi, voglio dire il regista Gianni Serra, lo scrittore Piero Gadda Conti, e io, stavamo realizzando uno spettacolo da mandare in onda per la televisione. E chi, se non Ornella Vanoni?
Non erano trascorsi due anni – era l’aprile del 1957 – quando l’avevamo ascoltata al Piccolo Teatro, negli intervalli dei Giacobini di Federico Zardi, alle prese con qualche canzone della Rivoluzione francese: c’era su di lei l’imprinting di Giorgio Strehler e la benedizione di Gino Negri. Un anno dopo, ottobre 1958, era uscito il disco con Le canzoni della malavita, e in particolare quella di Dario Fo e Fiorenzo Carpi, Sentii come la vosa la sirena, con quel Nin Barbisa che, certo, non è confrontabile al “pover Luisin” destinato a morire in una “guerra desperada”, ma anche lui viene ucciso e “butà là cumpagn d’un sac”: raccontato con quella voce un poco rauca, quasi distratta, e del tutto disattenta alla temperatura del racconto. Vogliamo chiamarla un’interpretazione brechtiana? Ma certo, e nelle nostre intenzioni, soprattutto in quelle del regista Gianni Serra, niente di meglio per dare corpo alla donna che è sempre lì, affacciata al poggioeu, e “hinn già passà trii ann, / l’è mort, el vedi pù”. Perfetto. E il budget? Sì, potevamo permettercelo, e Ornella Vanoni era stata scritturata.
L’ambientazione era obbligata, sempre per via di quel poggioeu: una casa di ringhiera. A Milano ce ne sono ancora molte, ma allora, 1959, c’era un’offerta molto ricca, ed è stato facile trovare la location ideale. Proprio all’inizio dell’Alzaia Naviglio Grande, una casa a L, abbastanza aperta per facilitare le riprese, e credo che la casa sia ancora lì, intatta. Non potevamo permetterci un costume da donna lombarda metà Ottocento, e neppure lo volevamo. Così abbiamo optato per una tunica nera molto strehleriana, sempre per via di quel tanto di brechtiano che sia Serra sia la Vanoni si portavano addosso – Gadda Conti e anche io eravamo un poco spaesati da queste scelte, ma ci adattavamo facilmente al sapore del tempo.
Un rapido sopraluogo: Ornella si sarebbe mossa lungo la ringhiera, gli abitanti della casa erano pronti a non farsi vedere (avevano già avuto il privilegio di qualche indagine fotografica, la casa stava diventando un punto di riferimento). Non restava che registrare voce e fisarmonica, e poi filmare in playback.
Ma avevamo commesso un errore. Anzi, l’errore l’avevo commesso io. Per colpa della musica, di cui ero il responsabile. Quella canzone era non proprio una nenia, ma un ondulato sei ottavi che quasi poteva far pensare a una ninna nanna, pur senza esserlo, perché animata da una specie di ansiosa alacrità. Una melodia semplice, quasi banale, ma con una sua sfumata dolcezza, molto lombarda. In poche parole, con Ornella non funzionava. La musica, quella dell’Ottocento, non è brechtiana neanche un po’. Bisogna entrarci dentro, abbandonarsi al suo fascino intrigante. Non è Kurt Weill. Ma la nostra interprete, in quel momento, era stata plasmata in quel modo, e avremmo dovuto ricominciare tutto da capo; non avevamo il tempo – e io certamente la capacità – di cambiare le carte in tavola. Neppure Gino Negri avrebbe potuto farlo, lui che pensava la Vanoni come interprete ideale di canzoni popolari. Ci ha poi pensato lei a cambiare le carte in tavola, e con l’aiuto di qualcun altro nel 1965 è arrivata a Sanremo.
No, non è stato un disastro, tutt’altro. La presenza scenica di Ornella metteva in soffitta qualsiasi eventuale difetto vocale, e vederla lassù, al fatidico poggioeu, dava senso e consistenza all’immagine di una donna che ricorda e piange il suo innamorato che, “vegnùu el cinquantanoeuv”, non è più tornato, “eppur sto pover couer / l’è chi ancamò per lu!”. Certo, non è la donna del Nin Barbisa ucciso dalla “pula”, che avrebbe altro da pensare, e soprattutto da fare. Funzionava comunque.
Alla fine sono stato costretto a confessare che esageravo un poco, forse, nell’essere insoddisfatto. Da musicista, avevo in mente quello che avrebbe potuto fare Sandra Mantovani, la moglie di Roberto Leydi. Ma in quei mesi, erano tutti strehlerianamente innamorati di Ornella.
Tag: Giorgio Strehler (17), Stelle Fisse (21)