La testimonianza delle parole, la libertà del pensiero: Anna Politkovskaja

Intervista a Ottavia Piccolo e all'arpista Floraleda Sacchi sullo spettacolo Donna non rieducabile di Stefano Masini

Pubblicato il 19/09/2011 / di / ateatro n. 135

Dal 7 al 9 ottobre al Teatro India di Roma sarà in scena Donna non rieducabile, il testo di Stefano Massini tratto dagli scritti della giornalista russa Anna Politkovskaja. Una scelta che nasce dall’esigenza morale di prendere una posizione a favore della violenta soppressione della libertà di stampa nella Russia di Putin, una regia che sceglie l’obiettività, presentando non tanto un monologo teatrale quanto piuttosto una testimonianza. Accanto a Ottavia Piccolo l’arpa molto poco rassicurante di Floraleda Sacchi, che presenta la musica come secondo personaggio dello spettacolo, la seconda voce, che dà origine a un vero e proprio dialogo con la “narrattrice”.

Foto di Adriana Argalia.

Perché uno spettacolo su Anna Politkovskaja? Da quale urgenza è nato?

Ottavia Piccolo Ho letto il testo di Stefano Massini e ho detto immediatamente che lo volevo fare. Stefano l’ha scritto pochi mesi dopo la morte di Anna Politkovskaja che morì a ottobre del 2006. Me l’ha mandato a maggio del 2007, tra l’altro lo stava già mettendo in scena con altri attori ma in una versione diversa, con più personaggi. In quello stesso periodo le donne che io chiamo “le ragazze” di Usciamo dal silenzio (un gruppo che era nato in seguito alla legge 40, il referendum sulla procreazione assistita) mi hanno chiesto se avessi un testo da leggere a tematica ovviamente femminile e che avesse a che fare con il silenzio. Ho chiamato subito Stefano che nonostante la sua messa in scena mi ha concesso di leggere il suo Donna non rieducabile. Ho coinvolto subito, per curare la regia, Silvano Piccardi che ormai è mio complice quando bisogna fare delle cose difficili. A sua volta Silvano ha chiamato Floraleda Sacchi, che è diventata la nostra musicista arpista. E così abbiamo fatto la lettura. Il sottotitolo di questa prima versione era Memorandum teatrale per Anna Politkovskaja e in effetti proprio questo è rimasto: in quel frangente storico in cui si parlava molto di quello che stava succedendo in Cecenia, della morte della Politkovskaja e della morte di tanti altri giornalisti prima e dopo di lei, mi sembrava importante prendere una posizione a loro favore. Lo spettacolo – faccio fatica a chiamarlo spettacolo – in realtà è semplicemente un oratorio, infatti nasce minimale, diretto: in scena io con Floraleda che suona l’arpa, un’arpa molto poco rassicurante. Va detto che rispetto al testo della versione Massini regista è molto diverso perché Silvano gli ha chiesto una riscrittura più vicina al suo progetto registico.

Cosa significa per te misurarti con un personaggio che è diventato simbolo della resistenza della libertà di pensiero?

Ottavia Piccolo Io ho cercato molto modestamente di mettermi dietro, di non prevaricare il testo e le parole. È vero che le parole sono di Stefano Massini che le ha ricavate da articoli e interviste a Anna ma sono comunque le sue parole, sono il suo sguardo sulla Cecenia, sulla scuola di Beslan, sul teatro Dubrovka. Quindi ho cercato di non sovrapporre né Ottavia Piccolo né tanto meno il personaggio Politkovskaja. È vero che spesso parlo in prima persona come fossi Anna ma non ho mai cercato l’immedesimazione.

Ma questo per te è stato un sacrificio come attrice o un atto di generosità?

Ottavia Piccolo Non lo so. Mi è sembrato giusto con la forma che ha scelto Massini, cioè non lo sento come un monologo ma come un testimoniare con le parole. Come una testimonianza.

Come un reportage, come se tu fossi esterna a quel racconto.

Ottavia Piccolo Esatto.

Infatti hai dichiarato in un’intervista recente: “Racconto il mestiere della giornalista in una situazione estrema e cerco di essere il più possibile distaccata; sono pochissimi i momenti in cui mi lascio andare e parlo di Anna come persona.” Ciò mi fa pensare, in riferimento a questo spettacolo ovviamente, a te come un’attrice reporter piuttosto che un’interprete tradizionale, una narratrice insomma. Credi che sia l’unica possibilità di restituirci la Politkovskaja?

Ottavia Piccolo “Narratrice” mi piace molto, anche se io non sono capace di fare un teatro di narrazione che è un’altra cosa, se penso a Celestini, a Paolini, alla Curino. Io ho comunque bisogno di un filtro, in questo caso sono io ma non sono Ottavia Piccolo in quanto cittadina impegnata, persona che ha le sue idee. Mi metto non come una medium come quando affronto un personaggio: l’autore scrive un personaggio e il personaggio passa dentro di te e tu ti annulli; in questo caso non faccio questo percorso ma non sono Ottavia Piccolo che racconta, tant’è vero che io leggo in certi punti. E non sarebbe giusto farlo con parole mie come potrebbe succedere a Celestini. Io qui invece dico e leggo, a seconda dei casi, quelle parole lì. Mi sono chiesta insieme al regista se l’avessi dovuta fare più “vera”, più commovente? Ma non sarebbe stato in linea con il nostro progetto. Questo distacco ci è sembrato giusto per l’argomento, per cosa rappresenta Politkovskaja e il suo mestiere. E in effetti il testo di Massini non pretendeva di entrare nel privato, nel carattere, nella persona della protagonista ma ne raccontava di più il suo mestiere. Credo di aver letto tutti gli scritti della Politkovskaja pubblicati in Italia e mi sono fatta l’idea che la nostra scelta sia calzante con il suo modo di scrivere ironico, poco retorico, asciutto…

Io l’ho trovato quasi chirurgico.

Ottavia Piccolo Infatti questo suo sguardo così chirurgico – hai detto bene – e freddo.

Che scandaglia ma sempre con un passo indietro.

Ottavia Piccolo In un’intervista che Massini ha utilizzato per la scrittura del testo, la Politkovskaja afferma quello che poi era il suo credo giornalistico, cioè che lei racconta semplicemente i fatti senza esprimere commenti e opinioni e cerca di presentare i fatti come stanno, aiutando le persone a farsi una loro idea. Questo ci ha dato la misura di quello che sarebbe dovuta essere la nostra linea registica e interpretativa.

Ho trovato una coerenza forte tra Anna che è giornalista e deve raccontare i fatti e te che a tua volta racconti da attrice mettendoti a servizio di Anna.

Ottavia Piccolo È esattamente questo che abbiamo cercato.

Quello di Donna non rieducabile è teatro di parola sdoganato da immagini che risultano più potenti delle parole stesse e il paradosso è che sono suggerite da quelle stesse parole non essendoci immagini vive. Sei d’accordo?

Ottavia Piccolo Infatti. Anche questo ci ha molto colpiti sin dall’inizio. In seguito, dato che dovevamo portare in giro questo lavoro, con Piccardi si era pensato di inserire delle immagini proiettate. Poi ci siamo resi conto che non sarebbe stato necessario. Ormai quelle immagini che racconto le abbiamo tutte negli occhi, per esempio quando racconto dei bambini di Beslan io le vedo e so che anche il pubblico le vede perché fanno parte del nostro patrimonio culturale. E quindi sarebbe stato una sovrapposizione, un sovraccaricare la proiezione di immagini. Invece se il teatro funziona può farne a meno. Non può farne a meno un video, infatti giustamente Felice Cappa, il regista della nostra versione televisiva (Il sangue e la neve) realizzato RaiTrade e La Contemporanea per Rai Due Palco e Retropalco, ha inserito delle immagini di repertorio della Cecenia e di Anna stessa. E lì funzionano perché la televisione ha ovviamente un linguaggio differente.

Una storia, quella di Anna, riproposta sia per il teatro che per la stampa che per la tv: si tratta di una necessità di monumentalizzazione o semplicemente di far arrivare Anna a più persone possibili?

Ottavia Piccolo La Politkovskaja non aveva bisogno e non voleva essere un monumento, non voleva essere una diva e avrebbe potuto. Ma anche dopo la sua morte credo non ci sia stato sfruttamento della sua immagine né da parte nostra né dalle associazioni (ndr Annaviva di Milano, Anna Politkovskaja di Merano) perché il lavoro che lei faceva era così importante, necessario che è fondamentale mantenerne la testimonianza. Quando parliamo di Anna parliamo del mestiere dell’informazione. E quindi in un mondo in cui siamo sommersi dalle informazioni e dalle immagini resta a noi saperci districare e non essere spettatori passivi rispetto a quello che ci dicono e ci fanno vedere. Siamo ingannati, anche involontariamente, e quindi dobbiamo da soli capire cosa succede intorno a noi. Il metodo Politkovskaja è quello che va usato.

Nella versione televisiva si ha la sensazione di un’Anna murata viva nel grigio dell’ex cementificio di Alzano Lombardo (BG) nel quale risulta schiacciata, quasi pietrificata nel suo abito, grigio come l’intera struttura. In teatro invece risulta inghiottita da un vuoto che fa eco. Che ne pensi?

Ottavia Piccolo Questo è bellissimo. È proprio vero che il caso lavora in tutti i mestieri creativi. Quando abbiamo cominciato le riprese de Il sangue e la neve, che abbiamo girato in cinque giorni in una situazione in cui il regista aveva previsto un piano di produzione di un certo tipo, è piovuto dal primo giorno fino all’ultimo e abbiamo rivoluzionato tutto il piano. Mi ero portata due cambi, tra cui un impermeabile marrone con cappuccio e un soprabito grigio. Iniziamo le riprese, piove, eravamo al coperto ma la pioggia arrivava dentro e le gocce sull’impermeabile marrone non andavano via. Per cui dato che non giravamo le scene in ordine cronologico mi ritrovavo con delle macchie di pioggia sempre diverse da scena a scena. Abbiamo così ripescato il soprabito grigio sul quale le macchie di pioggia non si sarebbero notate eccessivamente. E grazie alla patina che l’operatore ha voluto dare a tutte le immagini, il colore del soprabito si era spalmato nel grigio del cementificio. Il caso ha scelto per noi. Mi viene in mente di tantissimi anni fa quando interpretavo Cordelia nel Re Lear di Strehler. Alle prove. Il finale era un’idea bellissima: c’era una tenda da circo e il regista voleva che alla fine si aprisse per entrare Lear con Cordelia morta in braccio. Un giorno alle prove, ci aveva fatto ripetere all’infinito: Tino Carraio (re Lear) mi prendeva in braccio e mi posava mi riprendeva e mi riposava, a un certo punto stesi la mano attraverso la tenda chiusa come per dire che eravamo stanchi e Strehler ebbe l’idea definitiva del finale. Anziché far aprire la tenda e trovare Carraro con me in braccio, mi chiese di provare a mettere la testa fuori dal buco e così sporsi i miei capelli lunghissimi. Ti assicuro che quest’immagine, che ricordava la nascita, era di una bellezza incredibile. Insomma lo ripeto ancora il caso nell’arte aiuta, e in alcuni momenti appare determinante.

Un altro aspetto interessante dello spettacolo è la musica-rumore: dalla raffica di mitra al gocciolare del sangue all’ansimare di una persona.

Ottavia Piccolo Floraleda e Silvano hanno lavorato in stretto contatto. Quando Silvano mi aveva detto di voler inserire un’arpa, ne fui spaventata in quanto l’associavo a una musica dolce e consolante invece mi sono meravigliata, e quindi ricreduta, quando ho sentito quegli accordi strazianti, a parte un frammento di Mozart e dell’inno russo. Questa musica rumore non è mai un accompagnamento ma un personaggio.

Floraleda Sacchi È vero, la musica è il secondo personaggio dello spettacolo, la sua seconda voce, che dà origine a un vero e proprio dialogo con Ottavia. In alcuni casi è la realizzazione quindi l’anticipazione o l’amplificazione dell’immagine del testo. Quindi più che di rumore si è cercato di creare una sonorità o un timbro che ricordasse un ambiente: la ventola dell’ospedale che sferraglia, la pioggia che cade sulla lamiera del carro armato. In altri casi è un accompagnare una scena, in altri casi ancora è una risposta alla scena. Gli interventi della musica hanno varie accezioni riguardo al testo ma in ogni caso resta un contraltare abbastanza forte.

E se Ottavia racconta un mestiere più che una persona attraverso la ricerca dell’oggettività, dell’obiettività a partire dall’enunciazione di quello che dice, in effetti la sua non è mai semplicemente una lettura e il confine tra “l’essere fuori e l’essere dentro” è sempre labile.

Floraleda Sacchi Si poteva raccontare in maniera melodrammatica strappalacrime invece la scelta è stata per una versione minimale. Non c’è nessuna ricerca forsennata di commozione che ci potrebbe essere essendo il testo assolutamente drammatico e carico di significati. C’è un racconto puro, freddo di quello che è stato che Ottavia ci restituisce con la sua recitazione quasi distante, a volte più partecipata ma mai completamente. E questo per rendere il tema universale perché altrimenti resterebbe la storia di una persona e invece in questo caso vuole essere la storia della libertà di espressione, di stampa, di poter fare il proprio lavoro.

E come Ottavia anche tu ti proponi di restarne fuori ma in realtà entrambe siete più dentro di quanto pensiate: tu con il riproporre certe situazioni sonore, infatti il suono a differenza delle parole non ha una stratificazione ma “è” e basta.

Floraleda Sacchi Credo che Massini abbia descritto molto bene quest’aspetto quando è venuto a sentirci per la prima volta. Infatti ci ha fatto notare come Ottavia era il presente, l’azione e la musica invece la memoria dell’azione stessa, e unendo questi due piani si otteneva un’astrazione di distanza nel senso che si dava l’idea del già trascorso: era chiaro che Anna era morta e tutti lo sapevamo, era chiaro che questa vicenda è perdente perché non c’è libertà di stampa e non c’è libertà di fare il proprio lavoro. Pertanto tutto è già perso in partenza e questo si sa già. E anche se lei sta raccontando un evento al presente, si sa già che è finito, passato e anche la mia musica dà il senso del finito. Ottavia racconta il presente e quello che io faccio è comunque qualcosa che è finita. E penso che questo dia una parte di freddezza, di distanza e chi lo guarda si accorge di questa freddezza nel senso che è preso ma allo stesso tempo resta attonito ma quando lo spettacolo finisce qualcosa comincia a lavorarti dentro e ti scava. Credo che sia questo l’effetto che dà questa freddezza che non è istantanea e ti tocca a livello emotivo.

C’è una sospensione?

Floraleda Sacchi Sì. Non ti arriva subito ma dopo e ti rendi conto che è angosciante e ti tocca profondamente.

Ho notato anche come la musica fosse l’espansione e in alcuni momenti lo squarcio, la lacerazione delle parole.

Floraleda Sacchi Sì, sicuramente. In certi momenti le smorza quasi, per esempio “la passeggiata tra le tombe” è un momento molto forte dello spettacolo in cui Ottavia depone tutti i nomi dei bambini morti sulle tombe come posasse dei fiori. In questo percorso non conta tanto il nome del bambino ma la tragedia di avere una strage di questo tipo. Non è più importante l’elenco e quindi le parole ma il percepire in quest’elencazione l’entità di una tragedia ancora più grande. La musica smorza il testo che non è più la parola singola ma l’idea di quello che sta succedendo.

C’è poi un’unica scena, anzi “istantanea”, in cui tu e Ottavia agite in perfetta contemporaneità, nel presente.

Floraleda Sacchi Credo che tu ti riferisca al Sangue e la neve in cui si descrive l’attentato. È il climax, il punto di arrivo dello spettacolo. È una corsa all’unisono.

Perché l’arpa?

Floraleda Sacchi Perché a contrasto poteva essere così inaspettatamente metallica e violenta da un lato e dall’altro assolutamente eterea nel suono. Fa parte dell’alone che dà allo spettacolo. È tra l’altro è un’immagine fisica forte.

Mi incuriosisce il tuo metodo compositivo…

Floraleda Sacchi Silvano mi ha fatto delle richieste molto precise e io ho proposto delle opzioni. Andavo a cercare l’effetto che mi richiedeva. Altra chiave usata spesso è stata quella della lacerazione, disgregazione, disfacimento, dal concetto alla casa all’attentato. E quindi abbiamo distrutto della musica, non solo l’arpa sferragliando un bel suono ma anche l’inno russo che diventa un insieme di suoni slabbrati o un frammento di Mozart che ho completamente stonato e che diventa la canzone alla radio.

Tornando alla messinscena, tutto appare estremamente semplice e diretto.

Ottavia Piccolo L’idea generale è che sembri qualcosa di semplice, ovvero che appaia che io e Floraleda ci siamo incontrate in quel momento e ci mettiamo a fare lo spettacolo. Questo aumenta la sensazione del pubblico di partecipare a una cosa viva che si sta facendo nel momento in cui la sentono.

Quasi come se gli spettatori fossero testimoni quanto voi che siete sul palco.

Ottavia Piccolo Esatto. Testimoni insieme a noi. Questo è l’aspetto che mi ha colpito di più di questo lavoro. Un reinventare ciò che sto dicendo come se fosse una cosa che esiste mentre la sto facendo. Ed è strano come sensazione se penso al fatto che abbiamo già superato la cinquantesima replica. C’è ancora una vivacità data dal fatto che continuo a metterci ciò che mi sta succede dentro di volta in volta. Leggo e penso a quante persone nel mondo siano considerate pericolose per lo Stato e mentre leggo mi rendo conto che lo sto facendo come lo si fa in un telegiornale.

Ragionevolezza del testo “insopportabile per i mandanti”, insopportabile anche per gli spettatori che restano ammutoliti per tutta la durata della messa in scena?

Ottavia Piccolo Credo di sì. Per lo stesso motivo di cui dicevo prima e cioè che siamo sommersi dalle notizie e spesso leggiamo con superficialità quello che ci succede intorno. Anche chi sa solo che Anna era un giornalista che è stata uccisa. Anche chi sa solo questo, sentendo le nostre parole si potrà rendere conto di come possono essere massacrate le persone sia dal punto di vista psicologico con la paura, con il terrore che con i colpi di pistola. E allora la gente è costretta a rivedere i suoi pensieri sull’argomento.

O comunque anche certe resistenze che se davanti alla tv cambiando programma si risolvono a teatro invece le puoi evitare solo se abbandoni la sala.

Ottavia Piccolo La gente mi viene a dire che non immaginava così tanto orrore nella Cecenia, ma secondo me la Cecenia è semplicemente l’esempio di tantissime altre realtà simili nel mondo dove regnano la violenza gratuita, l’imbecillità della guerra, ecc… Il testo del nostro spettacolo non procura lacrime facili semmai lascia con il fiato sospeso. Nessuna commozione catartica quindi ma solo lacrime di rabbia. C’è anche un forte disagio. C’è anche chi esce e ne rimane assolutamente indifferente. Noi non facciamo didattica e non vogliano essere seguiti a tutti i costi. Il teatro come l’arte in genere deve augurarsi di porre domande. Ripostiglio è una stanzetta buia in cui nessuno dovrebbe guardare, nel testo è la Cecenia.

E se dovessi pensare alla situazione italiana odierna?

Ottavia Piccolo Beh, ce ne sono parecchi ripostigli, uno per tutti la scuola che è un buco nero in cui non si deve guardare perché se si guardasse si vedrebbe il disastro del nostro paese. La scuola pubblica, malgrado migliaia di persone che ci lavorano al di dentro e sono motivate, è stata massacrata negli anni. Insomma ci sono luoghi che non vanno guardati. Così era per la Cecenia. È un’immagine molto bella quella del ripostiglio, scritta da Massini e ripresa da Anna: quando si mostra una casa si fanno vedere tutte le stanze tranne che il ripostiglio dove vengono nascoste le schifezze. Questo era la Cecenia.

Antonino_Pirillo

2011-09-19T00:00:00




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