Oltre i luoghi comuni: l’invenzione del teatro a Napoli in forma di libro

Il saggio di Teresa Megale, Tra mare e terra. Commedia dell’arte nella Napoli spagnola (1575-1656) [Bulzoni, Roma, 2017]

Pubblicato il 06/01/2019 / di / ateatro n. 166

Ateatro si occupa più di spettacoli che di libri, ma questo di Teresa Megale mi sembra un bell’esempio di “teatro in forma di libro”, soprattutto in alcune sue parti: un viaggio appassionante dentro due territori inesauribili, la Commedia dell’arte e Napoli città-teatro dove si mescolano “mille sangui”. L’autrice ricostruisce biografie attoriche, paesaggi e spazi, dedica pari attenzione ai dati di cultura materiale e ai processi di costruzione dei linguaggi d’arte, inserisce Napoli e il suo teatro in una rete di relazioni vive, oltre gli stereotipi e fuori dalle costruzioni mitiche. Trionfa la Storia, una disciplina da cui nemmeno chi si occupa di arti performative contemporanee dovrebbe prescindere. E forse nemmeno i recitanti, che oltre al tempo presente in cui si esibiscono e al tempo medio delle modalità produttive in cui operano, sono coinvolti in una lunga durata che li avvicina a quei lontani antenati nomadi, sempre in lotta fra tirannie del mercato e esigenze d’arte, fra difficoltà economiche e poteri ostili o indifferenti: intenti a fare teatro «oltre ogni ostacolo e oltre ogni difficoltà».

Silvio Fiorillo invia da Bologna 14 ducati alla moglie Angela

Silvio Fiorillo invia da Bologna 14 ducati alla moglie Angela. ASBN – Banco dello Spirito Santo – giornale matr. 116 – partita di 14 ducati estinta l’8 aprile 1617. [foto dell’archivio]

La scena teatrale a Napoli è caratterizzata dalla fluidità e dall’instabilità (tanto che le compagnie non si danno un nome), dall’assenza di protezione signorile e dalla dipendenza dai mercati. L’affluenza di pubblico fa della città una buona piazza, ma le tasse sono esorbitanti: lo ius repraesentandi voluto dal governo madrileno impone di devolvere metà degli incassi all’ospedale degli Incurabili, avallando l’idea che i comici debbano redimersi e trasformare lo spettacolo in opera pia.
La situazione risulta “divergente” per questi e altri aspetti, fra cui s’impone la minore presenza femminile. Le attrici sono per lo più straniere, vengono dalla Spagna o da altre regioni o dal contado. Il dato è rilevante, visto che proprio la comparsa delle attrici rappresenta uno dei punti di novità della Commedia dell’Arte, la fine (almeno in alcune parti d’Italia) di un’interdizione secolare non solo italiana che aveva riservato il palcoscenico ai soli uomini. E se altrove nelle famiglie d’arte sono numerose le coppie coniugali, un fenomeno ben visibile anche oggi, a Napoli prevalgono coppie di uomini: padre-figlio, fratelli, sodali. Il minor numero di attrici del luogo favorisce il ricorso al travestimento e dunque si privilegia la cifra grottesca e parodistica. O è il contrario? E cioè il gusto del cross dressing e l’accettazione della femminilità negli uomini determinano una minor domanda di attrici.
D’altro canto, le donne che vogliono intraprendere l’Arte devono fare i conti con un clima pieno di minacce. Per questo le bambine a servizio nella compagnia, più ricercate dei bambini, vengono pagate il doppio. Si veda, per esempio, la vicenda di Antonia De Ribera. Desiderata dal viceré, conte di Monterrey, e innamorata del principe romano Pompeo Colonna con cui fugge, quando quest’ultimo cede alle minacce del primo e insiste perché Antonia torni a Napoli, lei preferisce rifugiarsi in un convento: ematomi e lividi presenti sul suo corpo ne testimoniano il motivo.
Il sistema ingloba le attrici ma «non le valorizza, le accoglie ma non le cerca», però sono pagate quanto gli attori e sono assai duttili. Fra loro se ne impone una di prima grandezza: Adriana Basile, attrice-cantatrice-musicista-impresaria, alla quale si deve la pubblicazione postuma de Lo cunto de li cunti del fratello Giovan Battista. Magnetica «sino quando tace et accorda», dichiara l’ammirato Monteverdi.

Antonio Galluccio, ‘T[erri]torio di Santa Marta’ con la ‘Strada della Commedia Vecchia’ [Stanza di San Giovanni dei Fiorentini], XVII sec.

Il secondo capitolo del libro è dedicato agli spazi. Megale poggia visioni e ipotesi scientifiche su ampie basi documentarie e su accurati scavi nella letteratura esistente, oltre a proporre nuove fonti e nuove letture. L’immagine forte, indimenticabile, è quella del golfo di Napoli come scena teatrale di per sé (definito «dal profilo del Vesuvio e delle isole, quasi quinte sorte a contenere la scena»), quindi dell’uso del mare a fini spettacolari. E il contraltare della terra: la parte della città che ha come perno il Palazzo Reale e quella popolare dove finiscono immigrati come Pulcinella, che secondo i primi interpreti viene da Ponteselice, al confine della zona bonificata. Poi è una fitta ricostruzione della storia degli edifici teatrali, delle stanze adibite agli spettacoli, delle esibizioni nelle piazze, delle cerimonie per mare: vi si staglia da protagonista la Chiesa napoletana post-tridentina «oltremodo potente e pervasiva», che alimenta la spettacolarità barocca e per gestirla in prima persona si appropria degli spazi teatrali e costringe i comici a continui traslochi. Seicento reliquie di corpi di santi, ventisei santi patroni, il sangue zampillante non solo di San Gennaro; le chiese come spazi in cui stordire i fedeli con luci e ombre, musiche e canti, statue e affreschi; il potere istrionico dei predicatori. Se dovesse scomparire il cattolicesimo, «l’ultimo posto probabilmente non sarebbe Roma, bensì Napoli», secondo Benjamin.
La storia degli spazi è storia di persone: fra cui i tre che dettero vita alla stanza della Duchesca, tentarono di resistere alla voracità ecclesiastica e trovarono infine più conveniente convertirsi e cambiar mestiere. Una capacità di gestire le situazioni che poteva essere anche delle istituzioni: così il caso spinoso dell’Accademia diretta da un abate, che arrivò a celebrare le nozze di tre coppie di omosessuali, non fu risolto con il rogo degli eretici ma trattando l’episodio come una burla.

Salvator Rosa, Autoritratto in veste di Pulcinella, 1645 [collezione privata]

Tutti questi aspetti ‘divergenti’ cosa producono a livello di linguaggio teatrale? Megale insiste «sull’importanza decisiva della scoperta del corpo da parte dei comici dell’Arte che, con un impatto eguagliabile alla coeva rivoluzione copernicana, aveva ripristinato la centralità delle risorse espressive fisiche dopo la negazione dei secoli precedenti e aveva cambiato sensibilmente il corso dell’immaginario dell’Occidente»; e sottolinea «le abilità non comuni» degli attori napoletani, capaci di far parlare il corpo e sfruttare al massimo il loro patrimonio di lazzi, di combinarli con abilità di altra provenienza, di montarli e smontarli con una «felicità quasi nevrotica». E poi c’è Pulcinella, a cui si ispira la copertina del libro, da un disegno di Mimmo Paladino.
Il personaggio colpì comici dell’arte famosi come Silvio Fiorillo, padre di Tiberio (Scaramouche) e Pier Maria Cecchini. Il Pulcinella partorito dalla fantasia di Fiorillo è «un tanghero discendente a sua volta da un ‘gambero’ con gli arti inferiori da villano, corti, tozzi e divaricati, inutilmente prolifico, venuto al mondo a ridosso dei Regi Lagni da un coitus interruptus e da un parto velocissimo», creatura anfibia, che evoca la morte insieme alla vita. Ma si tratta di «una disciplinata goffaggine», avverte Cecchini: ci vuol molto studio «per passare i termini naturali, et mostrar un goffo poco discosto da un pazzo, et un pazzo che di soverchio si vuole accostar ad un savio». La mezza maschera sul volto scavato e il naso adunco, il morbido cappello bianco dalla punta tonda, l’ampio camicione fissano i caratteri della maschera che nasce senza nessuna leziosità, con i tratti violenti e trasognati della Napoli barocca.

Teresa Megale, Tra mare e terra. Commedia dell’arte nella Napoli spagnola (1575-1656) [Bulzoni, Roma, 2017]

Da Silvio Fiorillo – che fu oltre a Pulcinella il Capitano Matamoros – Megale fa partire un altro viaggio che porta a Cervantes, alla coppia Don Chisciotte e Sancho Panza. Cervantes visse a Napoli nel 1571 e poi dal 1573 al ’75 di guarnigione come soldato di fanteria di ritorno da Lepanto. In quella storica battaglia forse combatté anche Francesco Andreini, il Capitano Spavento di Valle Inferno, che pubblicò le sue Bravure nel 1607, a distanza di soli due anni dal primo Don Quijote. Poi, un altro viaggio ci porta dal duca di Osuna, celebre seduttore che stilò per un’amante napoletana l’elenco delle sue conquiste, al Don Juan, alla cui fama Napoli tanto contribuì. Proprio in questo ambito, dunque, va collocata la nascita drammaturgica del celebre catalogo delle donne di Don Juan, come svela Megale.
Dopo queste prime trecento pagine, dove un fitto tessuto di fonti nutre l’esercizio critico e apre squarci inediti, l’autrice offre una selezione di prove documentali: è un libro di Storia appunto, ma è soprattutto un invito ad andare avanti. Come ha fatto De Simone con il capolavoro di Basile, come hanno fatto Totò, Eduardo, Peppino e altri dopo di loro, liberamente rapportandosi alla maschera pulcinellesca.




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