L’’attore come Giano

Cerimonia di e con Lorenzo Gleijeses

Pubblicato il 05/02/2011 / di / ateatro n. 135

Far accadere le cose senza il pudore di rappresentarle come se si appartenesse ancora al reale, come se fosse possibile appartenervi. In un mondo in cui la realtà supera continuamente la fantasia, l’unico riscatto possibile per la fantasia resta lo scacco di un tentativo continuamente frustrato e continuamente esibito. Cerimonia di Lorenzo Gleijeses (la Cerimonia per un negro assassinato di Arrabal rappresenta solo una remota scaturigine e, per fortuna, senza conseguenze), è un accadimento prezioso, destinato, ne siamo certi, a fare rumore nel disperato futuro del teatro italiano ben al di là dell’effettistica di luci al neon e suoni cavernosi che innervano la campitura buia del nostro tempo. La nuova frontiera dell’’attore-artifex si staglia, in questa tranche teatrale con una capacità d’ibridazione di forza inusitata. Le coreografie ritagliano con precisione chirurgica i cerchi concentrici di un’immaginaria montagna purgatoriale, un labirinto in cui non si può se non smarrire sé stessi. Spalancata, nuda, fragile, la scena, nell’allestimento di Gleijeses, (deejay umbratile e sinistro in un milieu che ha finalmente spacciato la regia e le sue prosopopee), si offre come spogliatoio, refettorio cannibalico e divertito per il banchetto crudele dei fantasmi che lo abitano. Come quello che vive accanto (dentro), la silhouette di Manolo Muoio, visitata da una moltitudine di linee di fuga. Il corpo, scortato da una larva femminile (un indumento abbandonato), si getta in pasto al turbine metamorfico, circonda e viene circondato da infinite potenzialità mutanti, ne è assediato. La performance non è un alibi virtuosistico, ma la via d’uscita dalla trappola naturalista, per via di gesti inconsulti e rigorosissimi o di pose statuarie. Proprio da un’immobilità fuorviante, Anna Redi inaugura le sue magnifiche scorribande tra riascolti shakespeariani, follie di un trash televisivo di provincia, taciti sussulti del repertorio di Concetta Barra. Facendo tesoro della lezione beniana sull’amplificazione come desertificazione inesorabile, tensione verso un grado zero identitario, azzeramento di sé, Gleijeses ordisce tappeti sonori che sono possessioni demoniche di un passato che non torna e non potrà tornare, segna disperatamente il palcoscenico con il microfono (simulacro della voce e, dunque, del morto orale: lo scritto). Quello che sopravvive della tradizione drammaturgica è, infatti, un’eco destinata ad essere finemente triturata, decostruita in un orizzonte scandito da note distorte, barlumi di boati e urla subito implose come se fossero pronunciate dal fondo di un gelido acquario. Quando, in questo quadro, abbandonando in ultimo la consolle, compare Lorenzo Gleijeses, ha il viso tagliente e affilato di una creatura squaliforme, capace di dividere in due il mondo che osserviamo, il mondo che osserva. Come l’apparizione di un genius bifronte, Gleijeses indica, con la sua stessa figura, da una parte la persistenza ineludibile di una delle poche, autentiche, genealogie teatrali italiane (ovvero quella degli attori napoletani), dall’altra il definitivo impazzimento delle ultime schegge del Terzo teatro. L’attore come Giano ha uno sguardo di pietra, innocente ed efferato che si trasmette, per contagio, ai suoi compagni. Non si passa da questa porta se non al prezzo di una guerra atroce. Una guerra che ha le sue convenzioni, certo, ma anche la sua impietosa barbarie. Una barbarie giocosa e variopinta (fatta di parrucche in technicolor), che non ha alcuna voglia di celiare, al riparo dalla temperie ammiccante e chiaroscurale del presente. Anche in questo senso, dunque, lo spazio scenico esplicita felicemente una pulsione antitetica al reale, un desiderio di rimanere al di qua della concretezza acuminata delle cose. L’episodio della telefonata, anticipato da un frammento d’inopinata provenienza ruccelliana, lamenta (e celebra al contempo), un disguido, uno scarto incolmabile tra la finzione, il trucco, il mascheramento in cui rifugiarsi, lontano il più possibile dalla grossolanità corale di una quotidianità corriva. La comicità di questo frangente cruciale traduce in modo emblematico la caratura di un trauma privo del senso del sacro, avendo Gleijeses abbandonato la pretesa di un qualsivoglia rituale ieratico ed essendosi consegnato alla pseudo-etimologia di una cerimonia che “si rallegra” pienamente di sé e delle sue fascinose volute. In tale prospettiva, quello di Gleijeses non è più un corpo celebrante o sacerdotale, ma un fascio di nervi spiraliforme che si avvita ossessivamente, si perde in una vertigine inesausta di sé, in un raptus da rockstar ferita. Da questa consapevolezza non può che scaturire, accampandosi in un immaginario post-punk, la sinopia dell’ultima liturgia plausibile: ovvero quella del concerto che reclama, attraverso le note convulse dei Joy Division, i suoi martiri. L’ultimo respiro esalato al microfono è appunto una preghiera e una rivendicazione della parola, innamorata, nonostante tutto, della propria illusione: Don’t walk away, in silence…


Cerimonia
di Lorenzo Gleijeses
con Lorenzo Gleijeses, Anna Redi, Manolo Muoio
regia di Lorenzo Gleijeses
Una produzione: Teatro Stabile di Calabria – Teatro Quirino “Vittorio Gassman”
In tournée

Dario_Tomasello

2011-02-05T00:00:00




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