Precarietà individuale, speranze collettive: il lavoro nel mondo dello spettacolo
Un'intervista con Maurizio Di Fazio, autore di Italian Job. Viaggio nel cuore nero del mercato del lavoro italiano
Maurizio Di Fazio è autore di un’ampia inchiesta sul (nuovo) mondo del lavoro in Italia, Italian Job. Viaggio nel cuore nero del mercato del lavoro italiano (Sperling & Kupfer). L’indagine copre vari settori, in particolare l’area del nuovo precariato. In questo scenario, il lavoro nel mondo dello spettacolo assume una particolare rilevanza, tanto da essere al centro del capitolo conclusivo.
Per quanto riguarda il lavoro che cosa accomuna e cosa differenzia il settore dello spettacolo rispetto agli altri ambiti da lei analizzati? I lavoratori dello spettacolo sono più vicini o più lontani dagli altri lavoratori, ripsetto (diciamo) a trent’anni fa?
Sono tanti, purtroppo, i punti in comune. Non esiste più una grande differenza tra i lavoratori dello spettacolo, dell’industria culturale e, per esempio, i lavoratori manuali. Un nuovo proletariato prettamente economico e preterintenzionale s’avanza, tenuto insieme da una condizione materiale che molto spesso rasenta, e nella migliore delle ipotesi, la soglia di povertà. Il report della fondazione Di Vittorio è davvero raggelante. Obietteranno gli avvocati del diavolo: lavorare nel mondo dello spettacolo è ineluttabilmente cosa precaria, fluida, liquida, volatile. Un ballerino, uno sceneggiatore, un attore non balla sempre, non scrive tutti i giorni, non recita ogni settimana. Ma appunto per questo occorrerebbero forme codificate e stabili di sostegno al reddito di figure così importanti per la formazione del nostro immaginario, per la generazione e la rigenerazione dei nostri sogni collettivi. Dovremmo fare come si fa in Francia e in altre parti del mondo. Rendere un minimo solida, da un punto di vista economico, l’ineludibile intermittenza artistica. E ricordiamoci sempre che senza questi peculiarissimi lavoratori non ci sarebbe più nessuna speranza. Cosa è cambiato, per loro, rispetto a trent’anni fa? La precarietà ha eroso ulteriormente sia la loro identità pubblica che il loro potere d’acquisto privato. I lavoratori del mondo dello spettacolo sono tra le vittime sacrificali delle varie leggi finanziarie e di riforma del mercato del lavoro che si sono succedute nel corso degli ultimi 25 anni. Come, e più, di altre categorie professionali.
Lei sottolinea i rischi che corrono i lavoratori dello spettacolo, a partire dalle “morti bianche da concerto”. L’abolizione del certificato di agibilità prevista dall’ultima legge di stabilità non rischia di peggiorare la situazione?
Assolutamente sì. Il certificato di agibilità resta un grimaldello fondamentale nella lotta all’evasione e al “nero”. Uno strumento di legalità semplice e immediato. La sensazione è che si proceda verso una deregulation sempre più inesorabile del settore, al netto di promesse e parole d’ordine. Va però detto che a essere esonerate dal certificato di agibilità dovrebbero essere solo le imprese dello spettacolo che assumono direttamente gli artisti chiamati a esibirsi nei propri locali. E che, fatto ben noto, queste imprese “datrici dirette di lavoro” sono mosche bianche, mentre abbondano le cooperative e gli intermediari. Però siamo in Italia, terra delle leggi e delle norme salomoniche presto deviate e traviate di senso…
Lei dedica il capitolo finale della sua inchiesta a “Vivere e morire (a stento) da lavoratore dello spettacolo”. Perché ha deciso di chiudere con questo settore?
Perché è un settore nevralgico, nonché passibile di esser preso a esempio, da cartina di tornasole di un de profundis di diritti e garanzie non soltanto economici, materiali, contingenti, ma esistenziali, immateriali, “umani”. E cosa c’è di più esistenziale e umano, di meno ipocrita e distante di un lavoratore del mondo dello spettacolo? Nascono prima la flessibilità, lo spread, i vincoli di stabilità, o la bellezza e la potenza di uno spettacolo teatrale o di un concerto jazz? Riposizionare l’uomo al centro dell’economia: questo è un assunto indifferibile, e a sentirlo prima di tutti sono gli artisti, che vivono e muoiono per tutti noi.
Conosce “buone pratiche del lavoro” che potrebbero utilmente essere applicate al settore? Come possono fare i lavoratori di questo settore a difendere i propri diritti?
Credo sia fondamentale tornarsi a parlarsi anche a livello orizzontale, provare a ricomporre i frammenti di un discorso interrotto tra i vari segmenti del settore. Diventare un vero soggetto collettivo, cosciente e consapevole della propria importanza e quindi dei propri diritti calpestati. Organizzare forme creative, originali e nuove di dissenso collettivo: chi meglio dei lavoratori dello spettacolo può plasmarle. Cercare forme di solidarietà sistematiche (e dovute) anche tra gli spettatori, che vi applaudiranno anche fuori dalla scena, a riflettori spenti.
Vede qualche rapporto tra l’intermittenza francese e il reddito di cittadinanza e in generale l’evoluzione del lavoro, in termini di riqualificazione formazione permanente?
Dico di più: l’intermittenza francese potrebbe proprio essere presa a paradigma, a calco di una nuova legge sul reddito di cittadinanza. Tutti i lavori, nessuno escluso, hanno assunto le sembianze quantitative di quelli tipici dello spettacolo. Ormai si lavora tutti a prestazione, per performance occasionale, per somministrazione episodica di sé. Solo che tra un lavoro a giornata e l’altro c’è il silenzio, l’attesa, lo sconforto. Non retribuiti. E poco più in là comincia l’abisso.
Anche di questo si parlerà il 24 marzo 2018 alle #BP2018 Obiettivo lavoro.
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