L’avventura del Teatro Ringhiera: dalla desolazione della Piana alla nascita del teatro, dalle attività nel quartiere allo sfratto

A cosa serve un teatro nella periferia Sud di Milano

Pubblicato il 06/06/2017 / di / ateatro n. 161

L’8 giugno si terrà a Roma il convegno Futuro Periferie. La cultura rigenera: un convegno, gratuito, organizzato dalla Direzione Generale Arte e Architettura Contemporanee e Periferie Urbane del MiBACT.
Un viaggio nel presente e nel futuro delle periferie urbane italiane. La potenza della cultura che demolisce i muri del degrado rigenerando il capitale sociale, per stabilire un nuovo legame tra i cittadini. Approcci innovativi, politiche che scommettono convintamente sulla cultura come pilastro per costruire il rilancio delle città. Pubblichiamo qui di seguito l’intervento di Serena Sinigaglia sulla storia del Teatro Ringhiera di Milano.

Il sito: http://www.futuroperiferie.beniculturali.it/.

Mi è sempre piaciuta la parte sud di Milano, sì, perché vedete, se tu parti dal Duomo e cammini diritto per poco più di una mezz’ora, vedi cambiare il paesaggio urbano, con una velocità e un’evidenza straordinarie.
Dal centro più centro che c’è alla periferia metropolitana più periferia che c’è.
E in meno di un’ora!
Casermoni, stradone, supermercatoni che vanno a sostituirsi a palazzi importanti e belli. Giacche e cravatte, colori sobri ed eleganti, che lasciano il posto a giacconi, bluse, T-shirt, colori sgargianti.
Quando arrivi a Piazzale Abbiategrasso, devi proseguire per via dei Missaglia, poi giri a destra su via Boifava, cammini fino al 17, e sei arrivato. Facile.
Ma dov’è? Qui non c’è un teatro.
Sali le scale, superi l’ingresso dell’anagrafe, arrivi ad un enorme spiazzo con tutto l’asfalto crepato, lì troverai l’entrata del Teatro Ringhiera.
Ma come si chiama questo enorme spiazzo sopraelevato dall’asfalto tutto crepato?
Non ha un nome, qui lo chiamano “La Piana”.

Al femminile perché è grande e forse un tempo anche accogliente. Un tempo molto lontano, però. Perché quando siamo arrivati, dieci anni fa, la piana era abitata da micro-criminalità e tossicodipendenti. Alla sera coprifuoco. I pochi abitanti del quartiere che si arrischiavano ad attraversare quella piazza, quella specie di lavagna di cemento, vuota e distrutta, lo facevano a passo spedito. Gli altri evitavano di passarci.
“Sono anni che chiediamo che ci rimettano a posto l’asfalto della piana! Io sono vecchia, inciampo, mi rompo il femore e poi che faccio? Ho i nipoti a cui badare, mica posso andare in malora!”. Questo ti sentivi dire.
Un giorno stavo arrivando con un attore, per fare una prova di non so quale spettacolo.  Dovevano essere suppergiù le nove del mattino.
“Sere… Sere… Sere… ma… cosa sta facendo quel tipo?… Non ci credo… sta… ma qui?”
Un ragazzo, probabilmente annebbiato dalla droga, quella che ti stronca, quella dei poveri cristi, stava letteralmente defecando davanti all’ingresso.
Insomma lo scenario era quello di un disagio manifesto, immerso in un quartiere di casermoni silenti e indifferenti.
Si trattava di costruire con l’aiuto del nostro pubblico, uomini e donne, artisti e non, che ci avevano seguito e sostenuto durante i precedenti anni di nomadismo, un presidio sociale, aperto, vivo, trasversale.
Si trattava di agganciare, convincere, e infine coinvolgere più gente possibile del quartiere.
Si trattava, quindi, di costruire una grande comunità capace di proteggere e animare quel luogo, accanto a noi.
Laboratori per anziani, per diversamente abili, per comuni cittadini, per adolescenti, per bimbi, per drag queen e king, spettacoli di giovani promesse ma anche di grandi star, concerti, festival, feste, dj set… pure la Scala ci portiamo!
“Va che viene Baremboim, prima della prima, il 7 dicembre!”
“Ma veramente?”
“E come facciamo?”
“Non abbiamo abbastanza sedie…”
“E poi fa freddo!
“Va beh, dai! Ognuno si porterà la sedia da casa, come si faceva un tempo…”
“Poi noi portiamo tutte le coperte che abbiamo a casa…”
“E mettiamo su un po’ di vin brulè!”
E se l’asfalto crepato della Piana non abbiamo le forze di pareggiarlo, potremmo semplicemente colorarlo.
“Te li immagini i bimbi del nostro laboratorio che colorano fiori seguendo le crepe? Se le guardi dalla giusta prospettiva, tutte ‘ste crepe, potrebbero essere petali e corolle! Facciamo fiorire la piana, laboratorio dopo laboratorio!”
“E allora io rilancio e ti batto: che ne dici se ci inventiamo un Festival di street artist e il Boifava diventa come uno di quei quartieri periferici fighissimi di Londra o Berlino, che ci vanno gli esperti d’arte a vederli per quanto belli sono i loro murales? Basta con le pareti marroncino tristezza di questo edificio, andiamo di disegni e visioni! Che poi ho chiesto consiglio ai ragazzetti, magari gli porto un loro idolo, così la smettono di imbrattare… dico per rispetto… La regola non scritta vuole che non si scrive sul murales di un altro!”
La piana cominciava ad animarsi di gente, di giorno come di sera. E di fiori e di colori. Diventava quel luogo accogliente nel quale ti veniva voglia di sostare, anche solo per prenderti un caffè e chiacchierare con un amico.
E quando un amico, un grande amico, morì, travolto da un’auto mentre pedalava in Piazza della Repubblica, a centinaia vennero a onorarlo, non nel luogo del fatale incidente, no, sulla Piana, che lui, per primo, aveva contribuito a rianimare. Lì, volevano venire, in quella casa che era la sua ma anche la loro, per condividere il dolore, per starsi vicini in un momento tanto tragico.
Oggi La Piana un nome ce l’ha, si chiama così: “piazza Fabio Chiesa, attore e artista di strada, 1973-2010”.
Quando alla sera mi fermo a guardare quella targa, per quanto stanca o disperata io possa essere, mi sento meglio.
Oggi questo posto ha un nome e quindi esiste.
Ecco cosa fa la cultura: nomina le cose, facendole diventare reali.
Reali come le migliaia di persone del quartiere e di tutta Milano che ogni anno frequentano le attività di Piazza Fabio Chiesa.
Reali come i fiori che adornano l’asfalto e i murales che rallegrano le pareti.
E’ vero che i quartieri periferici e difficili delle grandi metropoli hanno bisogno, come l’acqua per l’assettato, di progetti come il nostro, ma è anche vero che il centro delle grandi metropoli ha bisogno di periferie così animate…esse, le periferie, diventano polmoni di “gioco” e di partecipazione che il centro, per sua natura architettonica e urbanistica, prima ancora che per volontà politica, non può offrire. Luoghi di “libertà”, fuori dall’ansia di prestazione tipica della nostra epoca.
E’ freschissima la notizia che saremo costretti a lasciare il Ringhiera. La dichiarazione ufficiale da parte dell’assessorato alla cultura di Milano è che dal 3 ottobre dovremo andarcene. Gli uffici tecnici non hanno dato il via libera alla stesura del bando e di conseguenza anche del relativo contratto di locazione. Gravi problemi strutturali all’intero edificio. Niente autorizzazione, niente rinnovo.
Potete immaginare la nostra costernazione.
Il problema, però, non è tanto quello, se vogliamo privato, della compagnia Atir, che pure ha dedicato energie, denari, sforzi in quel luogo. Fa male, malissimo ma ce la caveremo. Il problema è l’assenza di certezze sul destino di quello spazio davvero unico, speciale, così importante per la città. Persino i curatori di questo convegno hanno scelto Piazza Fabio Chiesa come immagine di riferimento sulle loro presentazioni e i loro manifesti.
Ora.
Quando cominceranno i lavori? Quando finiranno? Quale sarà la destinazione d’uso una volta ristrutturato? Verrà ristrutturato o potrebbe persino essere possibile che venga abbattuto perché considerata troppo onerosa la ristrutturazione? Perché si aprono nuovi spazi enormi o si offrono cifre imbarazzanti ad alcuni e non si valorizza e investe su realtà esistenti e funzionanti? Perché troppo spesso si parla di periferie ma poi le si abbandona?
Domande semplici, necessarie, a cui nessun organo istituzionale competente ha dato risposta. Nessuna dichiarazione ufficiale, a parte il fermo proposito di mandarci via di lì dal 3 Ottobre.
Siamo gente che ha sempre creduto nel rispetto delle leggi e delle istituzioni, ma finché queste risposte non saranno date con chiarezza, continueremo, in modo garbato e dialettico, a presidiare Piazza Fabio Chiesa. Lo consideriamo un dovere morale.
Se le periferie sono risorse necessarie per il centro, la chiusura del Teatro Atir Ringhiera non è un danno solo per Atir e per tutti i nostri numerosi sostenitori, è un danno per tutta la città. Se ogni spazio esistente sviluppasse la propria identità e funzione, in sinergia e collaborazione con le istituzioni, potremmo insieme creare una bella città, una metropoli in cui, incredibile ma vero, si possa essere felici di vivere.




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