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In anteprima un capitolo del libro che ripercorre i 25 anni di Motus, Hello Stranger, Damiani Editore
Domenica 29 gennaio al MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna alle ore 11.30, è stato presentato Hello Stranger, il libro edito da Damiani che ripercorre 25 anni della storia dei Motus.
Il libro è ideato e curato da Daniela Nicolò & Enrico Casagrande, composto graficamente da Damir Jellici, con la collaborazione all’editing di Laura Gemini e Giovanni Boccia Artieri e il coordinamento di Elisa Bartolucci con l’assistenza di Federico Magli. Interventi di: Wlodek Goldkorn (introduzione), Silvia Bottiroli, Laura Gemini e Giovanni Boccia Artieri, Jean-Louis Perrier, Fabio Acca e Silvia Mei, Oliviero Ponte di Pino, Melanie Joseph, Matthieu Goeury, Didier Plassard.
E inoltre: Tom Walker, Meiyin Wang, David Zamagni, Luca Scarlini, Dany Greggio, Nicoletta Fabbri, Luigi De Angelis, Damiano Bagli, Eva Geatti, Felipe Ribeiro, Mohamedali Ltaief (Dali), Tilmann Broszat, Marco Bertozzi, Emanuela Villagrossi, Silvia Fanti, Silvia Calderoni, Vladimir Aleksic, Francesco Montanari, Brad Burgess.
Hello Stranger si articola in otto capitoli e racconta attraverso immagini e testi come il lavoro dei Motus abbia prodotto un cambiamento nel linuaggio artistico teatrale. Le immagini proposte documentano quasi 100 spettacoli messi in scena dai Motus.
Qui di seguito, l’intervento di Oliviero Ponte di Pino.
Terrain vague. L’icona è Silvia Caledoroni sui roller, che in Run (2006) attraversa i terrains vagues di qualche periferia, “dalle colonie in disuso della Riviera adriatica, agli spopolati quartieri della ex-DDR, da Berlino est ad Halle”. Sono
luoghi esterni, strani luoghi esclusi dagli effettivi circuiti produttivi della città. Da un punto di vista economico, aree industriali, stazioni ferroviarie, porti, vicinanze dei quartieri residenziali pericolose, siti contaminati (…) aree dove possiamo dire che la città non esiste più.
(Ignasi de Solà Morales, “Quaderns”, n. 212, 1996)
Sono terre di mezzo sospese tra la città e la natura. Hanno perso o non hanno ancora trovato un loro utilizzo. Trasmettono un sentimento di speranza e di libertà, e insieme di vuoto e di angoscia. Sono gli stessi paesaggi che tornano in X(ics) Racconti crudeli della giovinezza (2007).
L’aperto. Silvia Calderoni scivola lungo traiettorie sghembe. Non ha radici. Non appartiene a nessun luogo. Attraversa quei luoghi senza identità. Non ha identità, se la può costruire e cambiarla in ogni istante. Nomade senza ancoraggio, vaga in uno universo isotropo, cioè in uno spazio le cui proprietà non dipendono dalla direzione in cui lo si analizza. Giorgio Agamben lo chiama “l’aperto”. Consente la comparsa della possibilità nell’universo delle determinazioni. In questa capacità di emanciparsi dalla necessità funzionale starebbe, secondo Agamben, la distanza tra l’uomo e l’animale. Ma sta anche la differenza tra un soggetto dall’identità liquida e il suddito predeterminato da una società gerarchizzata (vedi Giorgio Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino 2002).
La scena. Che cosa accade quando la funzione d’onda di questa particella elementare collassa, e il corpo passa dal virtuale dello schermo cinematografico allo spazio reale della scena teatrale? Che cosa accade quando quel soggetto diventa oggetto dello sguardo dello spettatore? Viene intrappolato, entra in uno parallelepipedo chiuso e limitato, lo spazio isolato da influenze esterne dell’esperimento scientifico.
Il cubo. La riduzione del soggetto a oggetto è violenza. Si crea una separazione tra oggetto e soggetto, una barriera che li separa. Quel corpo che si muoveva liberamente in uno spazio infinito viene intrappolato nello spazio chiuso della scena. E’ il cubo di vetro del beckettiano Catrame (1996), con il corpo che sbatte dolorosamente su quel limite. Sono gli assi cartesiani che intrappolano il protagonista di a place [that again] (2006), video e spettacolo beckettiani ambientato in uno spazio geometrico, attraversato e delimitato da assi cartesiani.
Il cerchio. O.F. ovvero Orlando Furioso impunemente eseguito da Motus (1998) è ambientato all’interno di uno spazio circolare, con gli spettatori che sbirciano dall’esterno quello che avviene all’interno, su un palcoscenico rotante. E’ una soluzione che consente un moto infinito, e al tempo stesso l’eterno ritorno dell’eguale, ovvero la coazione a ripetere della perversione nevrotica.
Non luoghi. In Twin Rooms (2002) lo spazio si raddoppia. Sono due stanze, una camera d’albergo e il relativo bagno, un “non luogo”, ovvero uno spazio concepito per una specifica funzione (trasporto, transito, commercio, tempo libero eccetera) che non costruiscono relazioni identitarie, storiche, relazionali (vedi Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Eleuthera, Milano, 1996).
Nel maggio 2002, sempre nell’ambito del progetto Rooms, al Grand Hotel Plaza di Roma debutta Splendid’s, tratto da un testo poco noto di Jean Genet: questa volta un albergo carico di connotazioni, con il pubblico quasi ostaggio degli attori. E’ uno spazio chiuso, minaccioso, con il costante rimando a un altrove, al fuori scena da cui attori e spettatori sono stati separati dalla violenza dello spettacolo: gli altri spazi dell’albergo, l’esterno con l’assedio della polizia…
Il doppio. Accanto al raddoppiamento degli spazi di Twin Rooms (o del doppio schermo di Run), ne è attivo un altro: quello del reale e del virtuale, attraverso le proiezioni dei video live sullo schermo (una figura retorica utilizzata dal gruppo in numerose altre occasioni). Nella dialettica con la scena teatrale, lo schermo può essere lo sfondo, magari giocato in chiave illusionistica, oppure l’altrove.
Rompere il confine. La creazione dello spazio della scena aveva creato un limite. Quella cesura era stato l’atto inaugurale, che aveva dato inizio al rito. Ora si tratta di superare quel confine. Non è un caso che accada con Pasolini, il poeta delle periferie, il sacerdote e la vittima rituale del Pratone del Casilino, terrain vague dove vivere la libertà e la coazione del sesso. I due lavori pasoliniani, Come un cane senza padrone (2003) e L’ospite (2004), giocano a distruggere l’illusione della scatola scenica, la smontano o la distruggono mettendo a nudo il suo meccanismo. E’ una svolta: viene infranto e scompare il diaframma che separa pubblico e platea, soggetto e oggetto:
Abbiamo intrapreso un percorso drammaturgico che ha smantellato, lentamente e progressivamente, tutte le nostre abitudini sceniche, che ci ha fatto precipitare nel precipizio dello spazio vuoto. Come una pagina web, può cambiare continuamente, può ‘essere aggiornato in tempo reale’. Questa maniera di entrare a testa bassa nella realtà ricorda il ‘vivere nelle cose’ pasoliniano.
Il deserto. Sulla scia di Pier Paolo Pasolini che cercava i luoghi dell’anima – oltre che nelle borgate – anche in Africa (per Appunti per un’Orestiade africana) o nello Yemen, a Sanaa (per Il fiore delle Mille e una notte), Schema di viaggio (2004) segna un viaggio letterario attraverso una serie di paesaggi, come visti da un’auto in corsa:
Dalla pianura padana, alle nuove periferia romane degradate e post-industriali come l’Eur, Tor Pignattara, Centocelle, Corviale, Ostia, dai quartieri di Napoli come Secondigliano al deserto della Tunisia.
Il deserto. Lo spazio del nulla e dell’infinito. L’adolescente e l’anacoreta.
La piazza. Con Alexis. Una tragedia greca (2010) entriamo nel cuore dello spazio urbano. Lo spazio della scena collassa nella città, nello spazio urbano attraversato dal conflitto. Il territorio fuori controllo esplode al centro della polis, nelle strade del quartiere ateniese di Exarchia. La piazza è il teatro dello scontro. Gli spettatori vengono invitati a entrare nella scena-piazza per condividere il gesto della rivolta: la compagnia tiene una puntigliosa contabilità del livello di coinvolgimento, contando il numero degli spettatori che a ogni replica sale in scena e inizia a danzare.
La pagina web. Il corpo dall’identità mutevole di Silvia Calderoni si inserisce e anima uno spazio ugualmente mutevole, aperto alla multimedialità e all’intreccio tra reale e virtuale. La scena di MDLSX (2015) è una pagina web che apre diverse applicazioni in costante aggiornamento: il corpo della performer e la sua oscillante identità di genere, il video live, i filmati familiari che rimandano al passato, la colonna sonora che scandisce lo spettacolo, le luci…
Grammatiche elementari di un corpo in movimento in uno spazio isotropo. In questi decenni, i dispositivi spettacolari dei Motus hanno esplorato una molteplicità di spazi diversi. O meglio, hanno esplorato le Grammatiche elementari di un corpo in movimento in uno spazio isotropo, una vera e propria enciclopedia di spazi, stratificata e complessa.Il punto di partenza sono gradienti di forza basate su opposizioni elementari: chiuso-aperto, dentro-fuori, cubo-cerchio, finito-infinito, reale-virtuale, realtà-finzione, singolo-doppio, passato-presente, soggetto-oggetto, libertà-violenza… Il terreno privilegiato d’indagine sono gli spazi dell’indeterminazione, come lo spazio astratto della geometria cartesiana ma anche i terrains vagues tra città e campagna, i non luoghi della post-modernità. Ma anche lo schermo video, con le sue potenzialità infinite.
In questo campo aperto, senza gerarchie, si muove un corpo, una particella identitaria disancorata, in mutazione, in una esplorazione che è insieme fisica, esperienziale ed esistenziale.
Questi lavori raccontano anche la necessità e l’impossibilità del soggetto contemporaneo di ancorarsi a uno spazio. Può farlo, precariamente, nel tempo-spazio dell’evento teatrale, quando si crea una relazione con l’Altro – nello sguardo dell’Altro – che però è anche coercizione e violenza.
I lavori dei Motus si nutrono di questo paradosso: la scena diventa il luogo in cui viverlo in tutta la sua contraddittorietà e fragilità.
Tag: CalderoniSIlvia (4), corpo (21), Motus (29)
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