Per una politica culturale dell’immigrazione: l’arte per andare oltre i confini

Threshold of the Future: diario di un progetto pilota internazionale su arte, educazione alle arti, diversità e interculturalità

Pubblicato il 12/12/2016 / di / ateatro n. 159

Perché io sono io, e perché non sei tu?
Perché sono qui, e perché non sono lì?
Quando comincia il tempo, e dove finisce lo spazio?
Come può essere che io, che sono io,
non c’ero prima di diventare,
e che, una volta, io, che sono io,
non sarò più quello che sono?
Peter Handke, Elogio dell’infanzia
per il Museo dell’Immigrazione di Parigi

image1Dal 15 al 17 novembre 2016, siamo stati invitati a Genshagen, vicino a Berlino, per prendere parte a una curiosa tre giorni su arte, educazione alle arti, diversità e interculturalità, dal titolo Threshold of the Future (Alle soglie del futuro).
Tanti temi, all’apparenza, tutti riuniti insieme in una tre giorni, no?
Oltre a tanti temi, questa particolare tre giorni metteva insieme danzatori, artisti di teatro e visual artists, ricercatori, educatori, sociologi, rappresentanti del ministero francese della cultura e della comunicazione, e dell’ufficio franco-tedesco per la gioventù, attivisti, psicologi da Germania, Francia, Italia, Marocco, Bulgaria, Polonia.
Come a dire che la diversità comincia già dalla lista dei partecipanti e che serviamo tutti con le nostre differenti competenze e pratiche, per fare un discorso serio sul ruolo delle arti in alcune tra le più grandi sfide del mondo contemporaneo (migrazioni, globalizzazione, dialogo interculturale, cittadinanza attiva) e sull’educazione alle arti ovvero la tanto agognata (almeno da noi italiani) alleanza arte/educazione.

Un primo esempio di questa transdisciplinarietà lo danno le due fondazioni promotrici dell’evento, la Stiftung Genshagen (Germania) e l’Observatoire des Politiques Culturelles di Grenoble (Francia), che si occupano al contempo di arte e cultura, politica e società, economia e scienza, educazione e media.
Un secondo esempio è il programma di questa tre giorni, primo esito pilota di un progetto più complesso, da scrivere e realizzare in seguito con una rete più ampia, della quale, se tutto va bene, faremo parte anche noi del Teatro dell’Argine: c’è un incontro tra i partner attuali e quelli futuri, sempre rigorosamente interdisciplinare; c’è la performance di danza teatro, esito finale del nomadic laboratory condotto dalla coreografa tedesca Be van Vark con un gruppo di ragazzi e ragazze dai 17 ai 24 anni, provenienti da Germania, Francia e Polonia, ma anche da Siria e Pakistan; c’è la conferenza vera e propria, che, oltre alla varietà di competenze di cui si diceva sopra, include anche un riscaldamento artistico cui tutti i presenti – relatori del ministero inclusi – partecipano, e domande poste agli esperti, alla fine di ogni sessione, da una giovane attrice e performer.
Il terzo esempio è l’importanza data alle arti come fattori di crescita e arricchimento di una persona e come leve di un nuovo modo di rapportarsi al nuovo mondo nel quale ci si trova a crescere, come palestra di convivenza civile, come generatrici di microcosmi democratici, nei quali fare esperienza di cittadinanza attiva e consapevole.
Quarto e ultimo esempio, il tema simbolico della tre giorni, ovvero la soglia e/o il confine, intesi come limite e come possibilità, come barriera e come attraversamento, come ostacolo e come corsa a ostacoli, in questa Europa dei nuovi muri e nell’America del neo-eletto Trump.

Per me, per noi, artisti italiani che quotidianamente combattiamo con tanti diversi referenti (amministratori pubblici e sponsor privati, direttori di teatri e vecchi abbonati, insegnanti di scuola e genitori – anche i nostri –, giornalisti di settore e giurie di premi) per raccontare chi siamo e cosa facciamo; per noi che lottiamo contro pregiudizi che tengono l’80% degli italiani (il 60% degli Europei, secondo i dati che Francesco De Biase riportò alle Buone Pratiche di un paio di anni fa) fuori dai luoghi di cultura e di arte, luoghi percepiti come elitari, polverosi, autoreferenziali, esclusivi; per noi che ascoltiamo adolescenti europei dichiarare che «Il teatro è un luogo vecchio, dove gente vecchia va a vedere cose vecchie» (Mark Terkessidis, Four Theses for an Audit of Culture); ebbene, per noi artisti italiani questa prospettiva di riflessione è ossigeno.

È ossigeno, per noi, l’idea che il teatro possa farsi in mezzo alla vita, alla politica ovvero alla polis, coinvolgendo attivamente persone, comunità ed esperti di altre discipline, senza per questo perdere di qualità, ma anzi guadagnando in innovatività, contatto col mondo, apertura di sguardo e uscendo dall’isolamento della creazione e dall’autoreferenzialità.

image2Ecco qualche cartolina da Genshagen.

1^ cartolina: l’arte (e l’educazione alle arti) per andare oltre i confini
Quali sono i confini dell’Europa?
Al di là dei confini geografici e della migrazione, a est, a sud, che diventano sempre di più con l’aumentare dei muri e dei paesi di provenienza dei profughi, quali confini interni mettiamo tra le persone?
I giovani come vivono? I cosiddetti ragazzi di seconda, terza e quarta generazione sono riconosciuti? Li vediamo? Lavorano? Come progettano il loro futuro? Come stabiliscono le loro relazioni? Come si inseriscono nel mondo? Come si rapportano con l’alterità?
“Integrazione” che cosa significa? Secondo la definizione della Commissione Europea, “integrazione” non è da intendersi come “assimilazione”, bensì come “un processo dinamico, a due direzioni, di mutuo adeguamento da parte sia degli immigrati sia dei residenti degli Stati Membri”. E tuttavia, anche questa definizione è inevitabilmente parziale. Adeguamento a cosa? Quali sono i nostri modelli? E i loro? Ma chi sono “loro”? A volte questi “loro” vivono nelle nostre città da vent’anni e ancora sono “loro”. E a volte “noi” abbiamo cambiato paese, lavoro, città, identità mille volte.
Tutti noi siamo, in quanto individui, multi-identitari, dentro noi stessi siamo multi-culturali.
Ci sono molte diverse culture e allo stesso tempo non esiste una cultura “pura”, non c’è nulla di completamente isolato, tutto è in movimento e sempre sotto l’influenza di altro che lo circonda.

Questi sono i concetti da cui si parte per ragionare, a Genshagen, sul ruolo delle arti nell’educazione e nella società.
Noi Teatro dell’Argine siamo stati invitati dalla Fondazione Fitzcarraldo di Torino, con la prospettiva di diventare partner artistici per l’Italia, per via della nostra propensione verso progetti che hanno al loro centro proprio le parole chiave di Threshold of the Future, progetti come Esodi, Crossing Paths, Lampedusa Mirrors e il più recente, in Tandem con la Turchia, Feel Free(dom)!, che coinvolgono giovani ed esperti che si parlano e indagano il mondo attivamente tramite il linguaggio del teatro.
Poi c’è la Società Elias Canetti di Ruse (Bulgaria), che lavora su cultura e intercultura, scienza e formazione, è casa editrice e biblioteca, ma ha anche una pista da skateboard nel suo edificio, che ha aperto ai ragazzi in modo da essere attrattiva anche per loro. In Bulgaria, dice la presidente Penka Angelova non si vedono i migranti. Stanno nascosti. E meno si vedono, più fanno paura. E la politica gioca su questo. Noi facciamo educazione alle arti, dice, ma non al dialogo.
Dounia Benslimane, dell’Associazione Racines di Casablanca, aggiunge che il Marocco ha ratificato tutte le convenzioni internazionali sui diritti alla cultura e sui diritti in genere. Quindi la diversità culturale adesso è nella costituzione marocchina. E anche la libertà di espressione e di espressione artistica. E dice che i giovani hanno un ruolo importante in questa costituzione.
Tuttavia, benché il Marocco abbia un ministero della cultura fin dai tempi dell’indipendenza, non c’è una chiara politica culturale, quindi si promuove per lo più il folclore e le manifestazioni che hanno a che fare con la tradizione e con la religione, niente che possa sfidare il pensiero critico, niente che coinvolga le cosiddette minoranze, come i berberi o gli ebrei.
La cultura è stata usata per la propaganda, per promuovere un’idea progredita del Marocco fuori dalla nazione e per nascondere la dittatura.
In compenso, la società civile è attivissima: artisti, ricercatori ed educatori, come quelli della sua associazione, sono al contempo attivisti, forme come il teatro forum o dell’oppresso arrivano in mezzo alle persone e sono percepite come una vera necessità. Il teatro come bene primario, in quanto strumento di libera espressione e avanzamento della società.
Jean-Pierre Saez dell’Observatoire di Grenoble dice che mentre una volta in Francia l’educazione alle arti non era presente in tutte le scuole, oggi ci si preoccupa molto che lo sia e che sia accessibile a tutti, al di là dello status sociale.
Parlando di migrazione, la Francia è da tempo un paese multiculturale e con un’idea repubblicana del vivere insieme; per questo oggi è molto concentrata sull’integrazione. “Integrazione” non è una parola facile. I bambini non hanno problemi a integrarsi, il loro problema semmai è di inclusione, di venire tenuti fuori o discriminati dagli altri. Oggi la nuova parola d’ordine, di cui si nutrono le destre, sembra essere “assimilazione”: accettiamo gli stranieri solo se dimenticano le loro culture di origine, solo se i bambini non hanno nomi arabi.
L’educazione alle arti può fare molto in tal senso: questo è chiaro anche ai ministeri competenti, che, infatti, oggi la stanno sostenendo più che in passato, in particolare quello della cultura e della comunicazione, che investe più di quello dell’educazione. Oggi ogni bambino può partecipare a progetti teatrali o andare a teatro o in un museo o visitare un centro per le arti o una biblioteca.
La difficoltà ora, dice Jean-Pierre, è la carenza di risorse, economiche e umane: ci sono attività in tutte le scuole ma non sempre sono di buona qualità, perché è difficile trovare esperti di livello.
E poi, dice, va bene l’educazione alle arti nelle scuole, ma non è sufficiente: accanto alla scuola, si dovrebbe poter lavorare su più livelli contemporaneamente, favorire le visite ai musei, tenere laboratori artistici, fare corsi di teatro a scuola, essere dentro l’arte oltre che vederla. In ogni tipo di espressione artistica c’è una dimensione culturale che ti si rivela.
Quindi dobbiamo coinvolgere gli artisti, e poi i librai e i bibliotecari, i musei, i teatri. E tutti questi interlocutori devono acquisire competenze interculturali e avere ben chiari gli obiettivi di questa educazione.
Christel Hartmann-Fritsch, direttrice della Fondazione Genshagen, riporta la situazione tedesca: quella di uno stato federale, con ben 9 paesi confinanti e il più alto tasso di immigrazione dopo gli USA. A maggio 2016 il governo ha dichiarato: i tedeschi hanno da sempre accolto persone da altri paesi, ora bisogna lavorare meglio per la loro integrazione e dare ai migranti un senso di protezione. Quindi ora l’integrazione per i tedeschi non è solo un processo in corso, è anche un dovere, non solo verso i profughi appena arrivati, ma verso la popolazione che già vive in Germania e si sente esclusa e discriminata.
È stato preparato un piano nazionale per l’integrazione e una parte fondamentale di questo piano riguarda la cultura. Anche i ministeri hanno capito che questa è una priorità e luoghi come il castello di Genshagen (sede della Fondazione omonima) sono tesori nazionali, perché mettono insieme diverse competenze.
Cosa vuol dire “arts education” o “cultural education”? In Germania all’inizio, dice Christel, si parlava più di lavoro culturale e le arti non ne erano parte fondamentale. Poi i tedeschi hanno realizzato che l’educazione pubblica non era adeguata: lo Stato ha preso esempio dalla società civile, dove iniziative di educazione culturale e artistica erano tante e ben fatte. A Berlino non c’è teatro, sponsor, azienda, singolo artista o rete tra istituzioni artistiche che non si occupi, in un modo o nell’altro, di integrazione.

Come artista e cittadina italiana, ascolto e penso che noi non sappiamo neanche che cosa significhi “arts education”: se e quando le arti entrano nelle nostre scuole, è grazie a un patto del tutto privato, e quindi precario e difficilmente sostenibile; penso che non sempre le arti entrano nelle scuole con gli artisti, ovvero con gli esperti, ma che spesso ci si improvvisa esperti, magari con le migliori intenzioni ma non sempre con i migliori risultati; penso che anche le uscite scolastiche, a teatro o in qualche museo, sono assai di frequente realizzate senza criterio, senza preparazione, senza percorsi ad hoc, e ottengono pertanto il risultato di allontanare bambini, bambine e adolescenti dalle arti, anziché di avvicinarceli.

image32^ cartolina: “fare un progetto” significa far interagire (davvero) le sessioni teoriche degli esperti, i laboratori pratici condotti dagli artisti e i partecipanti ad entrambi
La sera del primo giorno, dopo l’incontro preliminare fra partner vecchi e nuovi di questo progetto, assistiamo all’esito finale del “nomadic laboratory”, workshop di danza teatro sul tema del confine tenuto da Be van Vark con un gruppo di una decina di giovani.
La performance comincia nella sala conferenze. Quando entriamo i ragazzi sono seduti in ordine sparso sulle sedie del pubblico, in mezzo a noi. Ci sediamo e siamo là, in mezzo all’azione. Ci guardano, si guardano. Ci parlano. In cinque lingue diverse. Che noi capiamo o no le singole parole ha poca importanza. La loro necessità di dire e di agire è forte e trascinante.
Comincia un viaggio dal piano terra al solaio del castello di Genshagen, nel quale ogni corridoio, stanza, pianerottolo diventa spazio scenico. Vi si raccontano storie di confine, di giovani, si legge la lettera che il sindaco di un paesino francese ha scritto a Trump appena eletto per congratularsi e invitarlo in visita, un ragazzo siriano canta un canto della sua terra, pieno di silenzi oltre che di parole. Si danzano poesie. Si scavalcano corde posizionate come confini intricati su per le scale, che ci fanno sudare la salita. Si ascoltano versi di uccelli uscire dalle travi di legno del solaio e si guardano uccelli umani danzare la voglia di saltare la linea di confine.

Non è tanto la forma itinerante, che ben si conosce, né questo meraviglioso miscuglio di danza e teatro alla Pina Bausch, e neanche il contesto affascinante di questo castello.
La cosa che più mi colpisce è la qualità del tutto. La bellezza di un lavoro costruito in 5 giorni scarsi di lavoro con persone che non avevano mai lavorato prima insieme, non professioniste, anche se non digiune di teatro o di danza, e che non parlano tutte una lingua comune.
L’altra cosa che mi colpisce è che il giorno dopo la conferenza comincia proprio con loro: al di là del riscaldamento artistico che inaugura il lavoro e al quale tutti, ma proprio tutti, partecipano senza fare storie, artisti e ragazzi sono chiamati a raccontarci la loro esperienza, il loro punto di vista sui temi dell’incontro, che loro non hanno indagato in quanto studiosi, ma esperito nelle pratiche sotto la guida di un’artista che oltretutto dice di se stessa: «Io non sono una pedagoga. Lavoro in quanto artista, e basta». Si comincia così perché su questi temi (intercultura, educazione alle arti, ruolo delle arti nella società) non si può solo parlare, non si può solo danzare o fare teatro, occorre intrecciarsi per meglio penetrarli. Ecco perché la qualità è importantissima: altrimenti tanto vale fare una buona conferenza per parlarne. Un cattivo spettacolo non serve né all’arte né alla causa dell’inclusione.
Terza cosa che mi colpisce: al laboratorio ha assistito anche una psicologa e ricercatrice, Marie Chollier, che ha preso nota delle dinamiche in atto tra i componenti del gruppo, delle azioni e delle potenzialità che la forma artistica mette in campo, dei risultati e degli strumenti e della loro efficacia. Come a dire: proviamo a tradurre anche in maniera scientifica quanto accade nel campo dell’arte, proviamo a fare una valutazione di cosa funziona e cosa no, valutazione che certo non sarà quantitativa (o lo sarà solo in minima parte) ma che servirà, per esempio, ai rappresentanti del ministero a comprendere perché è importante investire in educazione alle arti e alla cultura e agli esperti a sapere che esistono anche altri linguaggi oltre a quello della ricerca.

La prima parola è di Be van Vark, la coreografa: «Come oggi, qui, anche il nostro laboratorio cominciava sempre con un riscaldamento fisico. Se guardi e tocchi l’altro, dopo è più facile aprirsi e creare».
I ragazzi e le ragazze sono arrivati da Francia, Germania e Polonia, ma hanno le origini più diverse; ci sono anche un ragazzo rifugiato dalla Siria e uno dal Pakistan. Sapevano che il tema del progetto era il confine e Be ha chiesto loro di portare con sé qualcosa su questo tema e sulla situazione europea, qualcosa che fosse molto importante per loro. E i ragazzi lo hanno fatto, si sono esposti con storie anche molto personali e intense. «Non abbiamo cominciato con i passi, in progetti come questo non si tratta di imparare una coreografia. Abbiamo dedicato molto tempo all’ascolto e al confronto di questi materiali, anche perché è stato utilissimo: dopo avevamo la sensazione di conoscerci benissimo. Abbiamo creato un we-feeling. Credo che l’educazione culturale non sia solo un’educazione dell’io ma del noi».
L’altra grande differenza tra progetti come questo e altri progetti artistici, è che qui Be non è arrivata con il sentimento della coreografa che fa la SUA creazione, ma della coreografa che fa una creazione con QUELLE PERSONE. L’accento è sul gruppo, prima di tutto.
«Per questo, qui non si trattava tanto di imparare i passi», dice Be, «ma di scoprire se avevate una voce che voleva venire fuori. Io dovevo solo scoprire qual era quella voce e aiutarla a venire fuori. Mettere le persone in grado di fare delle scelte – questa era la frase guida del progetto, ed è il principio base della democrazia. La scelta era vostra, io vi ho aiutato a capire cos’era e a portarla in superficie. In questo senso, eravamo un microcosmo della società».
L’altra cosa importante di cui ci parla Be è il diverso concetto di gerarchia nel lavoro e di risultato artistico in progetti come questo: «Di solito si lavora secondo gerarchie molto strette. Ma la gerarchia ha senso solo quando serve a qualcosa e non perché la mutuiamo come modello dalla società. A volte ha senso per ragioni pratiche: dobbiamo scegliere qual è la cosa migliore fra 10, non abbiamo tempo e allora decido io. Ma per il resto abbiamo deciso insieme. Infine, la cosa forse più importante è che abbiamo cercato di togliere l’ansia da prestazione che ci inculcano a scuola e nella vita. Qui, il risultato finale non deve essere buono, deve essere e basta. Non dobbiamo essere vittime della perfezione. È l’imperfezione che ci fa umani».
Infine, dice Be, hanno cercato la chiave da dare allo spettatore per capire come orientarsi nella performance. E la chiave era: insieme-zusammen-ensemble. «Per questo abbiamo voluto rompere anche il confine tra spettatore e attore».
Un ultimo, importantissimo spunto lo dà Marie Chollier, la ricercatrice che ha monitorato il laboratorio, dopo aver ascoltato i ragazzi: «I ragazzi hanno detto che non c’era una direzione, una guida, che erano totalmente liberi di creare. In un certo senso è vero, ma è vero anche il contrario. Vi siete sentiti liberi, perché le vostre guide hanno creato uno spazio sicuro (safe space) per voi. In realtà, era tutto molto strutturato, ma proprio al fine di darvi sicurezza e sentirvi liberi. La prima cosa che Be vi ha detto è stata: “Siete qui per creare, magari non lo sapete, magari non sapete come farlo, ma lo farete”. I primi due giorni le guide chiedevano e loro obbedivano. Dopo erano loro che proponevano, si sono quasi invertiti i ruoli. L’altra cosa interessante è che niente era da buttare via: nella performance sono rimaste tutte le lingue di lavoro proposte, tutti i materiali che avete portato sono diventati qualcosa. Un vero processo attivo, una “democratic leadership”. E la performance è stata lo specchio del vostro incontro, come in una una mise en abîme».
Anna Zosik, della Accademia del Futuro di Berlino chiede: «Qui lavoravate con persone che avevano già un’esperienza. Questo lavoro potrebbe essere fatto a scuola? Come trattiamo questo tema della diversità culturale a scuola? Come si consolida questo senso del noi? Un noi multi-identitario?».
Be risponde che lei non ama lavorare nelle scuole, e se lo fa, stravolge lo spazio o tenta di portarli fuori da lì. Occorre creare dei safe spaces, perché lo spazio non è di secondaria importanza. «Qui al Castello di Genshagen si lavora benissimo e anche i ragazzi più terribili qui sono bravissimi. Perché sono qui. Perché questo spazio è meraviglioso. Perché li fa sentire importanti. Portiamo i ragazzi al centro degli eventi più importanti, nel Bayreuth Festival, al Castello di Genshagen. Detto questo, io credo che la danza dovrebbe essere nei curricula scolastici tutti i giorni».

image43^ cartolina: domande e conclusioni di Barbara Neundlinger e Anna Zosik (e nostre)
Ecco riassunte, per punti e domande, e in diretta, le questioni finali di Genshagen:

Come creiamo spazi e tempi come questo a Genshagen?
Come può quello che abbiamo sperimentato qui essere trasferito ad altri e altrove?
Come lo trasportiamo nel mercato del lavoro, per esempio? O in contesto scolastico? O politico-sociale, per esempio nelle politiche sulla migrazione?
La nostra società è fatta di segregazione: tenere le persone e i settori separati e polarizzati. Invece occorre agire insieme e creare cornici in cui insieme possiamo realizzare cose.
Portiamo con noi questo concetto di “spazio sicuro” (safe space), il cui senso è: non rinunciare, anche se ci sono difficoltà, non hai scelta, devi comunque agire e lo farai. Io ti creo lo spazio sicuro per farlo.
Come creiamo più spazi sicuri nella vita di tutti i giorni? Oppure come scopriamo quelli che ci sono già?
Per combattere la paura dell’altro, della vita, di quello che non conosciamo.
La scuola evidentemente ha un ruolo enorme, perché raggiunge tutti o quasi tutti i bambini e i ragazzi. Ma la scuola riproduce in se stessa le regole dell’ineguaglianza che esistono nella società. Come fermiamo questa riproduzione dell’ineguaglianza?
Abbiamo parlato di formazione del sé e del noi. Come portiamo questo Noi a uno stadio tale da potervi includere anche persone che magari partono da punti diversi, ma che alla fine possono convivere alla pari? Come trasferiamo questo concetto in una società basata sulla forza della maggioranza?
E come garantiamo la continuità di progetti siffatti?

La questione finale non è come rendere perfettamente armonica la società – obiettivo impossibile e forse anche un poco inquietante – ma piuttosto come sviluppiamo una cultura della disputa, della negoziazione.
Molti giovani del progetto ci hanno detto che avevano paura prima di cominciare. Tutti cominciamo con dei pregiudizi verso l’altro, che generano paura.
In progetti come questo, la cosa eclatante è che i pregiudizi crollano tutti miseramente nel FARE, sia esso fare teatrale e artistico, ma anche relazionale. Non solo lavoriamo insieme, ma viviamo insieme, mangiamo insieme, dormiamo insieme.
Ecco cosa può fare l’educazione culturale più di tutto il resto, costruire empatia.

image5Nel post-Genshagen, come in ogni periodo post-progetto, la questione che si apre è: e adesso? Nel ritorno alla normale quotidianità, quanto durerà quel momento di comunione che abbiamo sperimentato? Quanto presto sarà schiacciato fra mille altre attività e distrazioni?
Come avanziamo da questo momento euforico nel quale ci amiamo e piangiamo e ci commuoviamo a una cultura della disputa che consenta una convivenza più durevole anche se non sempre armonica al 100%?
Ecco, una cultura simile le arti e il lavoro culturale possono aiutarci a costruire.

Riparto da Genshagen con la promessa di un futuro lavoro comune, che va sviluppato e tarato sulle diverse competenze ed esperienze dei vari partner, ma che può avere solide basi su questo format pilota.
E con la consolazione che esistono artisti e organizzazioni gemelle, anche molto lontano, con cui è possibile ragionare di arte, partecipazione, qualità, società, cambiamento.




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