Tracce di un romanzo di formazione nella Polonia degli anni Cinquanta. Appunti di un non-grotowskiano

L'intervento al convegno La possibilità del teatro (Pontedera, 12-14 dicembre 2014)

Pubblicato il 11/12/2016 / di / ateatro n. 159

Questo è l’intervento di Oliviero Ponte di Pino al convegno La possibilità del teatro (Pontedera, 12-14 dicembre 2014) , poi pubblicato  in “Dossier. Grotowski: l’opera scritta. Traduzione e cura di Marina Fabbri”, “Teatro e Storia”, 36-2015.

 

grotowsky-i_la_possibilita-del-teatroIl primo volume delle opere di Jerzy Grotowski, tradotte e curate con appassionata dedizione da Carla Pollastrelli (Jerzy Grotowski, Testi 1954 – 1998. Volume I. La possibilità del teatro (1954 – 1964), la casa Usher, Firenze-Lucca, 2014), è un libro prezioso: ci regala le tracce intermittenti di uno straordinario romanzo di formazione.
Straordinario, perché eccezionale è il protagonista: un giovane colto e sensibile, ambizioso e ispido di talenti, che diventerà una figura centrale della cultura del secondo Novecento. E’ destinato, quel ragazzo per certi aspetti già maturo, a essere riconosciuto da molti come un maestro: una figura carismatica e ammantata di misteri (veri e presunti), e dunque circondata da un’aura numinosa. E’ come se in queste pagine vedessimo in filigrana la fabbricazione (o meglio, l’autopoiesi) di un profeta.
Personalità di questo genere possono nascere solo in circostanze particolari. Questo apprendistato è prezioso anche per lo scenario in cui si impartisce questa dissonante educazione teatrale: la Polonia degli anni Cinquanta, appena passata dalla truce e sanguinosa dominazione nazista al grigio entusiasmo del “socialismo reale”, di impronta sovietica. E’ un periodo difficile, intreccio di ferite e speranze, zavorrato da ipoteche ideologiche (in un mondo rigidamente bipolare), spaccato da profonde tensioni politiche, destinate a scatenare rivolte e repressioni.
Raccogliendo i testi del giovane Grotowski, La possibilità del teatro consente di ricostruire diversi aspetti di un tortuoso ma affascinante percorso intellettuale. Non è facile farlo riemergere nei suoi risvolti e nelle sue implicazioni. Più che i riferimenti puntuali a nomi e fatti, quello che è difficile recuperare è il contesto storico, politico, culturale, e anche umano, che è profondamente cambiato.
Del resto quello che leggiamo non è un vero romanzo di formazione, nemmeno nella sua forma autobiografica. Consente però di ripercorrere le orme del protagonista, all’inizio un po’ casuali: si tratta di scritti su commissione, o d’occasione, o estemporanei, nei quali però si avverte il corpo a corpo dell’autore con sé stesso e con la propria epoca.
Della lotta restano impronte, calchi, indizi. E’ divertente provare a immaginarsi le tappe di questa tambureggiante educazione teatrale, lavorando su questo negativo. Ricordando che il giovane autore non era ancora padrone del proprio destino, incerto della propria autentica vocazione, e si andava cercando lungo varie direttrici. E’ anche ovvio che, quando si è dedicato alla scrittura, in alcune occasioni l’autore si dev’essere sentito in dovere di rispondere a sollecitazioni esterne: richieste che qualche anno dopo avrebbe ignorato, o che nessuno gli avrebbe fatto. Dobbiamo dunque essere grati ai suoi committenti, o alle circostanze che l’hanno obbligato a compilare queste pagine.
Il viaggio inizia con un segreto. Quel ragazzo possiede un segreto teatrale che nutrirà tutta la sua parabola. Grotowski aveva studiato all’Accademia d’Arte Drammatica di Cracovia, era un allievo brillante, di quelli che sfoggiano la propria intelligenza, forse già carismatico. E’ ossessionato da Stanislavskij. Si guadagna la possibilità di andare a studiare per un anno a Mosca, là dove Stanislavskij aveva iniziato la rivoluzione della regia. Grotowski ha capito qualcosa che molti avevano solo creduto di capire. Per certi aspetti, diventerà l’allievo più conseguente e radicale del Maestro russo, e dunque il più paradossale. Perché il suo è uno Stanislavskij che ha accantonato le puntigliose, magistrali messinscene dei testi di Cechov, le regie che hanno reinventato il teatro moderno; il suo Stanislasvkij ha pure superato il geniale psicologismo della “riviviscenza”, la tecnica sulla quale il Maestro aveva tentato di rifondare scientificamente il lavoro dell’attore. Grotowski gli ha tolto i due schermi che nascondevano il segreto che vuole affinare.
Il primo testo del volume, “Il testamento artistico di K.S. Stanislavskij”, approfondisce proprio la lezione del maestro, e in particolare il suo lavoro negli ultimi anni, dal 1930 al 1938. Quello che interessa a Grotowski sono “le affermazioni fondamentali del metodo delle azioni fisiche” (p. 26). Il corpo, il gesto. Sarà il nucleo fondante della pratica teatrale del Teatr Laboratorium: “Bisogna sottolineare con forza che non si tratta affatto di gesti o di forme per esprimere i sentimenti, né, al contrario, si tratta unicamente di atti di volontà, di desideri momentanei, ma di reali atti concreti, di risoluzioni fisiche, per mezzo dei quali l’uomo realizza i propri obiettivi” (p. 27-28). “Le azioni scelte devono essere, precise, organiche, motivate ed efficaci” (p. 29). Sono già le immagini del suo attore-feticcio, Ryszard Cieślak.
Il segreto che ha approfondito nel periodo moscovita lo lascerà a volte trapelare, quando rivendicherà la sua diretta discendenza da Stanislavskij. Da quel segreto parte una riscoperta del corpo – nutrita anche di altre discipline e di altre sapienze, e condotta in parallelo dal Living Theatre di Mysteries and Smaller Pieces – che rivoluzionerà la cultura dell’Occidente moderno. Sarà la sua arma segreta, ma è un segreto lo confida subito. Resta invisibile, perché in quei primi anni Cinquanta, ancora chiusi nelle vecchie forme sociali e di conseguenza anche teatrali, è impossibile capire la potenza eversiva di quell’atteggiamento. Ma il principio delle azioni fisiche conduce alla danza della libertà interiore ed esteriore, e soprattutto della conoscenza di sé attraverso il gesto espressivo.
Quel segreto sarà il talismano del suo viaggio teatrale. Ma ci sono anche i viaggi reali, variamente avventurosi. Come gli eroi delle fiabe, Grotowski è un vagabondo. Non si ferma nella capitale dell’impero sovietico, ma si spinge fino alle sue periferie asiatiche, verso l’Oriente. Ne resta una chiara traccia nel reportage “Tra Iran e Cina”, con un incipit disincantato e ironico che ricorda quello di Tristi tropici: “I cammelli non sono per niente creature nobili. (…) Non fidatevi dell’aspetto dei cammelli allo zoo. Nel deserto non sono così ben nutriti, non hanno un mantello così folto” (p. 61). Ovviamente a interessarlo non è la fauna dell’Asia Centrale, e nemmeno le curiose usanze matrimoniali dei turkmeni. Rivela la sua vera motivazione in un altro, curiosissimo testo, quasi un pezzo di gonzo journalism. A Parigi, “Babilonia di tutte le fedi”, s’intrufola tra gli “ultimi successori viventi di Zarathustra”. Vuole partecipare al loro misterioso rituale (ovviamente dietro questa curiosità c’è un altro segreto, che lo spinge a interrogare quelle “facce di gente in cerca di contemplazione e preghiera. Facce di gente bistrattata dalla vita, umiliata, sola, in cerca di un sostegno”). Racconta: “In Russia ho visto i riti della chiesa ortodossa. In Asia Centrale sono venuto a contatto con l’Islam, con la religione tradizionale dei Curdi, chiamata dai musulmani ‘culto del diavolo’, con i riflessi del buddismo e dell’induismo. Nell’Europa Occidentale mi sono imbattuto in nuove sette quasi ad ogni passo – dal luteranesimo e dal calvinismo tradizionali alla magica ‘scienza cristiana’” (p. 140). Dalla cattolicissima Polonia, dalla patria del materialismo storico e ateo, il fragile eroe, finito nel cuore dell’Asia per curarsi, esplora le pieghe del rito, in tutte le sue forme. Vuole cogliere nel corpo le tracce del trascendente, o l’eco dell’origine. Ma anche questa ossessione deve restare un segreto, nella Polonia cattolica e comunista, che va dissimulato sotto la patina del disincanto.
Non c’è solo il fascino dell’Oriente. L’avventuroso giovane potrebbe essere quasi una reincarnazione di Simon del Deserto, così come se l’era immaginato Luís Buñuel. Nella prima parte del film Simone è un monaco eremita dei primi secoli del cristianesimo. Nelle ultime sequenze lo vediamo aggirarsi nella New York beat e underground degli anni Cinquanta, gli stessi capelli e barba incolti ma con un paio di occhiali scuri. Grotowski passa con naturalezza dalla solitudine delle steppe asiatiche alla concitazione mondana di Parigi e Avignone, come documentano i suoi reportage di cultura e spettacolo. Curioso, colto e aggiornato (come molti altri giovani del suo tempo, affamati di idee e di chiavi per capire il mondo), forse un po’ snob, sembra a perfetto agio negli ambienti dell’avanguardia cosmopolita e nelle polemiche culturali à la page. A Parigi corre a vedere il film di cui parlano tutti, Peccatori in blue jeans di Marcel Carné, dedicato ai “nuovi Manfred senza amore e senza speranza. Giovani annoiati da tutto fuorché dalla ginnastica sessuale e da certi piccoli brividi al limite tra crimine e psicopatia” (p. 122). Questa variazione francese sul tema di Gioventù bruciata, che ha visto un anno prima sempre Parigi, è stata accolta da scandali e premi. A Grotowski interessa il tema del film, “la questione dei ventenni”. Spiega di averla analizzata proprio in quei mesi con due spettacoli, Gli dei della pioggia e Gli Iellati, nel tentativo di “arrivare alla verità sulla mia generazione” (p. 125). In questa apparizione dalle venature autopromozionali (vuole convincere che le sue regie sono meglio del film di Carné), rivendica il proprio ruolo di artista “generazionale”. Ha cercato di dare voce al disagio e alle speranze dei suoi coetanei, alla loro novità e diversità. E si legittima come portavoce critico dei “ventenni pessimisti”, privi delle basi per elaborare il proprio “progetto di vita” e senza “risposte alla ‘problematica ultima del destino umano’: alla problematica del senso della vita, del valore dell’uomo, della questione della solitudine dell’uomo e della sua morte” (p. 126).
Un secondo reportage dalla Francia è dedicato a Marcel Marceau. Visto l’interesse per le azioni fisiche, non sorprendono l’attrazione per il maestro della pantomima e l’attenta analisi della sua arte. Ma la doppia imprevedibile conclusione è un colpo di frusta. Il primo affondo: “Un uomo ‘nudo’ sta in piedi sulla scena, come se fosse la personificazione dell’esistenza umana. Nello spazio di qualche decina di secondi, con movimenti mimici rapidi, semplificati, coerenti, racconta le quattro fasi dell’esistenza umana: giovinezza, maturità, vecchiaia, morte. E torna alla posizione iniziale. Ecco i presupposti fondamentali del mimo nel XX secolo: il carattere filosofico, l’essenzialità, il coraggio di affrontare i ‘problemi ultimi’ (…) Un’arte dalle ambizioni filosofiche sarà l’espressione del XX secolo. Il che non vuol dire: un’arte pessimista”. Un’altra scheggia di (auto)consapevolezza profetica. Il sottofinale filosofico apre a un finale cosmologico, dove Grotowski racconta della “pantomima del mondo”. La rivelazione è il dono di “un vecchio afghano di nome Abdullah, che gli ha spiegato: “La pantomima è come il grande mondo e il grande mondo è come la pantomima”. Commenta l’autore: “Mi sembrava allora di ascoltare i miei pensieri” (p. 130). Il teatro, il rito. L’uomo, il vecchio saggio, il cosmo.
Nel frattempo il nostro giovane eroe ha iniziato la lotta contro il drago. In apparenza i draghi muoiono. Era morto nel 1945 a Berlino Adolf Hitler, è morto nel 1953 a Mosca Iosif Stalin. Nel corso del XX Congresso del Partito Comunista Sovietico, nel febbraio 1956, il nuovo segretario, Nikita Chruščëv, denuncia i crimini di Stalin e apre un varco alla speranza. Una generazione intera ci crede, ci prova, lotta. Fiorisce l’“Ottobre polacco”, ma dura poco: a novembre l’invasione sovietica dell’Ungheria spegne con il sangue quel sogno di democrazia. La lezione arriva subito in Polonia. Tra quelli che hanno creduto alla morte del drago, e ancora ci credono, c’è un giovane regista polacco. Quel giovane Amleto innamorato del teatro si sente costretto ad agire. E’ assai apprezzato dai compagni, nel 1954 era stato nominato “presidente del Circolo di Studio dell’Accademia d’Arte Drammatica di Cracovia”, “una fucina di ambizioni, discussioni e sperimentazioni” (Zbignew Osińki, Jerzy Grotowski e il suo laboratorio. Dagli spettacoli a L’arte come veicolo, Bulzoni, Roma, 2011, p. 68; proprio sulla rivista del Circolo aveva pubblicato il suo saggio sui Stanislavskij). Ha l’autorevolezza e il seguito necessari per costituire un punto di riferimento anche politico. All’inizio del 1957, a Varsavia, diventa un guerriero. Tiene un discorso alla II Seduta Plenaria del Comitato Centrale Provvisorio dell’Unione della Gioventù Socialista, in cui è appena stato eletto. Sta cercando di tenere aperta la porta alla speranza, anche se la battaglia è già persa. A Mosca, a Budapest, a Varsavia.
Bisogna fare attenzione nel leggere queste pagine, come avverte nella sua prefazione Włodek Goldkorn: “I giovani che a quel punto iniziano a uscire allo scoperto usano il linguaggio dominante: quello comunista. Altro non hanno, perché il vecchio lessico democratico liberale risulta fallito, inutile” (p. 18). Il campo di battaglia sono i dibattiti politici, che sconfinano spesso nell’estetica. Le parole, armi a doppio taglio, vanno usate con la massima cautela: l’ideologia impone l’uso di una langue de bois, di un gergo attentamente calibrato, dove le parole sembrano innocenti ma pesano come macigni. Anche oggi domina il “pensiero unico”, un’ideologia alla quale è difficile sottrarsi, talmente è pervasiva: ma le parole dette o ascoltate non comportano più un pericolo di tortura e morte o deportazione, la massima pena è l’indifferenza nell’assordante chiacchiericcio globale. Forse per questo ci è così difficile decifrare quei codici e quei virtuosismi verbali, e le ironie che li illuminavano. Mentre a volte rischiamo di prendere alla lettera, come verità sincere, le speranza di umanità e giustizia, i sinceri auspici di pace e fratellanza, ovvero quello che era semplicemente il linguaggio d’ordinanza, con la sua retorica e le sue frasi fatte.
Agli intellettuali progressisti toccava un duplice compito: da un lato mettere a confronto le parole d’ordine dei gerarchi e dei burocrati con la realtà; dall’altro operare per sottili slittamenti semantici, aprendo nuove opzioni. Grotowski lotta con passione e astuzia per un “socialismo nelle condizioni di democrazia e libertà” che “ancora non esiste” (p. 75). Si ribella alle etichette con cui viene zittito chi dissente: sono riprese, denuncia, dal “vecchio gergo militare: ‘deviazioni’ e ‘frazione’, ‘socialdemocratico’, ‘anarchico’ e simili”. Sbugiarda dunque “l’ipocrisia ideologica” di espressioni come “ragione politica”, “intelligenza politica”, “necessità del compromesso”, “percorso oggettivo”, “la politica non è la morale”, ovvero tutto quello “che doveva servire e deve servire a giustificare quello contro cui la nostra coscienza protesta” (p. 73).
Il piccolo Jurek è un guerriero coraggioso e può diventare un polemista feroce, come dimostra l’acuminata risposta a “Paolino Dubel” (p. 92). Raccoglie un certo seguito. Quando s’accorge che nell’Unione della Gioventù Socialista la lotta s’impantana, lancia con un manifesto il Centro Politico della Sinistra Universitaria (pp. 81-86). Non appena quel movimento giovanile prende forza e rischia di diventare un problema, viene normalizzato. Non è la prima nella storia, non sarà l’ultima. Ma per chi la combatte ragazzo, è la battaglia della vita. La banda partigiana del Centro Politico brilla per tre mesi, dal marzo al maggio 1957, poi viene sciolta d’autorità.
Meglio dimenticare, meglio il teatro, meglio l’Occidente. A luglio Grotowski è ad Avignone, partecipa all’Incontro Internazionale della Gioventù che si tiene durante il festival. La guerra sul fronte della politica è finita, anche se lascia cicatrici e conseguenze. La prima è la paura. Una paura che non passa mai. Quelle prese di posizione pubbliche hanno fatto di Grotowski un eterno sospetto, sempre in pericolo. Basta un delatore, un collega invidioso, un critico zelante, e possono aprirsi le porte del carcere. Da quel momento alla politica – e alla macina della storia, e ai macellai che pensano di muoverla – guarderà sempre con diffidenza, cautela e disprezzo. Il potere è un drago da tenere il più lontano possibile, e da ingannare quando ci arriva vicino.
Grotowski avrà sempre presente la lezione del 1956. La ricorda con appassionata intelligenza nei suoi spettacoli, dove in filigrana si legge una sofferta riflessione sulla storia e sulla cultura polacca. La ricorda nel 1968. A Parigi, a Praga e in tutto il mondo, il giovani iniziano a lottare per socialismo, democrazia e libertà. Lui potrebbe proporsi come leader ma resta assai guardingo. Quel ricordo lo trafiggerà ancora con terrore quasi paranoide ai tempi del generale Wojciech Jaruzelski, che nel 1981 chiude con un’ondata di repressione un altro “Ottobre polacco”, quello acceso da Solidarność. In quel crudele Ottobre del 1956, l’ha imparato: per cancellare l’entusiasmo di una generazione, se va bene basta un colpo di penna, altrimenti arrivano i manganelli, i lacrimogeni, i carri armati.
Un’altra eredità di quella stagione è la maniacale attenzione al linguaggio, dettata dalla consapevolezza che le parole sono un’arma a doppio taglio e possono essere usate come prova a carico. Dunque calibra una terminologia raffinata, precisa e inventiva, alla ricerca di espressioni in grado di comunicare il nuovo sapere che va costruendo empiricamente, giorno dopo giorno, senza alcun retroterra teorico stabile. Vuole mantenere il suo sapere in una condizione di fluidità, senza offrire troppi appigli a una critica ideologica, fidandosi in primo luogo della fascinazione dell’oralità.
La disavventura politica ha anche immediate (ma durature) conseguenze pratiche. Mettendoci la faccia, Grotowski si è bruciato qualunque seria possibilità di carriera. Verrà sempre guardato con sospetto. Probabilmente a riscattarlo non basterebbe nemmeno una pubblica abiura dell’“avventurismo”. Il giovane e promettente regista è fuori dai giochi, bruciato.
La sua precaria navigazione dovrà forzare due correnti avverse. La prima è il materialismo storico “di regime”, con la sua ideologia del progresso, la diffidenza contro ogni forma di “misticismo” (vera o presunta), il disprezzo del “formalismo”, meticolosamente praticati dai custodi dell’ortodossia. La seconda è l’ideologia cattolica, l’unica opposizione al regime, con la sua deriva trascendente, l’orizzonte claustrofobico segnato dal senso di colpa, una fascinazione per il martirio che si rispecchia storicamente nelle sofferenze della nazione polacca. Una trappola micidiale, dalla quale sembra impossibile evadere. Servirà una rotta sghemba, zigzagante, discreta, ricca di diversivi, che renda difficile ai nemici individuare la meta finale, e che offra ai potenziali amici sufficienti motivi d’attrazione.
Il rifugio glielo offre, con generosa preveggenza, quello che diventerà il suo fedele scudiero. Si incontrano, lui e Ludwik Flaszen. Si parlano. Si riconoscono, “ambedue reietti o falliti della Rivoluzione d’Ottobre polacca del 1956”. C’è un teatrino dimenticato in una cittadina dimenticata. “Nella primavera del 1959 mi fu offerta la direzione di un piccolo teatro in provincia nella città di Opole. In seconda battuta, decisi di cedere il posto a Jerzy Grotowski, regista che cominciava la carriera alla Stary Teatr di Cracovia” (Ludwik Flaszen, Grotowski & Company. Sorgenti e variazioni, Edizioni di Pagina, Bari, 2014, p. 64). Per uno dei più promettenti registi teatrali della sua generazione, la gestione di una saletta di provincia è un vicolo cieco, un buco nero. Ma è anche un rifugio perfetto, finché non si calmano le acque.
Con sorpresa di molti, quel giovane intellettuale, lucido e generoso quanto arrogante e petulante, scompare. Lo scoverà un paio d’anni dopo la giornalista Rena Nalepa. Prima di informarsi su quel che sta facendo in quel bugigattolo, non nasconde la sorpresa: “E’ sparito da Cracovia in modo del tutto misterioso e da un anno non dà segni di vita sulle pagine delle riviste di Cracovia” (p. 205).
Ma ormai siamo alla fine di questo percorso, ed è già iniziata un’altra storia. Ci sono molti scogli che affiorano, le onde sono e resteranno alte, ma il vento gonfia le vele. Come annuncia a Jerzy Falkowski, il “Teatro del Giovane Spettatore” è ormai una realtà: “I ‘comuni mortali’ non ci frequentano. Mentre a Opole – e in ognuno dei luoghi toccati durante le numerose tournée in Polonia – ci accompagnano fedelmente i giovani, soprattutto gli studenti, i giovani attivisti della cultura, ma anche anziani ‘giovani di spirito’, in particolare persone legate agli ambienti artistici” (p. 249).
In questi testi c’è un altro indizio prezioso, un filo rosso che gli amanti del teatro possono cogliere, un interesse che riemerge quasi ossessivamente, indizio di una riflessione profonda. Il suo fulcro è l’attenzione per lo spettatore.
L’attualissimo spunto da cui parte un testo ingenuamente programmatico del 1955, “Il teatro che sogniamo”, è “il sentimento di insoddisfazione con cui il nostro spettatore spesso esce da spettacoli riusciti sia sul piano della regia che del lavoro degli attori”: questo “dovrebbe indurci a ripensare radicalmente la concezione stessa, lo stile del teatro e il suo modo di influire artisticamente” (p. 42). E’ da questa insoddisfazione di spettatore che nasce tutto il nuovo teatro.
Tre anni dopo, in un altro testo programmatico, gli sembra di aver trovato la chiave “sfruttando ovviamente il complesso della conquiste formali della prima metà del Novecento”. Si tratta di passare “dal teatro come spettacolo che crea l’illusione (più o meno deformata) della realtà – al teatro come dialogo intellettuale, filosofico tra gli attori dello spettacolo e la platea” (p. 107, corsivo nell’originale). Tanto che sogna un Amleto “realizzato con una compagnia di pochissimi attori, basato sul dialogo consapevole degli attori con la platea, un dialogo nell’ambito del quale un attore mostrerebbe a turno una serie di personaggi” (p. 112).
Finalmente, quando l’anno successivo torna a riflettere con maggiore consapevolezza sul “teatro del futuro”, esplicita l’intuizione: “Il ponte tra l’anacronistico teatro contemporaneo, il teatro come ‘arte del teatro’, e il teatro del futuro sarà – credo – da un lato, l’ulteriore, decisivo sviluppo della messinscena teatrale intellettuale, anti-naturalistica, impegnata nella riflessione filosofica, dall’altro, invece, lo sviluppo di forme reciproche di contatto diretto tra la scena e la platea, la graduale metamorfosi dello spettacolo, che rimarrà sempre meno ‘rappresentazione’ (rappresentazione della storia agli spettatori da parte degli attori), mentre comincerà sempre più a diventare ‘dialogo’ (dialogo tra scena e platea, naturalmente sul materiale dell’azione scenica). Il che determina anche la necessità di un’evoluzione del materiale letterario del teatro” (p. 147). C’è in queste righe il fulcro del lavoro di Grotowski nei decenni successivi, e insieme il nucleo dell’evoluzione del teatro in generale: da un lato la regia critica, dall’altro il nuovo teatro, basato sul coinvolgimento dello spettatore: “’Neo-teatro’: dialogo diretto, scambio diretto di posizioni intellettuali tra platea e scena. Naturalmente stiamo parlando di un dialogo basato sul materiale della concreta azione scenica” (p. 150). La provocazione non passa inosservata: Grotowski si trova costretto a rispondere a Jerzy Broszkiewicz, che se l’è presa proprio sulla sua visione del teatro del futuro “inteso come ‘dialogo’ intellettuale con la platea” (p. 185). L’autodifesa finisce nella tesi di laurea di Grotowski, discussa nel 1960 a Cracovia.
Nel frattempo la necessità di ridefinire il rapporto tra attore e spettatore inizia a concretizzarsi nel Teatro delle 13 File, a cominciare dall’invenzione di spazi non convenzionali, che sperimentano una diversa dialettica tra scena e platea. E’ una mossa decisiva, all’epoca dell’avvento della televisione, per difendere la “festività” del teatro, che “nasce nel contatto diretto di due gruppi di persone (gli attori e gli spettatori)” e le cui “forme sono scolpite nell’organismo umano – nei muscoli, nei nervi, nella voce” (pp. 245-246).
A Opole il romanzo di formazione del giovane Jurek, con le sue iniziazioni, i suoi viaggi, le vittorie e le sconfitte, i segreti e la scelta dei primi paladini, si avvia alla conclusione. Jerzy Grotowski ha trovato la sua identità. O meglio, le sue due identità: quella profonda e quella pubblica. Per quanto riguarda quest’ultima, è diventato il regista-demiurgo del Teatr Laboratorium. Negli anni precedenti, attraverso i suoi spettacoli e le sue riflessioni, si era liberato dei residui di un teatro che non gli serviva più, attraverso un procedimento per prove ed errori. Tra poco arriverà il suo Giovanni Evangelista, Eugenio Barba, che assemblerà il libro-manifesto Towards a Poor Theatre, pubblicato per la prima volta in inglese nel 1968, che prende il titolo dal testo apparso sulla rivista “Odra” nel 1965 (sulla vicenda, oltre al secondo volume dei Testi, II. Il teatro povero (1965 – 1969), vedi Eugenio Barba, La terra di cenere e diamanti. Il mio apprendistato in Polonia. Seguito da 26 lettere di Jerzy Grotowski a Eugenio Barba, Il Mulino, Bologna, 1998).
Nel cammino, il giovane guerriero ha indossato diverse maschere. E’ stato studioso di teatro, promettente regista, giornalista culturale, gonzo journalist, viaggiatore, reporter di viaggio, portavoce generazionale, intellettuale di tendenza, dirigente politico… Ha dimostrato di essere uno scrittore autentico, dalla prosa efficace ed evocativa. Avrebbe potuto diventare studioso, regista, giornalista, viaggiatore, intellettuale, politico, scrittore… Sarà tutte queste cose insieme, senza però scegliere alcuna di queste professioni o carriere. La sua identità profonda, o meglio il suo daimon, emergerà pian piano, attraverso svolte spesso difficili da decifrare ma coerenti con quello che si è cristallizzato in quegli anni.
Gli anni dell’apprendistato sono finiti, Grotowski può finalmente spiccare il volo.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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