L’interculturalità del teatro
Una introduzione
I – Fondamenti teorici dell’intercultura, pedagogia e didattica interculturale
Siamo già dentro la Società planetaria. Un inedito storico, che viene e verrà sempre di più a scalzare modelli, credenze, abitudini mentali, fedi e appartenenze tradizionali. Ciò coinvolgerà tutti in un grande miscuglio il quale produrrà, a sua volta, altri modelli, credenze, finora forse del tutto sconosciuti e, fino a ieri, anche impensabili.
Ma in quanto ci affacciamo, ormai, su quel miscuglio, in esso e/o da esso possiamo introdurre o ricavare nuovi orizzonti, del pensare, del credere, dellessere-nel-tempo storico.
Prima di tutto il compito del Dialogo. Poi il principio della Krasis. Infine la regola dell’Apertura. Tre vettori che dobbiamo riconoscere, pensare, incorporare, valorizzare, far propri.
Con difficoltà, anche; ma di necessità, ormai.
L’intercultura come prassi pedagogica è il varco per realizzare questa nuova identità cognitiva, culturale, personale incardinata, appunto, sul meticciato.
Franco Cambi, Intercultura: fondamenti pedagogici
Lintercultura, intesa come prospettiva di incontro-dialogo tra diverse culture, è ormai necessaria.
La sua necessità è data in primo luogo data configurazione multiculturale che sta assumendo il mondo, che pur attraversato da fondamentalismi, irrigidimenti e chiusure, diventa sempre più miscela di culture, melting-pot dove ogni cosa confluisce e si amalgama, un grande crogiuolo dove razze, culture, tradizioni, idee, religioni, usanze e costumi, cibi e lingue si uniscono inscindibilmente e (auspicabilmente) convivono. In questo nuovo assetto la società si configura variegata come il manto di Arlecchino [M. Serres, Il mantello di Arlecchino. Il terzo-istruito: leducazione delletà futura, Venezia, Marsilio, 1992], un patch-work reso possibile dagli spostamenti e dallincontro inedito di persone, cose e informazioni che le migrazioni da un lato, e le nuove tecnologie dallaltro, hanno attuato. Tutto ciò rende reale e urgente il problema di come affrontare la multiculturalità, anche perché essa assume un duplice significato: di minaccia o di opportunità. Di minaccia in quanto ancora ai giorni nostri lo straniero è barbaròs, colui che balbetta la lingua dellin-group, incapace quindi di comprendere e di farsi comprendere, demonizzato, reso capro espiatorio di frustrazioni e violenza repressa.
Tutto ciò ha un illustre precedente nel mondo moderno: precisamente nel 1492, data presunta proprio della nascita della Modernità, quando lincontro della cultura occidentale con una cultura altra, si trasformò, da grandiosa opportunità che era, in uno sterminio per mano della cultura europea etnocentrica, razzista, imperialistica, coloniale, e dominante (non perché più giusta o più vera, ma perché più forte), attraversata dallidea dellaffermazione dei propri valori attraverso la cancellazione di tutto ciò che fosse diverso.
Lintercultura, invece, si fonda su altri caratteri, opposti a quelli precedentemente enunciati: la differenza come valore, lo sguardo antropologico, il dialogo e lincontro.
Euna scommessa e una sfida, colta in primo luogo dalla pedagogia che della nuova forma mentis che dallintercultura deriva deve occuparsi e deve diffondere, a livello sia teorico che pratico.
La differenza, dicevamo, è ciò che contrasta lidentità e lappartenenza. Considerata fino ad oggi un disvalore e una minaccia allidentità, la differenza in tutte le sue declinazioni, sia essa religiosa, sessuale, etnica, si assume il ruolo di squadernare luniverso dei possibili modi di essere dellumano, di mettere in gioco nuovi modelli, e di rendere quindi possibile il confronto con laltro, con il diverso. Il suo difficile compito è di contrapporsi allidentità, principio fondante dellOccidente posto a fondamento logico e metafisico in primo luogo da Aristotele e da tutta la storia della filosofia greca. Lintercultura si propone invece di affermare il pluralismo come ricchezza e valore, sconfiggendo la logica dellappartenenza, laddove significhi lidentificarsi con una terra e una storia che cristallizzino lio.
Lidea della sopraffazione, dellio che si afferma, si riscontra diffuso ai giorni nostri, poiché veicolata dalla televisione in primo luogo: laffermazione del sé più bruto, non quello delle qualità intellettuali, etiche, relazionali, ma quello della ricchezza sbandierata, del corpo esibito e mercificato, della legge del più forte e del più violento, della parola che vince sullaltra perché urlata, reiterata, dellimmagine onnipresente, capace di sopraffare. E in questo caso che si è parlato di io minimo, perché solo, chiuso nel suo narcisismo, incapace di comunicare.
Ciò che il reale incontro con laltro esige, e uno degli aspetti su cui lintercultura si fonda, è invece la possibilità di un io che si fa tu, che ha la capacita di relativizzarsi, di mettersi in discussione, di porsi come punto di vista tra gli altri, di tacere per ascoltare. E per far ciò lIo (che, per dirla con Franco Cambi ha faccia di tu [F. Cambi, Intercultura, pedagogia, teatro, Roma, Carocci Editore, 2001] deve farsi carico, certo con rischio, della propria identità multipla, non divisa ma plurale, in grado di differenziarsi in io paralleli e di incontrare realmente laltro: unio che pone se stesso come problema e non come fondamento alla maniera di Cartesio.
Così facendo, la chiusura dellio minimo unicamente rivolto a sé, può abbandonare lo specchio in cui si rimira e guardare al mondo come una continua avventura di ricostruzione di un sé mobile, che si costruisce in itinere nel dialogo e nellincontro.
Ciò di cui lintercultura inoltre si sostanzia, dicevamo, è lo sguardo antropologico dotato della capacità di relativizzare i saperi e le culture. Lo sguardo da lontano di Lévi-Strauss (osservare una cultura altra relativizzando la propria), e la figura stessa dellantropologo che è attento a ciò che è diverso, che partecipa per comprendere e per attuare questa partecipazione si decostruisce, riconoscono nella differenza un principio e un valore. La critica alletnocentrismo già dal 700 aveva dato i suoi frutti ma era rimasta una prospettiva elitaria, da studiosi. Adesso, invece, il sorgere di una nuova forma mentis che faccia dellincontro e del dialogo con laltro il suo fondamento e il valore per eccellenza va assimilato, e complice la pedagogia, deve permeare di sé la cultura collettiva.
A proposito del dialogo (o dellascolto, che vi è sotteso), Franco Cambi lo pone come una delle 4 categorie dell intercultura: quella senza la quale ogni condivisione sarebbe impossibile. Il dialogo è esso stesso un valore, fine e mezzo dellintercultura, grazie a cui è possibile proiettarsi sulla differenza dellaltro e accogliere la realtà plurale e la varie manifestazioni dellesistente interiorizzandole, accogliendole come possibili visioni del mondo.
La prospettiva privilegiata che emerge è chiaramente quella etica: lungi dallessere pura accoglienza tout-court il dialogo trova ancora una volta nel suo farsi e nella reale presenza dellaltro il suo significato. Naturalmente, la categoria-dialogo presuppone la categoria-decostruzione, intesa come una messa in discussione dellidentità in quanto punto di vista che non esclude altri punti di vista che non si pone come egemone e assoluta o portatrice di verità.
Altra categoria fondamentale è la tolleranza, da molti definita cripto-egemonicapoiché presuppone uno sguardo dallalto, quello di chi tollera a discapito di colui che è tollerato. In realtà, il ruolo di chi tollera e di chi è tollerato è compresente nello stesso individuo, per cui di fatto non cè uno che assolutamente tollera e uno che è assolutamente tollerato.
E nella compresenza di questi ruoli che ci si incontra in una prospettiva etica.
La costruzione in comune, categoria legata alla concreta situazione comunitaria a cui è demandata la costruzione di valori etici condivisi e dialettici, rimanda decisamente alla prospettiva pedagogica. Se intesa non solo come fare insieme, ma anche come pensare insieme racchiude il compito della riflessione su se stessa e della trasmissione della cultura che la comunità deve condividere, pedagogisti e scuola in prima linea, in quanto luogo della trasmissione di saperi per eccellenza.
Dunque lintercultura si pone quindi come una vera e propria rivoluzione antropologica, un mutamento di paradigma rispetto al passato, che rompe con ciò che era considerato fondante, proponendo una nuova visione pluralistica della realtà.
La pedagogia, in quanto scienza della formazione, è la prima tra le scienze umane che stanno lavorando a questo compito, quello di forgiare questa nuova forma mentis. Alla luce di quanto detto, la pedagogia deve nutrirsi di quei fondamenti teorici e filosofici di cui sopra (dellantropologia culturale, della differenza, dellincontro e dellascolto) e non esser pura pratica o generico accoglimento e fondare la propria riflessione su un’appartenenza capace di rileggersi, di operare revisioni, di ripensare lidentità. La forza delle nuove identità forgiate e forgiatisi in itinere, è proprio la consapevolezza di sapere la diversità, e la sua forza nel poter incontrare realmente il nuovo poiché capace di pensarlo continuamente. Il nuovo paradigma pedagogico non è un semplice impegno educativo, ma un pensiero capace di teorizzare i fini e i mezzi dellintercultura per dar vita ad una cultura fondata sul meticciato, ibrida, che pure mantenendo gli statuti di base della cultura originaria, la riconnetta ai principi nuovi prodotti dalla globalizzazione.
La scuola è naturalmente per sua stessa costituzione luogo di incontro tra diversi, dove ci si allena al dialogo e al pluralismo e alla molteplicità dei punti di vista. E uno spazio di confronto dove attuare ancora una volta lincontro, il dialogo e la costruzione in comune ponendosi reciprocamente in ascolto a prescindere che si appartenga o no alla stessa etnia. Le differenza tra alunno e alunna, tra status sociale degli alunni, tra alunni e docenti, le differenze generazionali (il rapporto con i genitori) fanno si che la scuola sia il terreno dove si possa insegnare la democrazia praticandola [F. Pinto Minerva, Intercultura, Laterza, Roma-Bari 2002]. Più che di accoglienza deve parlarsi di incontro e scambio, in cui la reciprocità ha un valore fondamentale. La scuola è un laboratorio permanente sulla differenza in cui operare il passaggio dal pensiero monolitico (quello che si nutre dellappartenenza) al pensiero nomade e migrante (quello che vive lappartenenza come problema, nel suo farsi); il luogo dove la forma mentis dellintercultura può diventare habitus, cultura condivisa e realizzare lobiettivo di divenire fucina ed esercizio di democrazia, in cui ampio spazio è dato al dialogo, allo scambio, allinteriorizzazione di idee comuni.
Naturalmente il progetto formativo va ripensato in tal senso: a partire dal contesto scolastico, dai luoghi. Lo spazio stesso deve dichiarare lapertura, utilizzando lingue diverse nella comunicazione, negli avvisi, non solo per lutilità che questo comporta, ma per dar visibilità agli alunni immigrati, comunicando le potenzialità creative che larrivo di un bambino straniero offre e per comunicare la convinzione che leterogenetà è fonte di ricchezza.
Tutte le discipline scolastiche sono chiamate riscrivere i loro curricula in prospettiva interculturale: in primo luogo la lingua. Strumento per lespressione di sé e comprensione degli altri, può divenire da ostacolo insormontabile a occasione di scambio. Naturalmente per fa ciò occorre il lavoro coordinato dei docenti, che con un atteggiamento volto a incoraggiare anche i minimi progressi dellalunno immigrato e mai allintolleranza verso incertezze o lentezze accolgano con giocosità e creatività la presenza dellalunno straniero, osteggiando, dentro e fuori di sé quei seppure velati o inconsci tentativi di assimilazione e omologazione, facendo delleterogeneità una ricchezza e un valore.
La narrazione, sia essa di fiabe (che richiamano sempre la cultura di origine, ma che hanno una capacità di essere condivise da tutti, bambini e adulti), o di racconti biografici o storici dei paesi di provenienza, si presta a divenire una finestra sui mondi di facile comprensione e capace di suscitare grande interesse per il bambino. Ma di questo diremo in seguito.
Per quanto riguarda il curricolo degli studi storico-geografici, è uno degli assi principali del percorso formativo, su cui si fonda la reale possibilità di costituire un pensiero migrante. La presenza di alunni di altri paesi può essere di stimolo a studiare storie e geografie altre nella convinzione che la storia è sempre più storia dellumanità e non del singolo paese, in cui ogni avvenimento è in profonda connessione con avvenimenti lontani nel tempo ma anche nello spazio.
Così la geografia, da meramente descrittiva, divenga profonda conoscenza del territorio e del mondo, capacità di orientarsi e di adattarsi al cambiamento e spunto di riflessione del rapporto uomo-ambiente e sullinfluenza di questultimo sulle culture. Tutto insomma deve mirare alla costituzione di un pensiero mobile, adattabile perché aperto al cambiamento. Storia e geografia vanno quindi ripensati in termini più generali, in cui il soggetto non è il singolo paese, ma lUmanità, contribuendo a formare nei singoli lidea di cittadino del mondo proposta da Pinto Minerva.
Linsegnamento della religione (o meglio delle religioni) pone, in questepoca segnata dai fondamentalismi, dagli scontri a sfondo religioso e dallintolleranza, una questione delicatissima. In termini interculturali si impone un passaggio da un insegnamento confessionale ad un insegnamento basato sul confronto e il dialogo. Le religioni, per la loro importanza nella costituzione di valori, abitudini di vita, credenze, e di appartenenza in genere, costituiscono un terreno in cui lincontro e lo scambio possono essere di natura profondissima. Per far ciò, e affinché ciò non alimenti chiusure e irrigidimenti, deve proporsi un insegnamento volto allo scambio e alla convinzione che i propri valori e la propria fede non neghino altre fedi e altri valori, evidenziando come vi siano molti valori comuni a diversi popoli e culture. Naturalmente la questione della modalità dellinsegnamento della religione mette in campo non pochi problemi, posti in primo luogo in Italia dalla Chiesa cattolica. Sono state fatte varie ipotesi: da quella di uno studio storico delle religioni a quella dellaffiancamento allinsegnamento attuale della religione, di laboratori sulle religioni, ma la questione è ancora aperta.
II – Intercultura, pedagogia, teatro
Il teatro appartiene alla sfera del rito, del gioco e della festa ma anche dell artigianalità e della comunicazione in ogni senso, coinvolge tutto quel campo che possiamo chiamare genericamente antropologico.
Estrumento di ricerca verso lio e verso il mondo.
Questo teatro non mira soltanto al prodotto come fase assoluta, ma pone lattenzione al processo come fase continua di apprendere attraverso il fare e limmaginare.
Giuliano Scabia, Teatri delle diversità
Prendendo come spunto la dichiarazione dellimportanza, secondo Pinto Minerva, del ruolo della narrazione in una prospettiva interculturale, mi fermerei a sottolineare le potenzialità di un mezzo espressivo che sulla narrazione si fonda: il teatro, che è anche una pratica di convivenza democratica e una modalità di conoscenza reciproca. Già utilizzato in alcune (poche) scuole, soprattutto licei classici per i rimandi alla cultura greca e latina, il teatro è a mio parere una pratica educativa che è anche spunto di riflessione teorica sul mondo, costitutivamente interculturale.
Esso può dispiegare le proprie potenzialità non solo nellistituzione scuola e in età scolare ma anche come strumento educativo in età adulta e nei più diversi contesti. Il teatro, che nella forma della narrazione trova le sue radici nelle tradizioni di ogni paese, è una di quelle forme dellappartenenza che ben si presta ad essere messa in campo nel gioco dellincontro tra culture.
Ma come far dialogare filosoficamente i poli dellintercultura, della pedagogia e del teatro?
Se lintercultura come prassi pedagogica è il varco [Ibidem ] per la realizzare la nuova identità meticcia, i percorsi di cui la pedagogia può servirsi sono molti.
Uno dei possibili è certamente il teatro.
Naturalmente mi riferisco a certo tipo di teatro, quello che in seno alla questione semiotica (vedi ateatro) abbiamo definito teatro laboratoriale, in contrapposizione ad un teatro che definiamo ermeneutico o di prova in cui colmare la distanza tra testo scritto e messa in scena è quasi uno svilimento del testo, con un ruolo debole assegnato alla prassi e un ruolo forteassegnato alla drammaturgia. [C. Gebbia, La specificità del segno teatrale Una questione di gatti, ateatro 81.26]
Il teatro laboratoriale si pone invece come sistema integrato di segni di varia natura, dati dalle sovrapposizioni di piani differenti, ma non ordinati gerarchicamente: quella che abbiamo chiamato iridescenza del segno.
I nessi tra pedagogia e teatro, comunque, sono evidenti.
Scrive Cambi: La pedagogia, è disciplina che si colloca tra teoria e prassi, in quanto sapere ma progettuale; e ancora: disciplina di frontiera posta al limite di questa frontiera dei saperi, là dove si impastano nella pratica e dove si raccordano nellumano che li sostiene. [Ibidem ]
Peculiarità simili possono essere rinvenute nel teatro: incapace di essere pura teoria, o letteratura, ha in sé costitutivamente la dimensione del fare, la presenza del corpo, lo sguardo dellAltro.
E se la pedagogia possiede almeno una prassi: quella educativa, per modificare la realtà[Ibidem], così il teatro (quello laboratoriale) ha proprio nel laboratorio la sua prassi: luogo di incontro reale, capace di render conto della complessità delle relazioni, incontro tra volti, incontro tra culture, frattalica fucina di fucine.
Osservando diversi metodi laboratoriali [Ricerca personale condotta partecipando/osservando i laboratori di: Carlo Cecchi e l attenzione al problema recitativo dell intonarsi gli uni agli altri, Marco Baliani, narratore, Claudio Collovà, con la vivificazione delle immagini pittoriche e con il lavoro con i ragazzi della Comunità Filtro del Carcere Minorile Malaspina di Palermo, Michele Perriera alla scuola di teatro Teatès di Palermo, con particolare riferimento alletica del lavoro teatrale, Maria Claudia Massari del Corpus Rompus di Siena, Armando Punzo e la Compagnia della Fortezza con il lavoro ventennale con i detenuti del carcere di Volterra] possiamo rinvenire una consonanza alle categorie del teatro laboratoriale e quelle dellintercultura enunciate da Cambi a cui possiamo infatti associare, per macrodefinizioni, una fase del lavoro laboratoriale:
alla decostruzione/la creazione del gruppo:
La figura del regista partecipante fa sì che esso non agisca da occhio neutro-esterno rispetto alla costruzione dello spettacolo ma piuttosto da uno dei punti di vista dal cui incrocio si genera il significato di quanto si sta costruendo insieme e senza una progettualità forte a monte del lavoro laboratoriale. Ciò comporta una preliminare attenzione alle dinamiche di conoscenza reciproca del gruppo piuttosto che agli esiti estetici finali.
al dialogo/lascolto:
Sulla base della costruzione del gruppo sopra accennata si ha poi una sorta di restituzione della propria individualità da cui viene però esclusa la fissità del ruolo attore-spettatore. Il metodo laboratoriale prevede il vedere e losservare oltre che il fare, come momento di pari importanza.
alla tolleranza/la fiducia:
Attraverso una serie di esercizi laboratoriali viene costruita una fiducia fisica ed emotiva nellaltro. Ognuno diviene depositario della incolumità e dellintimità degli altri.
costruzione in comune/la maschera
La maschera, intesa come tappa del processo in cui il materiale prodotto diventa autenticamente teatro, proprio per la sua generazione ibrida e comunitaria racchiude in sé il percorso pedagogico ed estetico e segnala la necessaria indiscernibilità dei due aspetti. Se la maschera è autenticamente teatrale, nel senso delle categorie laboratoriali sopra descritte, essa è il prodotto di un incontro etico, tra individui, in cui si genera lestetico.
Da quanto detto emerge una profonda affinità tra il percorso etico-estetico-pedagogico sopra proposto e la faziana logica della compossibilità, su cui Giambalvo basa la reale possibilità di un mondo condiviso [E. Giambalvo, L’uno/i molti, l’io/l’altro, l’identico/il diverso/il differente e la logica della compossibilità, Palermo, Edizioni della Fondazione Nazionale “V. Fazio-Allmayer”, 1997]. In tale percorso infatti la formazione di singoli è affidata alla collaborazione che si instaura allinterno del gruppo, il teatro così sembra divenire il luogo privilegiato per l attuare e promuovere la formazione umana come educazione al pluralismo, al riconoscimento e al rispetto dellalterità, o della diversità-differenza, dei singoli individui e delle varie culture [Ibidem ].
Se concepiamo come auspicabile un universo di compossibili il teatro appare il laboratorio per eccellenza in cui sperimentare in piccolo ma concretamente le dinamiche interazionali, estetiche e concrete che possano inverare la progettualità pedagogica.
La maschera, obiettivo del percorso laboratoriale teatrale, rinvia a quella categoria di singolo relazionale e compossibile in cui sembra essere racchiusa la possibilità di una nuova identità costruita su un reale pluralismo che accoglie come contributo imprescendibile la storia dei singoli senza decidere preventivamente un punto di vista privilegiato.
Il teatro così inteso è inoltre un laboratorio di democrazia, naturalmente quando non si fondi sul narcisistico e compulsivo bisogno di esibizione e di plauso.
In tale percorso infatti la formazione di singoli è affidata alla collaborazione che si instaura allinterno del gruppo. Il teatro così sembra divenire il luogo privilegiato per promuovere e attuare la formazione come educazione al pluralismo, al riconoscimento e al rispetto dellalterità.
La Differenza emerge quindi come valore del processo di costruzione del significato in una dimensione dialogica in cui la disponibilità allascolto si connota come autentica apertura al punto di vista dell’altro; viene in tal modo meno una identità forte legata a prospettive egemoniche e ad un soggetto fisso nel proprio solispismo o al narcisismo comune a tanti presunti artisti.
Da quanto detto emerge una profonda affinità tra il percorso teatrale e la reale possibilità di un mondo condiviso posta come obiettivo dall Intercultura, proponendosi non soltanto come pratica ma come attività che ripensa il mondo in termini di compossibilità [Ibidem ], prendendo così parte a quella auspicata rivoluzione antropologica che lIntercultura, attraverso la pedagogia in primo luogo, ha il compito di innescare, risignificando il concetto di bellezza come qualcosa non da contemplare, ma da condividere in quanto cittadini del mondo e membri dellUmanità.
Clara_Gebbia
2006-06-18T00:00:00
Tag: intercultura (14), Levi-StraussClaude (4), teatro sociale e di comunità (97)
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