Le recensioni di “ateatro”: Tragedia Endogonidia R.#07
Il ciclo della Socìetas Raffaello Sanzio fa tappa a Roma
Con l’ambizioso ciclo della Tragedia Endogonidia (giunto a novembre alla tappa numero 7, al Teatro Valle di Roma per Romaeuropafestival) la Socìetas Raffaello Sanzio prosegue con coerenza il proprio cammino, continuando a lavorare metodicamente alla realizzazione del proprio teatro della crudeltà. Ovvero della personale pratica delle intuizioni e visioni di Antonin Artaud condotta da Romeo Castellucci & soci: un teatro dove il segno-gesto teatrale possa recuperare - prima ancora che un senso - la propria potenza destabilizzante, numinosa, là dove il linguaggio non si è ancora strutturato e codificato.
E’ un cammino che sospinge verso il mito e ancora di più il rito. Verso il pre-umano e lanimale (e infatti ecco regolarmente in scena, anche in questo ciclo un capro, come nella tappa inaugurale a Cesena, e una scimmia, come a Roma, dove uno scimpanzé abita a lungo una candida scena, dietro una vetrata geometricamente scandita). E sospinge verso il corpo, il dato elementare della fisicità (fino addirittura al DNA…). Verso l’inorganico e la morte, in un teatro vitalissimo. Al tempo stesso, questa tensione verso l’origine implica spesso un gesto di destabilizzazione nei confronti dei linguaggi già codificati, dei miti condivisi, dei luoghi comuni della comunicazione: di qui la necessità di oltraggi, provocazioni, trasgressioni…
Dopo la dissezione e destrutturazione del mito operata negli ultimi spettacoli, il ciclo della Tragedia Endogonidia costituisce una ulteriore fase di lavoro per il gruppo cesenate. Questa volta si tratta di far germogliare il segno dal confronto con la realtà, ma anche dalla frizione con la storia e con lattualità politica. Ovviamente con lo stile, i punti di riferimento, il patrimonio accumulato dalla Socìetas in decenni di lavoro.
Dunque, in primo luogo, un estetismo raffinato e perturbante, che opera per sottrazioni progressive e formalizzazioni radicali, per opposizioni binarie. Il «prima», lorigine a cui tende asintoticamente la Raffaello è al tempo stesso un «dopo»: dopo il disastro, dopo una catastrofe reale che è al tempo stesso un collasso del sistema di segni di cui è fatto il mondo.
In secondo luogo, ritorna tutta una costellazione di oggetti, gesti e relazioni, oltre che di riferimenti (per esempio a Lynch e, nella prima scena, al Kubrick di 2001 Odissea nello spazio), e un costante slittamento verso una dimensione onirica, riprendendo la logica freudiana di associazioni, derive e inversioni di segni. Nella tappa romana, il nero ossessivo del fascismo diventa clamorosamente un bianco lattiginoso (quasi degno dei marmi dellEur e del Foro Italico…), nellinferno ovattato dove viene condotto e rinchiuso un Mussolini in accappatoio bianco.
Cè, in più rispetto ai lavori precedenti, un serrato confronto con i luoghi che ospitano e producono lo spettacolo, in un viaggio che ha un respiro triennale, lungo un percorso circolare parte e tornerà a Cesena nellottobre del 2004, dopo aver toccato altre nove città (Avignone, Berlino, Bruxelles, Bergen, Parigi e poi dopo Roma Strasburgo dal 17 al 20 febbraio 2004, Londra a maggio e Marsiglia a settembre). Così nella stazione romana ecco evocati, per lappunto, Mussolini, e prima di lui uno sciame di pretini in tonaca nera che sembrano rubati a una foto di Giacomelli: giocano a maldestramente pallacanestro, in un beffardo ibrido di sport e cerimonia religiosa.
Laccostamento rimanda obliquamente a un evento storico: perché Roma è la città del Concordato del 1939, il patto tra il Potere e la Chiesa. Ma questa Roma astrattamente felliniana è anche una città del teatro (o della commedia dell’arte…), e dunque ecco entrare in scena un demonio tutto vestito di rosso, che si abbevererà vampirescamente del sangue del Duce, per poi rivelare un abito da Arlecchino, prima multicolore e poi a scacchi bianchi e neri, proprio come il costume dellattore affrescato sulla volta del Valle, in una duplicazione ironica, sottolineata da un gioco di luci (ed è sintomatico che questa gag metateatrale tra realtà e finzione, in uno spettacolo aperto al mondo esterno e alla storia cittadine, rimandi allinterno del luogo teatrale).
Sono immagini e segni incisivi, spesso sorprendenti e spiazzanti, a volte ironici (ma anche lironia è uno dei meccanismi dellinconscio). Segnano la assunzione esplicita di una sensibilità se non di una responsabilità politica: nelle prime tappe della Tragedia Endogonidia una delle icone più riconoscibili era un cadavere che evocava quello di Carlo Giuliani; mentre a Roma linfernale scatola bianca finisce si apre e si sfonda su un contenitore addobbato con strisce multicolori che richiamano le bandiere della pace.
Al tempo stesso sono segni che cercano di evitare ogni facile decifrazione, per incidersi in una zona dellIo ancora vergine, aperta a nuove sensazioni e associazioni. Tuttavia quella di Romeo Castellucci, che da sempre fa «teatro contro il teatro», pare una fatica di Sisifo: la crudeltà artaudiana, che si rivela ogni volta più che in un segno in un gesto, in unazione, diventa tuttavia immediatamente e inevitabilmente interpretabile, inscritta comè nella forma del testo-spettacolo, e dunque in una logica e in una sintassi.
La Tragedia Endogonidia cerca di sfuggire a questa morsa praticando un nomadismo dei luoghi, che arricchisce ogni volta il repertorio di riferimenti e provocazioni (in un ambito assai diverso, è la stessa strada imboccata da Pina Bausch nelle produzioni ospitate dalle diverse città che producono i suoi lavori). Questa apertura al reale viene però compensata da quello che Castellucci definisce «isolamento»: la creazione di un sistema chiuso e autoreferenziale (laspetto «endogonico»), di uno spazio finito come un mazzo di tarocchi, in cui alcuni segni e meccanismi (la deriva verso altri mondi, lanonimia, la maschera, lalfabeto, la legge, il bersaglio, la cronaca nera, la città, in un elenco prodotto dallo stesso gruppo, ma ce ne sono ovviamente altri), tornano e si fecondano tra loro: una sorta di camera iperbarica che porta a conflagrazioni, dissociazioni… E nellequilibrio tra lindispensabile contaminazione con il mondo (altrimenti lintero sistema si riduce a esaurire le diverse possibilità combinatorie di un numero finito di elementi) e la coerenza poetica del sistema che si verificherà la tenuta dellintero progetto. In questo, la testimonianza filmica offerta da Cristiano Carloni e Stefano Franceschetti offrirà certamente una significativa verifica.
E la tragedia? Fin dallinizio, con lucidità, Romeo Castellucci si arrende allimpossibilità della tragedia.
«La nostra epoca e le nostre vite sono definitivamente fuori da ogni concezione tragica. Redenzione, pathos e ethos sono parole irraggiungibili, cadute nella più fredda delle astrazioni. Occorre avere il coraggio di guardare il vero volto della tragedia. Perché non so ancora cosè».
Per recuperare il senso della tragedia, rifiuta laspetto più direttamente civile e politico:
«La tragedia non crea un modello estetico, in cui la polis si riconosce e che illustra il pensiero e i timori di unepoca. Non è una riflessione sul mondo o lespressione di una visione del mondo, ma un interrogativo vitale sulla possibilità dellazione, sulla natura stessa dellagire (…) La tragedia non è quindi testimonianza, ma epifania: non è riflesso della realtà, ma contestazione profonda della realtà, attraverso la creazione della coscienza tragica. Essa nasce dal conflitto. Essa è conflitto per affermare la legge del possibile, sempre pragmatica.»
Coerentemente, viene data per scontata lassenza di una comunità (di una polis) a cui far riferimento; e viene esclusa da questa nuova forma di tragedia il Coro, visto come istanza razionalizzatrice, portatrice della possibilità e necessità dellinterpretazione allinterno dello stesso evento teatrale. Viene dunque enfatizzato, della tragedia antica, laspetto misterico, pre-verbale, rituale, pur sapendo benissimo che il recupero di quella dimensione è un obiettivo irraggiungibile per noi moderni anche se forse per i post-moderni la situazione potrebbe essere diversa…
Tuttavia, se la tragedia nasce dal mito e dal rito, essa ha preso forma anche e soprattutto nel rapporto paradossale tra la necessità (il destino) e la libertà (la possibilità dellindividuo di scegliere tra bene e male). Lazione tragica non si contrappone solo e tanto allimpossibilità di agire, magistralmente portata sulla scena proprio dallAmleto autistico della Socìetas. Si contrappone piuttosto a un agire «eterodeterminato»: determinato dalle leggi della natura, dellistinto, del corpo, della società o magari divine. Mentre le abbaglianti e affascinanti figure e icone della Socìetas Raffaello Sanzio non paiono mai godere del libero arbitrio (che sta tutto, se ancora è praticabile, nella mente del demiurgo-creatore). La tragedia «raffaellesca», considerata emanazione (e forse degradazione) del mito e del rito, rifiuta invece la dimensione dellindividualismo, quello slittamento che dal rito e dallepica apre agli abissi tragici con le loro implicazioni morali e (di degradazione in degradazione, si potrebbe obiettare) psicologiche. Ma in questa Tragedia Endoginica il limite tra letico e lestetico resta invalicabile, coerentemente con la visione e la pratica teatrali di un gruppo che ha costruito lcuni tra gli spettacoli più belli e significativi di questi decenni.
TRAGEDIA ENDOGONIDIA R.#07 – VII EPISODIO
Regia, scene, luci e costumi Romeo Castellucci
Composizione drammatica, sonora e vocale Chiara Guidi
Musica originale ed esecuzione dal vivo Scott Gibbons
Traiettorie e scritture Claudia Castellucci
Roma, Teatro Valle, novembre 2003
Oliviero_Ponte_di_Pino
2003-11-29T00:00:00
Tag: Romeo Castellucci (29), Societas Raffaello Sanzio (34)
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