Solo Maria può uccidere Maria
Un uomo a metà di Giampaolo Rugo, regia di Roberto Bonaventura con Gianluca Cesale
“Quell’azzurro di sicuro/ non mi incanterà mai più” è una frase dell’Angelo azzurro, brano cantato da Umberto Balsamo, datato 1977, risuona in testa anche dopo la visione dello spettacolo in cui è stato esibito, durante la doccia-battesimo del protagonista, dentro una sorta di infero calderone, dopo una memorabile sbornia e una scopata drammaturgicamente decisiva. Si tratta di Un uomo a metà, ma non è il lungometraggio di Vittorio De Seta con Jacques Perrin e le musiche di Ennio Morricone (1966). Eppure questo testo di Giampaolo Rugo, diretto da Roberto Bonaventura con Gianluca Cesale, accompagnato in scena da un paio di statuine mariane, da una in particolare che spicca tra le altre, ha qualcosa che lo accomuna a quel film aldilà del titolo.
Sullo schermo, appena dopo l’inquadratura incipitaria di De Seta, segue i titoli di testa una citazione:
“Non nascondere le tue piaghe agli occhi degli altri poiché verranno a cancrena e sarà la morte. Esponile piuttosto alla luce del sole e sarà la salute”.
Il film è dedicato a Ernst Bernhardt, studioso e medium, seguace dell’ebraismo hassidista: questo elemento sintetizza l’intento del lavoro, unitamente alla citazione finale del film, questa volta da attribuire a Gustav Jung:
“Ciò che prima dava origine a feroci conflitti e a paurose tempeste affettive, appare ora come una tempesta nella valle, vista dalla cima di un’altra montagna. Non per questo la tempesta è meno reale, ma si è sopra, non dentro di essa”.
Peraltro Rugo non ha voluto rifare De Seta, anche se in entrambi i lavori è la nevrosi a fare da protagonista indiscussa. Diversissimo è il linguaggio e la poetica differentemente declinata. Comune è invece l’identificazione dell’incompletezza, riferita a un medesimo disagio sociale.
L’uomo a metà di Rugo è la prima esperienza di scrittura di una tetralogia che coinvolgerà nelle sue successive esplorazioni ancora Gianluca Cesale e il regista Roberto Bonaventura, con la produzione della compagnia messinese Il Castello di Sancio Panza. I quattro temi che costituiscono lo scheletro delle storie sono: mangiare, bere, dormire e fare l’amore. Dalla riflessione su quest’ultimo tema nasce il testo che ha per protagonista un uomo affetto da problemi di erezione, imputabili all’educazione ricevuta, quindi a un disturbo psicologico. La religione cattolica è uno dei personaggi di questa vicenda e contagia con la sua pletora di metafore e significanti anche i nomi dei personaggi: Giuseppe è il protagonista monologante, Maria la donna di cui s’innamora, Gabriele il cugino-amante di Maria, Dogmai la prostituta che “guarirà” Giuseppe dal suo disagio sessuale. Viene quindi riprodotta una sacra famiglia perfettamente riconoscibile fin dai nomi. Gabriele, che ha il nome dell’angelo che nel Nuovo Testamento annuncia la gravidanza di Maria, mette incinta la donna del protagonista.
Ma in questo grottesco ritratto familiare Giuseppe non è di certo il santo falegname della tradizione cristiana. Allo stesso modo la ossessionante presenza della statua della Madonna sarà anche l’arma con cui verrà uccisa la fedigrafa e troppo umana Maria. Giuseppe “aveva provato di tutto: Cialis, Viagra, Levitra, ma niente, ogni volta al dunque, sul più bello… gli veniva in mente la statua della Madonna del sacro cuore di Maria, le braccia larghe, le mani aperte, come se volesse abbracciarlo.”
Il pubblico si identifica con il Giuseppe interpretato da Gianluca Cesale, in uno spettacolo che richiede una grande resistenza fisica, oltre che vocale: l’attore passa dai toni di una veloce telecronaca calcistica ai silenzi di una commovente vestizione, incarnando anche la deformità di un difetto fisico e i tic di un malato di mente. La ribellione nei confronti della mediocrità iterata lo porterà all’omicidio ma anche alla possibilità di riscatto, alla capacità di creare finalmente delle crepe, un po’ di colore, sebbene solo grigio, nelle ferite di una statua ancora irrimediabilmente troppo bianca.
Lo spettacolo, vincitore del Napoli Fringe Festival 2015, presenta un preciso disegno luci, opera del regista Bonaventura, come nella gigantesca ombra che sovrasta il protagonista con ciclica presenza e nella triplice proiezione evocativa di una crocifissione borghese, ma con simmetria rinascimentale. Potrebbe sembrare una traduzione scenica comica, il dramma brillantemente narrato da Rugo. Le scene e i costumi di Francesca Cannavò mostrano un bianco in cui sconfina una desolante angoscia. Il capovolgimento del colore notoriamente usato per identificare la purezza è qui simulacro di morte, ritrae una statua che contagia con il suo freddo e funereo sembiante ogni elemento scenico, spezzato soltanto da un azzurro “immacolato”, ma ancora una volta negativo perché sinonimo di impotenza sessuale. I pochi altri colori evocati o esibiti sulla scena sono costituiti dal catalogo delle Madonne: il protagonista vende infatti statue religiose per conto di una società toscana a Roma. Coloratissima è la descrizione del personaggio di Gabriele (“un tipo abbronzato anche se era febbraio”), dei suoi eccentrici abiti, del suo appartamento, che tra i vari singolari oggetti, ostentazione di lusso e cattivo gusto, ha in casa “un biliardo con il panno rosso bordeaux” e un “bar pieno di liquori retroilluminati da una luce arancione”. Lo smalto rosso sulle unghie dei piedi delle statue delle Madonne evoca Dogmai, la Thailandia “e un piccolo pennello in una piccola boccetta con della vernice rossa, rossa come il sangue che continuava a uscire dalla testa di Maria”.
Il dramma descrive il paradossale percorso umano di un esemplare cittadino italiano: è lo stesso spettacolo a suggerirlo nell’incipit, in cui vengono presentati senza ipocrisia due importanti realtà della Penisola, la chiesa cattolica e la compromessa identità nazionale. Viene citato l’inno di Mameli, ma l’Italia sembra inevitabilmente soccombere, tanto la potenza clericale è forte e invasiva. L’unica arma per difendersi è indossare i vessilli della fede per divenire eroi della quotidianità, provando a scardinare il potere con i suoi stessi mezzi. Il risultato, che questa storia sembra però suggerire, è che la trasformazione dell’individuo ribelle lo condanna a rivivere incessantemente un delirio, apparentemente superato grazie al “Dogma”. Oppure sarà vero quanto scrive Albert Camus? “Occorre immaginare Sisifo felice”, anche soltanto perché ha trovato l’ambizione per raggiungere la cima e la lotta potrà così riempirgli il cuore… Anche se il sottotitolo recita: Saggio sull’assurdo, quasi a togliere ogni speranza.
Visto il 18 febbraio al Teatro Brancaccino, Roma.
Un uomo a metà
di Giampaolo G. Rugo
con Gianluca Cesale
regia Roberto Bonaventura
scene e costumi Francesca Cannavò
amministrazione Marilisa Busà
foto di scena Giuseppe Contarini
produzione Castello di Sancio Panza e Fondazione Campania dei Festival
Spettacolo vincitore del Napoli Fringe Festival 2015
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