La bella addormentata

Una conversazione con Daniela Benelli, ass. cultura Provincia di Milano

Pubblicato il 27/10/2006 / di / ateatro n. 102

Da quello che si legge in queste settimane anche sui giornali, sembra che dal punto di vista dell’’immagine e della cultura questo sia per Milano un momento di riflessione acuta e calda.

E’’ un momento di riflessione che potrebbe preludere a un risveglio.

Questo presuppone che siamo un po’’ addormentati.

Questo presuppone che la città ha dormito e che dal punto di vista delle politiche culturali ha un ritardo di quindici-vent’anni rispetto all’evoluzione e al governo delle trasformazioni che ci sono stati in moltissime altre città, non necessariamente capitali, sia in Europa che in Italia. Il caso di Roma è lampante, ma Roma ha una massa di denaro che altre città non hanno; Torino invece ha cercato con le proprie forze di riorganizzarsi e di trasformarsi, puntando su nuove funzioni culturali, sull’idea che nel mondo d’oggi l’economia è un’economia della cultura e che l’economia immateriale ha ruolo sempre crescente, e sul fatto che la città deve riacquistare una certa capacità creativa.

Ci sono due livelli sui quali muoversi per rilanciare la città. Il primo fronte è quello dei grandi eventi, per riportare Milano all’’interno del circuito della cultura internazionale, una funzione che ha in parte perso negli ultimi anni; sull’’altro versante si tratta invece di lavorare sulla creatività, su quello cose che sta succedendo a Milano.

Bisogna trovare il giusto mix tra queste due modalità di intervento. A differenza di Roma, Milano possiede un tessuto culturale molto vivo di associazioni, privati, è una società civile che si organizza e produce momenti di incontro, festival. Milano ha un tessuto creativo molto forte, e questa natura di città di frontiera è nel suo dna. La popolazione milanese, in particolare la fascia dei professionisti e degli artisti, ha molti contatti internazionali. Il problema è che tutto questo non ha una sponda istituzionale: non si è riusciti a fare massa critica di questa ricchezza, perché le istituzioni non hanno mai pensato mai che la cultura fosse un settore sul quale investire. Questo aspetto più di altri distingue Milano da altre città. Però è anche vero che il grande evento può aiutare questo tessuto a crescere e a trovare visibilità: non deve però essere calato dall’’alto, ma deve utilizzare il tessuto esistente dandogli un valore aggiunto, a cominciare dal forte investimento in comunicazione e da tutto quello che accompagna di solito le grandi manifestazioni. A Milano andrebbe ricalibrato il mix tra grande evento e intervento sull’’esistente, cercando di unire le due cose, senza tenerle separate.

Per farlo bisogna che Comune, Provincia e Regione si mettano d’’accordo. In questo momento Milano ha, da una parte, una Regione con una politica culturale localistico-regressiva, e dall’’altra, in Comune, ci sono le provocazioni di Sgarbi. Come può la Provincia riuscire a trovare un punto d’’equilibrio tra questi enti?

Voglio introdurre una nota d’’ottimismo. Alla Regione ora c’’è un nuovo assessore, più aperto e disponibile. E nelle sue provocazioni Sgarbi sta facendo un lavoro utile, perché sta smuovendo il conservatorismo culturale della città. Se lo si depura dalla sua bulimia mediatica, è un ’uomo intelligente che ha capito la situazione milanese e sta facendo le mosse giuste; trovo positiva anche l’’attenzione che sta dedicando anche alla qualità del tessuto urbano, al bisogno di non distruggere i punti che esistono, ma semmai di investirli di nuovi ruoli. Insomma, non ho un giudizio negativo di Sgarbi; e siccome c’è lui da una parte e il nuovo assessore dall’’altra, si sono create le condizioni per creare un asse tra le tre istituzioni. E’’ inevitabile che esista un margine di competizione tra di loro, ma questo margine che può convivere all’’interno di un quadro condiviso che porti tutti verso la stessa direzione.

Nel quadro condiviso dovrebbe rientrare anche il futuro assetto legislativo regionale: anche se esiste il rischio che la Provincia ne resti schiacciata.

Questo rischio l’’abbiamo sempre corso. Ma se l’’assetto legislativo regionale tiene conto del parere delle Province e soprattutto tiene conto che le province esistono, non saremo schiacciati ma valorizzati. Per rimanere in tema di spettacolo, ho cominciato a suggerire all’’assessore Zanello di provare a ripensare la legislatura regionale dello spettacolo anticipando le possibilità di un futuro di autonomia e di decentramento delle funzioni. Se per esempio si vuole decentrare il FUS, è necessario che la regioni istituisca un proprio FUS, dimostrando di saperlo gestire. Allora anche gli operatori non si spaventeranno più se il FUS verrà decentrato. Ma è necessario prepararsi con una serie di provvedimenti. Le Province hanno una funzione essenziale nell’’ambito della legislazione regionale, perché sono gli unici organismi in grado di fare una programmazione sovracomunale. Il rapporto diretto regione-comuni è deleterio, diventa un rapporto necessariamente clientelare.

Fino a ora abbiamo parlato della cultura in generale. C’è uno specifico del teatro milanese su cui si può intervenire?

A Milano, nonostante la presenza di un teatro pubblico forte come il Piccolo, sono nati moltissimi teatri di produzione no-profit, ovvero teatri formalmente privati ma con una forte funzione sociale e l’’intento di essere teatro d’’arte, non una produzione commerciale. Questi teatri sono numerosi e stanno continuando a crescere, con le nuove esperienze di gruppi giovani con un taglio di ricerca, diverso da quello tradizionale.
Il primo dato è quindi un pluralismo molto forte. Il secondo è che questo mondo del teatro, così articolato, si sforza di promuovere rassegne di carattere internazionale, per portare a Milano le nuove tendenze: due esempi significativi, MilanoOltre di Teatridithalia e il Festival Uovo, che è tutto nuovo e rispecchia le esigenze di un teatro giovane, con un impatto di forte internazionalità.
Questo mi pare dal punto di vista strutturale ciò che caratterizza Milano. Ovviamente questo è accaduto anche grazie alla lungimirante politica del Comune, questo bisogna riconoscerlo, anche con le convenzioni triennali ideate dall’’assessore Carruba, con le quali il Comune ha dato a questi teatri una sede stabile e li ha aiutati nella gestione.

Ma cosa si può fare per migliorare la situazione?

Innanzitutto, è necessario non depotenziare i finanziamenti statali. Probabilmente sarebbero importanti anche interventi sul fronte del credito, perché i teatri vivono di promesse di finanziamenti che arrivano con un ritardo spaventoso rispetto alle programmazioni. Personalmente credo si dovrebbe fare qualcosa per aiutare i più giovani, per aiutare la crescita del teatro di ricerca. Bisogna internazionalizzarsi, aiutando le nuove tendenze teatrali, che – mi risulta – siano un mix di linguaggi in cui il teatro tradizionale tende a ibridarsi con la musica, la multimedialità, le arti visive…

E il Teatro degli Arcimboldi?

E’’ stato un investimento sciagurato, poco lungimirante, sbagliato per la localizzazione, perché il contesto non era favorevole, perché il collegamento è ancora difficile e perché è stato concepito come un secondo teatro lirico, con tutta la complessità della macchina scenica e i conseguenti costi. Noi pensiamo che non debba diventare un’’idrovora dove si buttano ulteriori risorse pubbliche o parapubbliche, ovvero risorse che passano per private ma che in realtà andrebbero ridistribuite invece di essere buttate in quel teatro.
Bisogna invece fare un piano per la gestione del teatro che abbia la miglior resa con il minor dispendio possibile. Le istituzioni pubbliche devono dimostrare che, avendo fatto un investimento poco lungimirante ma essendoci questo teatro e non essendo possibile demolirlo, bisogna cercare di farlo funzionare con il minor costo possibile.

Quali sono le strade?

Non una nuova fondazione, almeno questa è la mia opinione fermissima, anche se so che altri la pensano diversamente. E non è nemmeno necessario moltiplicare gli incarichi artistici. Bisognerebbe piuttosto imboccare due strade compatibili e possibili. La prima è un bando rivolto al settore privato, che si assuma parte dei rischi d’’impresa di gestione, portando spettacoli internazionali, ovviamente con un taglio commerciale, popolare, perché il teatro è molto grande. In alternativa a questo bando, o meglio accanto a esso, come si è fatto per il passato, si possono invitare realtà già esistenti, come fondazioni e teatri, a condividere una quota della gestione del teatro. Quindi chiedere loro di fare delle proposte, trovare un direttore artistico in grado di muoversi in un quadro coerente: l’’obiettivo sarebbe un mix tra la gestione privata di un imprenditore e una gestione che in qualche modo ricoinvolgesse fondazioni teatrali e musicali e altre realtà. Così quello che sarebbe un investimento che va ad aggiungersi a quello già esistente, rischiando dunque di sottrarre risorse, ridistribuisse invece opportunità e risorse al mondo dello spettacolo che già opera a Milano.

Che tipo di rapporto può crearsi tra Milano-città e l’’hinterland sul versante del teatro?

In primo luogo è necessario incoraggiare il pubblico dell’’hinterland a usufruire del sistema di spettacolo della città: fare quindi una grande promozione su questo pubblico, fatto in buona parte di giovani che per ragioni di costi hanno preferito spostarsi nell’’hinterland. Ma noi ovviamente stiamo anche cercando di aiutare lo sviluppo di circuiti teatrali esterni alla città, come abbiamo fatto a Monza e nel Nord Est. Nell’’hinterland è passato il tempo del decentramento teatrale, ovvero dei teatri di Milano che portano i loro spettacoli fuori città. I comuni tendono ad avere un’’originalità di proposte, tendono a utilizzare i loro spazi per farsi una loro programmazione teatrale. Più che di decentramento, bisogna parlare di policentrismo, di un tentativo dei comuni di portare a teatro la loro popolazione – e in qualche caso portare anche di portare i milanesi fuori Milano. Un esempio è il Mil di Sesto San Giovanni, con una programmazione affidata ai Filodrammatici; anche Elio De Capitani ha aiutato a formare il circuito della provincia di Monza; Abbiategrasso invece si è specializzata nel teatro di strada, creando una struttura con collegamenti internazionali. Insomma, tutti cercano di specializzarsi. Del resto, i teatri milanesi hanno quasi tutti una sede stabile ed è difficile portarli fuori città. Il Piccolo Teatro sarebbe disposto, ma ha dei costi molto alti e non facili da sopportare. Insomma, quella non è la strada.

Un’’altra strada sarebbe quella delle residenze delle compagnie.

E’’ una strada che incoraggiamo, ma non è facile: i milanesi non sono contenti di andare fuori Milano. E’ un peccato, perchè tra vent’anni questa distinzione tra Milano-Milano e fuori Milano non ci sarà più. La città si espande. Man mano che si faranno i collegamenti necessari, purtroppo con tempi biblici, la città si espanderà in quel senso. I comuni hanno spesso spazi da riqualificare, ma fanno fatica perché non tutti i protagonisti della vita artistica milanese hanno voglia di spostarsi fuori città. Anche a Cormano stiamo provando a fare una bella operazione…

Torino ha avuto un contraccolpo enorme dai cambiamenti economici dovuti alla deindustrializzazione e ha dovuto reinventarsi. A Milano invece non ci siamo quasi accorti di queste trasformazioni: la città è riuscita a operare la transizione al terziario, ma è un terziario al quale ora comincia a mancare un po’’ il fiato. Oltretutto Milano non è riuscita a capitalizzare nella maniera giusta il suo patrimonio.

Tengo molto a capire le differenze tra Milano e le altre città. Torino ha messo attorno a un tavolo
la Fiat, le maggiori Fondazioni Bancarie e ha detto: noi di Torino vogliamo fare questo. A Milano non si è investito sui settori innovativi, dove bisognava farlo con più urgenza, e poi si è investito troppo poco nelle trasformazione urbane. A Milano le riqualificazioni migliori sono state opera di associazioni di quartiere, come nella zona di via Tortona, dove si sono messi tutti insieme, professionisti e creativi, e hanno fatto un’operazione anche immobiliare specializzando la zona. Qualcosa di analogo, un po’’ più confusamente, sta succedendo alla Bovisa. Ma sono tutti fenomeni governati da immobiliaristi illuminati, in queste trasformazioni non c’’è stato un governo pubblico.

Anche il Leoncavallo è una situazione difficile da gestire. Milano non è riuscita a usarlo. Mentre in altre città strutture simili hanno cominciato a interagire con le istituzioni in maniera costruttiva, per vari motivi il Leoncavallo è rimasto una situazione di semilegalità e di intoccabilità.

Quando Sgarbi ha toccato la questione, ha dato una scossa alla mentalità conservatrice della città. Adesso è tardi per mettere a posto la situazione, perché il Leoncavallo è invecchiato, non è più un sistema innovativo.

Ma non si può cancellare il Leoncavallo se non ci sono alternative.

Sono convinta che l’’incapacità di far interagire questi giovani con il tessuto della città ha fatto dilagare un certo vandalismo graffitaro. Quei giovani non sono stati coinvolti in un progetto di interesse pubblico e questo ha fatto sì che andassero per la loro strada.

Redazione_ateatro

2006-10-27T00:00:00




Tag: Milano (79), politicaculturale (20)


Scrivi un commento