I giocattoli di Dioniso

Sul mito dell'invenzione del teatro

Pubblicato il 10/03/2003 / di / ateatro n. 050

Il mito della invenzione del teatro ci è tramandato dalla tradizione orfica.
Clemente, vissuto nel II secolo dopo Cristo ad Alessandria, ma probabilmente ateniese e certamente di cultura greca, allievo e forse a un certo punto direttore della scuola cristiana, ci informa sul nucleo centrale dei misteri dionisiaci. La fonte è molto attendibile, dato che, prima di convertirsi al Cristianesimo, Clemente è stato iniziato ai misteri. Clemente ci dice che i misteri erano basati sulla storia di un piccolo dio ammazzato e su quella di una donnetta piagnucolosa. Allude evidentemente al mito di Dioniso fanciullo sorpreso e fatto a pezzi dai Titani e a quello di Demetra in lutto alla ricerca della figlia Persefone, rapita sottoterra da Ade.

Cratere di Prònomos, 410 a.C. circa, Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Il mito di Dioniso ci è pure conservato da Clemente che cita i versi di Orfeo in cui il mitico cantore, fondatore delle iniziazioni e delle rappresentazioni drammatiche, come attesta un passo di Nonno di Panopoli, elenca i giocattoli con cui si trastullava il piccolo dio. Essi rappresentano l’apprendistato di Dioniso a un particolare gioco. Dalla citazione di Orfeo veniamo a conoscenza di quattro giocattoli, altri quattro sono menzionati da Clemente nel commento del passo:

«ma i Titani si insinuano con l’astuzia: dopo di averlo ingannato con giocattoli fanciulleschi, ecco che questi Titani lo sbranarono, sebbene fosse ancora un bambino, come dice il poeta dell’iniziazione, Orfeo il Tracio: “la trottola, il giocattolo rotante e rombante, le bambole pieghevoli e le belle mele d’oro delle Esperidi dalla voce sonante”. E non è inutile menzionarvi come oggetto di biasimo i simboli inutili di questa iniziazione: l’astragalo, la palla, la trottola, le mele, il giocattolo rotante e rombante, lo specchio, il vello».

Affresco dalla Villa dei Misteri, Pompei.

Gli otto giocattoli rimandano tutti alle arti e alle tecniche teatrali.
La trottola – il termine greco è più esattamente «pigna», con cui veniva adornata la punta del tirso dionisiaco ­ richiama la danza rotatoria su se stessi per procurarsi uno stato di estasi. Accompagnata dal suono del giocattolo rotante e rombante, ossia il rombo, costituito di una tavoletta a forma di pesce fissata a una corda che si faceva roteare. Secondo la lunghezza della corda, la velocità di rotazione, la grandezza della tavoletta si potevano ottenere infiniti suoni, che erano connessi con Dioniso: il muggito taurino, il sibilo del vento, il rombo del tuono, ecc. In questo totale abbandono al ruotare su sé stessi e contemporaneamente roteando il rombo, si provocava uno stato allucinatorio che produceva visioni, forme, figure. Sono le immagini in azione: marionette, automi semoventi, come quelli costruiti da Dedalo, maschere. Fino all’attore.
La trance provoca azioni e suoni, mentre dalle figure emergono canti ricchi di sapienza e di verità nascoste. Esse sono contenute nell’ultimo giocattolo citato da Orfeo: le mele d’oro. Il viaggio allucinatorio infatti trasporta nel giardino delle Esperidi, ai confini del mondo occidentale, in quel «tramonto» (Nietzsche in Così parlò Zarathustra lo fa parlare al tramonto, quando Zarathustra è così pieno di sapienza che non può più trattenerla e trabocca da lui) in cui tre ninfe-serpenti cantano dolcissimi canti. Sono le custodi dell’albero delle mele d’oro che sorge al centro del giardino. I suoi frutti sono dorati perché generati dai semi del gregge (il vello d’oro) sepolto sotto l’albero. Il termine greco mélon permette infatti l’ambiguità tra frutto (mela, pera, arancia) e pecora. Il frutto non somiglia poi molto a una mela, ma secondo Erodoto somiglia alle nespole o alle olive, insomma un frutto più vicino al grappolo d’uva che non alla mela. Tanto più che spremuto dà un succo dolcissimo che inebria e dona l’oblio. Il quarto giocattolo dunque allude all’ebbrezza dionisiaca che dà un canto sapiente, un logos poetico e divino.

Affresco dalla Villa dei Misteri, Pompei

Le immagini scaturite dal delirio allucinatorio della danza e del rombo rotanti conoscono le tecniche del canto e della declamazione, la possibilità di riprodurre infiniti suoni e melodiose parole piene di saggezza. Degli altri giocattoli ricordati da Clemente, alcuni sono ripetuti, come la trottola, il rombo, le mele, altri sono assimilabili, dunque ripetizioni chiarificatrici, come la palla che evoca il gioco della palla, gioco costituito di danza e canto, come quello cui sono intente Nausicaa e le sue ancelle quando Ulisse emerge dinanzi a loro, e che amplia la danza rotatoria a un altro movimento che somiglia a quello degli astri. Se la palla dunque si connette alla trottola, il vello si connette alla mela, sottolineando il rapporto del frutto con il suo seme.
Rimangono l’astragalo e lo specchio. L’astragalo, il gioco dei dadi in relazione con la divinazione, richiama il tempo («Il Tempo è un fanciullo che gioca a dadi», Eraclito). La trottola, che oltre a girare su sé stessa per effetto della palla si abbandona a una danza degli astri, dichiara la costruzione di un altro universo e dunque di un nuovo tempo. Il teatro vive nella visione di immagini che portano a un altro spazio e a un altro tempo. Il teatro si fa distruttore dell’ordine, come il corteo dionisiaco costituito di menadi e amazzoni che sovverte e rovescia ogni cosa che incontri: rischio e sapienza (astragalo e specchio).
La funzione distruttiva in base a una più profonda conoscenza, instillata dalle mele d’oro, porta a contemplare nello specchio verità sconosciute. L’atto è pericoloso e porta lo smembramento di sé, come il piccolo Dioniso fatto a pezzi dai Titani, proprio mentre gioca con l’ultimo giocattolo, lo specchio. Nella interpretazione orfica l’arte del teatro si denuncia come la suprema visione dell’altro, dello sconosciuto, ma insieme rivela il carattere di illusione. La potenza sta nella coscienza che l’illusione crea.
Lo specchio (presente nella cesta mistica, come nel rituale affrescato nella Villa dei Misteri di Pompei), fonte di conoscenza, condizione della trasfigurazione che la maschera impone all’iniziando come all’attore, infinito contenitore di immagini ma fugaci, porta il gioco al supremo piacere e insieme ne rivela la precarietà e i limiti. E che il gioco sia quello del teatro troviamo conferma sul cratere di Prònomos, un vaso del V sec. a.C., in cui emerge nella illustrazione dell’arte teatrale la figura allegorica di Paidià, il Gioco, che proietta verso lo spettatore nel gesto di onore presso i Greci (il braccio proteso verso l’altro) una maschera, i cui lineamenti in stucco dovevano creare l’illusione in chi guardava del suo affiorare dalla superficie del vaso per essere accolta dall’osservatore.

Cratere di Prònomos, 410 a.C. circa, Napoli, Museo Archeologico Nazionale.




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