Se il piatto è misero, anche le briciole fanno rumore
L'intervento a M*RDA | Buone pratiche | Per farla finita col lavoro teatrale il 12 febbraio 2025
Il 12 febbraio 2025 il Teatro Fontana di Milano ha ospitato M*RDA | Buone pratiche | Per farla finita col lavoro teatrale, un “Tavolo di orientamento pratico per giovani artisti dello spettacolo su contratto nazionale, tutele sindacali e stato dell’arte”, a cura di Associazione Culturale Ateatro e Teatro Fontana, coordinato da Patrizia Cuoco.
Il video del pèomeriggio è disponibiule sul canale YouTube di Ateatro.
Nel corso dei prossimi giorni pubblicheremo alcuni degli interventi. Cominciamo dal quello di Simone Faloppa, attore e dramaturg.

M*RDA | Buone pratiche | Per farla finita col lavoro teatrale, 12 febbraio 2025, Milano Teatro Fontana: il foyer
Grazie dell’opportunità.
Essendo lo scopo di questo tavolo l’orientamento pratico, proverò a essere pratico argomentando alcune delle 6 domande condivise pubblicamente da Ateatro. Al mio posto parlerà questa relazione in forma scritta che presenta alcune evidenze statistiche parziali ma reali incrociando le quali potremmo porci delle questioni attorno alle quali discutere circolarmente insieme, quest’oggi.
Da 21 anni lavoro per 2 dei 3 cerchi concentrici in cui è avviluppato per sommi capi lo spettacolo dal vivo in Italia. I 3 cerchi concentrici-li ricordo per come li ha definiti a suo tempo Antonio Attisani-
sono e restano:
# il teatro pubblico,
# il teatro privato,
# il teatro indipendente.
Da 21 anni brigo e precareggio attorno al teatro pubblico (di prosa, e lirico-sinfonico) e il teatro indipendente. Questo è il mio reddito prevalente, il mio gettito contributivo dice la mia cassa previdenziale di riferimento (INPS-Ex Enpals) e il Fondo Pensioni Lavoratori dello Spettacolo (FPLS): l’unico parametro leggibile per il resto del mondo del lavoro del professionismo nello spettacolo dal vivo.
Ciò che testimonierò è ciò a cui ho assistito in quasi 5 anni di mobilitazioni e studio matto per un unico obbiettivo:
Migliorare le condizioni strutturalmente fragili ed eternamente ricattabili delle nostre condizioni di lavoro.
Il bene comune, dunque.
Non il mio interesse individuale, posto che è proprio l’interesse individuale la nostra maggiore debolezza: l’incapacità di tenerci insieme. Comprensibile e completamente connaturato alla natura dell’attore italiano, straniero nella propria lingua, esterofilo, che disconosce senza conoscere repertorio e tradizione italiana.
Chiede Ateatro:
Quali sono oggi le condizioni dei lavoratori dello spettacolo in Italia?
Proverò a spingere su alcuni dettagli, per arrivare a un quadro generale. Nel maggio 2017, la Fondazione Giuseppe di Vittorio pubblica una ricerca nazionale sulle condizioni di vita e lavoro dei professionisti dello spettacolo in Italia, Vita da artisti: 17 capitoli, 44 pagine.
Nel Capitolo 1 vengono presentate delle evidenze statistico-previdenziali: esistono circa 120mila iscritti (tra spettacolo dal vivo e cine audiovisivo) alla nostra cassa previdenziale INPS-ex Enpals che producono una retribuzione media annuale pro-capite di appena 5430 Euro. 5430 Euro! Un dato drammatico, passato inosservato. Non c’è da stupirsi, considerando che incrociando produzioni/cartelloni/cast nel triennio pre-pandemico 2017-2020, è emerso che sui palcoscenici dei nostri teatri pubblici lavoravano a rotazione, in un’evidentissima disparità di genere, meno di 130 scritturati, dei quali il 74% uomini.
A fronte di…? Ah sì, 80mila interpreti presunti dall’INPS nello spettacolo dal vivo. Appuntiamo alle nuvole questa cifra.

M*RDA | Buone pratiche | Per farla finita col lavoro teatrale, 12 febbraio 2025, Milano Teatro Fontana: la parola a Simone Faloppa
Chi è entrato in arte nel 2001 come me, durante il passaggio truffaldino all’euro, ricorderà che la minima sindacale da CCNL allora era di 56 euro lorde. La mia prestazione lavorativa per 8 ore di neodiplomato valeva 7 Euro scarse l’ora.
Il salario minimo garantito dovrebbe essere di 9 euro l’ora, però.
Per arrivare a toccare quella cifra ho dovuto aspettare 16 anni, l’aprile del 2018, i fatidici 73 euro lordi. Perché, a scanso di equivoci e a prescindere dal datore di lavoro e dagli anni di servizio, la prima proposta di paga-prove ovunque vai è alla minima… se ti va bene…
Beninteso, ogni voce di un CCNL ha un costo.
Per cui, dietro quei 73 euro lorde alla minima c’è molto altro.
Nel 3° cerchio concentrico del teatro indipendente invece – risicato, invisibile per il fisco e ininfluente per il Ministero e i Sindacati Confederali – conosciamo bene l’arte di morire di fame: paga forfettaria per le prove, salario desunto da debutti secchi al 70/30 in spazi off sotto i 50 posti, infinite pizze ghiacce e Camogli negli autogrill notturni. Peccato che delle nostre professioni ci piaccia riflettere solo lo stato dell’arte, di ciò che è organico e necessario, del qui e ora.
Peccato, perché se riuscissimo a comunicare le nostre effettive condizioni di lavoro – tra colleghi e rispetto alle altre categorie del lavoro – non dubito ci sarebbe maggiore empatia nei nostri confronti.
Così facendo, forse il mondo del lavoro la smetterebbe di definirci
artisti e intrattenitori che evadono il Fisco.
Eh già… si è detto anche questo di noi lavoratrici e lavoratori dello spettacolo. Spostiamoci adesso nell’estate 2020, all’epoca dell’INPS pentastellata di Tridico e di quel governo di coalizione nazionale accusato da tutto il resto del terzo settore di aver lanciato dall’elicottero sussidi a pioggia per i soli lavoratori dello spettacolo-il primo rubinetto chiuso non a caso nel maggio 2021 dal governo Draghi. Ricordate i 120mila iscritti del maggio 2017? Nell’estate del 2020 emersero due inversioni di tendenza: in 5000 stanno cambiando lavoro e l’80% della categoria interpreti, tra spettacolo dal vivo e cine audiovisivo, arrivando a dichiarare a stento nel 2019 numero 7 giornate contributive non riesce ad accedere ai sussidi.

M*RDA | Buone pratiche | Per farla finita col lavoro teatrale, 12 febbraio 2025, Milano Teatro Fontana: la parola a Simone Faloppa
E qui si apre una faglia, che ha dato adito al veleno, al sarcasmo, alla mai sottaciuta guerra tra bande: ma in quanti lavoriamo davvero?! Contiamoci! Gli interpreti professionisti che lavorano DAVVERO sono pochi. Sottinteso, siamo solo noi…che lo diciamo… i realmente titolati a lavorare. È stata questo moto di stizza – corporativista, quasi rotariano, verrebbe da commentare- a fare da volano all’inutile seduzione del Registro di Categoria, istituito e riconosciuto dal Ministero ma facoltativo. Dunque, inefficace oltre che astorico. Peccato che non si discutesse d’altro invece dal marzo 2020 che di lavoro invisibile, di discontinuità, della questione spinosissima dei formatori non inquadrati dal Fisco e privi di codice ATECO.
Ma passiamo oltre.
Nel giugno 2024 l’INPS ha aggiornato queste sue statistiche:
a dicembre 2023 sarebbero iscritti (tra spettacolo dal vivo e cine audiovisivo) 99mila lavoratori, con una retribuzione media annuale pro-capite di 11.300 Euro.
Sono spariti dal radar del Fisco quasi 21mila iscritti.
Giusto così, no? Era ora! Meno siamo, meglio stiamo.
Questo diffuso ma taciuto retropensiero è ancora una volta smentito dai numeri. Quali? Quegli degli under 35, per esempio, la carne da cannone preferita del Jobs Act. Che ne è per esempio dei circa 1500 neodiplomati immessi nel mercato del lavoro dalle scuole di recitazione (nazionali, private, locali) ogni 2 anni? Succede che o rincorrono qualsiasi occasione sottopagata nella tortuosa/ infinita/italianissima gavetta, oppure s’addestrano al bandese: compilano compulsivamente bandi a cui possono concorrere piccole, medie e grandi imprese (vogliamo parlare dei bandi SIAE?).
Non sarebbe meglio immettere nel mondo del lavoro una classe di neo-diplomati ogni 3 anni, invece?
Ma si sa che la formazione è un giro d’affari: è il business, che crea lavoro. Ciò nonostante, da CCNL, le prime 100 giornate contributive dopo le quali non essere più definito né sottopagato come allievo-attore sembrano irraggiungibili; le audizioni continuano a essere scarsamente pubblicizzate o pilotate da vincoli per demotivare l’assalto alla diligenza dei curriculum; solo ogni 7 scritturati c’è l’obbligo di avere un under 35.
Come se esistessero più, o fossero economicamente sostenibili, compagnie di 14 scritturati.
C’è bisogno di ricordarvi i costi vivi del lavoro nello spettacolo dal vivo?
Che ne so, di un bel monologo nel vuoto, il contemporary-IKEA.
Per assaggiare il gradino, il solo autore/interprete/regista di sé stesso, pagato alla minima, costa 146 euro al giorno.
7 suoi giorni di prova (se riposa biblicamente il settimo giorno) costano 1.022 euro. 21 suoi giorni di prova (3 settimane) costano 3.066 euro.
Di cosa stiamo parlando?
Dicevo degli under 35, i mai auditi nel dibattito sull’inefficacia del sistema-spettacolo dal vivo in Italia: gli under 35 vengono addestrati allo sconforto ormai già in Accademia. Siccome non c’è lavoro, organizzatevi costituendovi associazioni e compagnie. Consorziatevi! Come se creare una compagnia equivalga al collocamento e non sia invece una rischiosa scelta di posizione, una ricerca linguistica di una propria cifra. A scanso di equivoci, creare impresa under 35 non è male.
Mi riferisco al fatto che creare una propria impresa dovrebbe essere una scelta esistenziale, prima che di mercato.
V’invito a leggere a riguardo – l’ha condivisa online Thèatron- la tesi di laurea del collega-attore Carmelo Crisafulli Emergenti. Un’indagine sulla scena teatrale under 35, in Italia che saluto e ringrazio per la condivisione dei dati. Questo accade nel 2025 all’inizio della filiera.
Ma verso la fine della filiera sarà sicuramente meglio perché, come si dice in questo lavoro vince chi sopravvive.
Che ne è degli over 55, che hanno maturato almeno 30 anni di contributi? La maggioranza annaspa. Le scritture e le parti (nonostante l’hype della famiglia disfunzionale mucciniana) scarseggiano.
Le paghe restano trattativa riservata telefonica, ad personam, pressing a ridosso dell’inizio della scrittura.
Perché la brutta abitudine di farci firmare il contratto cartaceo il primo giorno di prova non muore mai, lungo l’arco dell’intera filiera. Di fatto, per chi ha lavorato 30 anni dignitosamente come comprimario, senza fare mai davvero il salto (si diceva una volta), c’è poco da raggranellare. E come potrebbe essere diversamente nel mondo del lavoro iper-connesso dei Forever Young? Possono augurarsi una seconda giovinezza artistica tardiva? Queste favole si contano sulla punta di una mano. Cosa fotografa tutto questo? Che l’intergenerazionalità – che è sempre stata una delle maggiori risorse dello spettacolo dal vivo in Italia dal febbraio 1545 – il passaggio di competenze e saperi artigianali,
come le repliche e le tournèe, si stanno estinguendo.
Si stanno estinguendo i mestieri artigianali del palcoscenico, le professionalità tecniche (invisibili, ma indispensabili).
Guardando all’arco intero della filiera, mi ritorna in mente un’osservazione piccata di un direttore di Festival nel 2018:
Ma cosa volete, voi attori?! 8 spettacoli su 10 non valgono niente.
Siete troppi, vedere i video di tutti gli spettacoli è impossibile:
non c’è spazio per tutti! Quando lo trovo il tempo per valutare 500 proposte?
Tutto vero e legittimo, fotografia impietosa di un’altra evidenza statistica: l’endemica carenza di risorse nello spettacolo dal vivo, conseguenza di un Welfare inadeguato.
Ciò nonostante, le nostre sono e restano professioni con una certa epica autoreferenziale, con annessa aneddotica machista:
Ti sei scelto un mestiere che regala poche soddisfazioni.
L’attore è come il coccodrillo. Si adatta a tutto: mangia persino la plastica!
Con il teatro non si mangia, a meno di non fare un patto dell’arte… che abbatta i costi del lavoro – mi è stato detto una volta da qualcuno mentre faceva CLUC CLUC colle chiavi del Mercedes.
Quali sono oggi le condizioni dei lavoratori dello spettacolo dal vivo in Italia?
Scrive a riguardo un collega-regista over 35 – dunque, scaduto come lo Yogurt e fuori bando:
Consegnata la domanda Ministeriale, per il prossimo triennio le stagioni teatrali sono blindate da nuove produzioni o riprese di registi-direttori artistici, artisti associati o drammaturghi residenti.
L’immagine di un sistema di lavoro-privé, chiuso e cucito su misura di pochi, per sempre meno privilegiati commensali.
Cosa resta, perciò?
Restano chilometri di mail evase senza il minimo pudore, telefoni che squillano a vuoto, appuntamenti grottescamente rimandati 5 minuti prima, interlocuzioni che rasentano l’assurdo, anticamere kafkiane.
Si è sempre in ritardo, fuori scadenza, fuori target tematico di stagione sai, il mio focus per questa stagione… il mio pubblico.
Solo per follia o infantilismo si continua a creare o a cercare di produrre idee in Italia. Soltanto dissociandosi e derealizzando si può accettare la distanza frustrante dal desiderio e dal futuro, preso a calci-
Tenitura, distribuzione e circuitazione girano a vuoto, nonostante restino temi sempre buoni per tesi di laurea, promemoria ministeriali, convegni con buffet. Non c’è da stupirsi o indignarsi, perché col nostro silenzio di settore il 1°luglio 2014 abbiamo avallato quel DL Ministeriale votato a riordinare lo spettacolo dal vivo facendo spending review da una parte; salvando industrialmente teatri pubblici economicamente insolventi con una serie d’improbabili fusioni a freddo, dall’altra.
Paghiamo le conseguenze di quell’effetto-farfalla: se tutta la distribuzione delle risorse pubbliche premia il 27% delle grandi imprese pubbliche di spettacolo, il restante 73% dello spettacolo dal vivo ne risente. È questo a determinare, marxisticamente, il disequilibrio tra ricchissima offerta e scarsa domanda.
Dunque, quali sono oggi le condizioni dei lavoratori dello spettacolo dal vivo in Italia? Questo lavoro è sempre di meno persone.
Felici pochi e infelici molti, moltissimi, sempre di più.
Il piatto è misero.
Per cui, nel bene e nel male, anche le briciole fanno rumore.
Vado a concludere, rispondendo ad altre 2 domande correlate.
Quali sono gli obbiettivi prioritari nel 2025? Andrebbe ridiscussa l’indennità di discontinuità perché è stata stravolta e derubricata ad ammortizzatore sociale. Il principio e le caratteristiche attorno a cui molti hanno lavorato per ottenerla a varie latitudini era altro:
il riconoscimento che le nostre professioni non si esauriscono con la prestazione lavorata sul luogo di lavoro, ma cominciano e proseguono con un’infinita porzione di lavoro invisibile (preparazione, studio, aggiornamento). Compensare questo disavanzo stabilendo un tetto massimo di giornate inquadrabili era il nostro obbiettivo comune.
Che ne è dell’ALAS, del riconoscimento di un ammortizzatore sociale pensato finalmente per i lavoratori autonomi?
Come ci è spesso stato ripetuto in audizione da 3 governi di colori diversi: non siete voi artisti a darci l’agenda di lavoro rispetto al vostro settore.
Non vi nego, autocriticamente, che molto tempo nelle trattative in questi cinque anni è stato perso a causa nostra, perché essendo la capacità di ottenere risultati direttamente proporzionale a quello che siamo disposti a sacrificare e perdere, finito il primo lockdown, c’è stato un fuggi-fuggi generale e un disinteresse assordante della maggior parte di noi. Annacquandosi la partecipazione, abbiamo disperso la nostra capacità di esercitare pressione mediatica e lobbing politica sui 3 Ministeri preposti a re-inquadrare il settore spettacolo.
Oggi, nel 2025, siamo una massa di solitudini arrabbiate con un Codice dello Spettacolo lasciato a marcire ad arte.
Il rinnovo dei CCNL scritturati, dipendenti dei teatri e delle cooperative (a patto che si chiarisca in quest’ultimo caso che la natura giuridica della cooperativa non può essere l’alibi o la copertura di pratiche d’impresa discutibili, incoerenti o illecite) è una partita da chiudere nel 2025, ma non risolve tutto perché quel contratto- così articolato e oneroso da rispettare- rimane inevaso dal 73% dello spettacolo dal vivo che non ha le risorse per poterlo onorare.
È un contratto esclusivo. Non di filiera.
Mi ricorda il collega Alessandro Ferrara, che saluto e ringrazio, il regio decreto n.1882 col quale nel 1935 il re Vittorio Emanuele III definisce l’attore come colui che si autodetermina nel suo lavoro.
Dunque, un libro professionista. Non un salariato.
Quasi 100 anni dopo, siamo ancora lì: il nostro non è un lavoro, ma una forma d’autodeterminazione artistico-cultuale di sé stessi.
Quali cambiamenti si propongono per migliorare le condizioni e l’organizzazione del lavoro?
Vedo tre macro-insiemi su cui lavorare:
i diritti e le tutele prima di tutto;
la parità salariale adeguata al costo reale della vita;
la parità di genere sotto tutti i punti di vista. Dirlo non è una frasetta per strizzare l’occhiolino. È un atto di civiltà, in un paese a riguardo arrogantemente incivile, dove si confondono il sesso e la prevaricazione per estro, e la faccia tosta per arte.
A questi tre macro-sistemi corrispondono altrettanti tre ordini di pericoli.
Il primo di natura giuslavoristica. Persiste un vuoto normativo, nella visione binaria italiana (prestazione lavorativa=reddito| disoccupazione=ammortizzatore sociale). Lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi non hanno gli stessi diritti e tutele. Noi siamo in una terza zona, però: possiamo essere dipendenti scritturati a tempo determinato dalla scrittura in un caso, e autonomi a partita IVA su un altro luogo di lavoro. Perciò, o i CCNL contemplano questa atipicità, o resteranno inevasi.
Il secondo pericolo è di natura etica: viviamo nel paese più vecchio del mondo dopo il Giappone (senza essere il Giappone), senatoriale e gerontocratico -dove le corporazioni e consorterie esistono eccome-
in cui il consumo culturale e l’abitudine estetica nel triennio
pre-pandemico era secondo l’Istat pari allo 0%.
Lo spettacolo dal vivo vale lo 0,06% del PIL.
Il terzo e ultimo pericolo siamo tutti noi. A riguardo, permettetemi un aneddoto significativo. Nel 2025 usciranno due film dedicati all’attrice teatrale italiana più famosa nel mondo, la signora Eleonora Duse. Nel 1954, 30 anni dopo che le sue spoglie fossero traslate da Pittsburgh ad Asolo, in provincia di Treviso, dove è tutt’oggi tumulata, venne organizzata una commemorazione di stato della Duse per la quale vennero inviati 700 inviti a tutto il teatro italiano. Risposero appena in quattro.
Nel 2015 è stata denunciato al Ministero lo stato d’incuria e degrado della tomba di Eleonora Duse. Venne lanciato un crowfounding per il quale non è stato raccolto neanche un euro. Questo la dice lunga su chi siamo. Su quanto i nostri lavori sono scritti sull’acqua finchè siamo noi a permetterlo. Siamo noi, sempre impegnati a rincorrere la memoria della parte, la posa al cinema, lo status quo. Siamo noi tutte e tutte diversamente responsabili delle condizioni dello spettacolo da vivo, del suo stato di salute.
E, a riguardo, le responsabilità… cominciano nei sogni.
Ho concluso. Grazie.
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