Brasile: dall’Amazzonia a San Paolo

Appunti teatrali di viaggio | Terza parte

Pubblicato il 10/01/2025 / di / ateatro n. 202

Turismo e spettacolo

Il collegamento fra turismo e spettacolo non è importante solo economicamente: lo spettacolo è un elemento di svago ma può essere lo strumento per una conoscenza più approfondita di un paese, di una città, di una comunità.
Un po’ in tutto il mondo però, con l’eccezione delle mete in cui lo spettacolo è la prima motivazione o costituisce il principale elemento di attrazione per un pubblico di visitatori-spettatori informati e competenti (molti festival, alcune città, alcuni teatri), l’offerta che condividono gli operatori del turismo e quelli dello spettacolo è orientata a una dimensione prevalentemente commerciale e/o a racconti un po’ banalizzati della tradizione. Il visitatore non è considerato a tutti gli effetti uno spettatore e non è informato adeguatamente su quello che una località produce e propone in materia di spettacolo (a prescindere dalla dimensione turistica), ma un consumatore di “esperienze” (termine abusato) spesso artificialmente “autentiche”.
Il Brasile non fa eccezione. Non mi è stato sempre facile scoprire cosa c’era da vedere della produzione teatrale contemporanea (anche nelle principali città), mentre è facile imbattersi in proposte, prevalentemente musicali o “ibride”, decisamente “per turisti”, come quelle cui ho assistito a Alter do Chão, Manaus e Foz do Iguaçu assieme a spettatori quasi tutti brasiliani.
Il turismo in Brasile è infatti prevalentemente domestico: il paese è così grande che conoscerlo è uno dei desideri che coltivano tutti. Partecipare a un carnevale o a una festa tradizionale del nordest per un cittadino di San Paolo, o visitare l’Amazzonia per una famiglia di Rio non è molto meno esotico che per un europeo. I brasiliani tutti però si orientano molto bene nelle tradizioni musicali delle diverse regioni del paese e l’offerta musicale è ampia e – almeno mi è sembrato – prevalentemente di buona qualità, mentre l’offerta teatrale è molto limitata (e/o molto mal comunicata).

L’isola davanti a Alter do Chão sul rio Tapajos

Chorinho e carimbò: ferragosto a Alter do Chão

Capito a ferragosto a Alter do Chão, vicino a Santarem, sul rio Tapajos, quasi alla confluenza con il Rio delle Amazzoni. Il Tapajos è una delle principali vie d’acqua che portano nel cuore del paese e della foresta ed è una sorpresa trovarlo deliziosamente balneabile, con spiagge incontaminate e acqua limpida, e trovarsi in una piccola città decisamente “di villeggiatura”.

Gruppo musicale a Alter do Chão

Anche se è inverno queste sono – come da noi – giornate di feste religiose. Il centro è affollato da brasiliani che arrivano da tutto il paese e, naturalmente, c’è musica in tutti i locali e piccoli complessi di strada in tutti i crocicchi e si balla dappertutto.

La piccola orchestra di chorinho

L’offerta principale prevede in uno slargo nel cuore della città una serata di chorinho, diminutivo di choro: la parola significherebbe “lamento” o “pianto”, ma l’atmosfera è decisamente allegra. Il choro dovrebbe essere un genere preciso, su wikipedia leggo che nasce intorno al 1870 a Rio adattando

con forte influenza dei ritmi di origine africana, il repertorio di danze europee che erano in voga nei salotti dell’élite del XIX secolo, come il valzer, lo scottish e la polca. Da allora, l’universo musicale del choro ha sempre abbracciato diversi ritmi e stili, tra cui polca, valzer, baião, frevo, maxixe e tango brasileiro e ha influenzato in maniera determinante lo sviluppo del samba e della bossa-nova.

Chiedo ad amici occasionali di Brasilia che non vedono l’ora di godersi questa serata di spiegarmi di cosa si tratta, e mi dicono che è… un po’ di tutto. Cioè “tutto” purché orecchiabile e ballabile. In effetti riconosco anch’io qualche motivo (“Brasil lalalala…” per esempio). Sotto il palco ci sono ragazze scatenate e la partecipazione è decisamente intergenerazionale. Nella piccola band dal vivo – musicisti un po’anziani che hanno l’aria di divertirsi molto – riconosco chitarra, flauto, sassofono, percussioni e …mandolino.
Uno spiazzo più largo vicino al mare ospita una festa molto attesa: si mangia, si beve e si balla carimbò, la danza e il genere musicale che si collega più direttamente alle tradizioni dei nativi, per quanto contaminate da influenze afro, molto praticato da queste parti: siamo nello stato del Parà, al confine con l’Amazzonia, la zona del paese dove i discendenti dei nativi sono più numerosi. Le ballerine – anche alcune bambine – hanno ampie gonne colorate che fanno roteare al ritmo dei “tamburi carimbó”.

In questa danza, una donna gettava il suo fazzoletto sul pavimento e il suo partner maschile tentava di recuperarlo usando solo la bocca, ma questo gesto non l’ho mai visto: però è una danza sensuale, non facile (non ci si butta chiunque, come succede di solito) e piuttosto frenetica.

Amazzonia: danze indigene per turisti

Arrivo a Manaus dopo qualche giorno sul Rio Tapajos (anche con un’incursione nella foresta primaria), e tre giorni e tre notti di navigazione sul Rio delle Amazzoni, da Santarem. Ho quindi già visto qualcosa dei grandi fiumi e qualche scorcio di Amazzonia, ma non mi illudo di poter accedere a quella profonda, almeno non in questo viaggio: so di non avere la preparazione, le guide giuste, la professionalità e il tempo. A Manaus, però, l’offerta di “esperienze”, ovvero toccata e fuga di foresta e cultura indigena, è così ampia (anche se non troppo diversificata) che non ti puoi sottrarre. Così anch’io – come tutti i turisti o quasi che arrivano fin qui – mi accontento di una gita di gruppo in visita a una comunità indigena e relativo villaggio, nel comune di Iranduba a non molti chilometri dalla grande città, su un’ansa del Rio Negro. Il programma prevede un momento di spettacolo con musica e danze del gruppo folcloristico della comunità indigena Tuyuka. E’ un gruppo molto numeroso, sono prevalentemente giovani, ma c’è anche qualche anziano, soprattutto fra i musicisti.

Strumenti musicali della comunità indigena Tuyuka in una foto d’epoca

Non so quanto sia rimasto di originale in queste danze e nelle musiche di accompagnamento, che utilizzano percussioni, strumenti a corda e a fiato. Riconosco i lunghi corni che ho già visto nelle foto d’epoca (ma non so come si chiamano). Confesso la mia ignoranza in materia di danze popolari, ma la sequenza dello spettacolo mi sembra che ricordi molto le nostre: il gruppo maschile e quello femminile sono inizialmente separati, poi si incontrano, si formano le coppie e sfilano.
Non so se l’osservazione è corretta, ma mi dico che probabilmente c’è molto di indigeno in alcune espressioni che pensavo di derivazione portoghese: penso alla passione per la quadriglia che ho trovato nell’iconografia delle feste di giugno (a Salvador, Recife, São Luís de Maranhão), come del resto nella passione per le ampie gonne e le giravolte del carimbò. L’impressione si rafforza la mattina dopo, quando mi imbatto in una sequenza di danze folcloristiche nell’atrio del Teatro Amazonas

Manaus, danze folcloristiche nell’atrio del Teatro Amazonas

In Brasile non è facile ricostruire chi ha influenzato chi. Così penso che anche lo spettacolo cui assisto a Iranduba, confezionato per noi turisti (brasiliani e non), sia probabilmente un falso… ma un falso meticcio.
(Sul Teatro Amazonas vedi la prima parte di questi appunti)

Manaus, il Teatro Amazonas

Iranduba: con bradipo con cucciolo (e braccio tatuato)

La lettura di Tristi tropici di Claude Lévi-Straus è stata importante per la preparazione di questo viaggio. Siamo ad anni luce di distanza da quella profondità di osservazione (professionale e umana), ma cerco i collegamenti: la grande capanna in cui ci troviamo per lo spettacolo potrebbe essere la tradizionale “capanna degli uomini” di cui parla Lévi-Strauss e la disposizione delle capanne del villaggio ricorda i suoi disegni. E’ certo tradizionale il disegno del trucco cui mi sottopongo (sul braccio), anche se il significato di quei segni forse non se lo ricorda nessuno. L’offerta del villaggio include anche l’opportunità di interagire con animali selvatici addomesticati (e abbracciare una mamma bradipo con cucciolo è un’esperienza davvero indimenticabile).
Il turismo – si sa – tende a rubare l’anima dei luoghi: le persone ti mostrano quello che ti aspetti e desideri da loro, e quello che puoi capire, certo non quello che sono. Mi vergogno un po’ di esserne complice, ma osservo che i ragazzi impegnati nello spettacolo sono molto concentrati e professionali, direi convinti, e penso che la comunità vive di queste attività.

Iranduba: alberi della gomma (seringueiras) e vecchi impianti per la raccolta e prima lavorazione

Uscendo dal villaggio, un gruppo di alberi della gomma ancora incisi e una specie di fornace diroccata ricordano lo sfruttamento dei seringueiros. Penso a Chico Mendez e al suo omicidio. Anche il turismo è sfruttamento, ma forse è meglio.
Riflessione ovvia ma non troppo. Piuttosto che la riproposta della tradizione, per valorizzare e rappresentare le culture indigene, sia nel tessuto culturale del paese sia a livello internazionale, o anche solo nell’incontro con i visitatori stranieri (almeno quelli curiosi), è decisamente più efficace la creazione contemporanea.
A São Luís do Maranhão ho incrociato per caso e apprezzato molto la sfilata di moda amazzonica di tre giovani stilisti (vedi la seconda parte di questi appunti di viaggio).

Brasilia, la Biennale di San Paolo in tournée (al MAB, Museo d’arte di Brasila), opere del collettivo mahku

Qualche giorno dopo il passaggio in Amazzonia, a Brasilia mi imbatto nella Biennale di San Paolo in tournée. La tensione ambientalista è l’elemento che accomuna gli artisti esposti, fra questi il collettivo mahku (che ho incrociato, poco prima della partenza, alla Biennale di Venezia 2024, curata dal brasiliano Adriano Pedrosa).
E’ un movimento artistico, sociale, politico, che pratica un attivismo ambientale radicale contro la deforestazione. Si ispira ai canti sacri e alle mitologie ed è guidato, molto concretamente, dal motto “vender tela para comprar terra”. Si discute molto se un eccesso di motivazione ideologica non danneggi l’arte: a me le opere degli artisti mahku – e di molti altri visti a Brasilia: indigeni di tutto il mondo – sembrano notevoli. L’arte contemporanea, in quanto arte, è un’arma sempre molto efficace per le minoranze.

Brasilia, la Biennale di San Paolo in tournée (al MAB, Museo d’arte di Brasila), opere del collettivo mahku

Nel confronto delude un po’ invece, sempre a Brasilia, il Memoriale dei Popoli Indigeni, interessante, ma piuttosto prevedibile, un po’ povero – e pochissimo visitato – nel bellissimo edificio tenda di Oscar Niemeyer.

Prima di lasciare l’Amazzonia, una segnalazione fuori tema: la cucina locale è davvero notevole, soprattutto sono buonissimi certi grossi pesci di fiume che si trovano solo qui, arrosto o in umido (mi ricordo solo un nome: pirarucu), e poi la frutta e i relativi succhi. Ultimamente va molto di moda l’açaí (leggi assaì) che si trova anche in Italia: è in corso un lancio commerciale internazionale (non so quali possano essere le ricadute ambientali). Come salsa è un po’ strano, ma come dessert-gelato è delizioso: immaginatevi una crema densa al cioccolato, ma che sa di mirtillo… ipercalorico, energetico, dicono che coltivato a tappeto sconfiggerebbe la fame nel mondo.

Mercato del pesce a Santarem

Bacche di açaí (leggi assaì)

Foz do Iguaçu, la storia fa spettacolo

Le cateratte di Foz do Iguaçu nel Paranà sono uno spettacolo unico. Chi ha visto il film The Mission se le ricorda almeno quanto le musiche di Ennio Morricone (mentre potrebbe aver dimenticato il nome del regista Roland Joffé).

Foz do Iguaçu: la ricostruzione di una missione gesuitica al Marco da Tres Fronteras

Ma essere lì dove si arrampicava padre Gabriel/Jeremy Irons è l’ennesima “esperienza” indimenticabile.

Foz do Iguaçu, immagini da “The Mission” al Marco das tres fronteras

Foz do Iguaçu, The Mission al Marco das Tres Fronteras

Il Marco das Tres Fronteras

Il film, che è del 1986, è importante nell’immaginario intorno a questi luoghi.
L’immagine del manifesto (con Robert De Niro che sguaina la spada) e altri fotogrammi sono riprodotti anche in un luogo particolarmente simbolico, la seconda meta turistica della città dopo le cascate: il Marco das Tres Fronteras, dove si incrociano due fiumi, Iguaçu e Paraná, e un obelisco segna il punto dove si incontrano Brasile, Paraguay e Argentina. La storia che si racconta in The Mission non si svolge esattamente qua, ma a qualche decina di chilometri, in Paraguay.
Questo però è un luogo simbolico e il ruolo dei gesuiti nella difesa degli indigeni contro i bandeirantes è un fatto storico.
I bandeirantes sono bianchi riuniti in bande alla ricerca di terre e ricchezze da sfruttare e indigeni da schiavizzare: furono almeno 600.000 i guarani uccisi o schiavizzati nel territorio fra i due fiumi.
Sono in effetti quanto di più vergognoso si ricordi nella conquista coloniale del Brasile, ma sono anche parte dell’epopea fondativa: si trovano ovunque piazze e monumenti che li ricordano, come quello colossale a San Paolo.

San Paolo, monumento ai Bandeirantes

Stefan Zweig in Brasile. Terra del futuro ha pagine entusiaste sulla funzione dei gesuiti: senza di loro -ordine religioso giovane, sano, colto, fortemente motivato, pragmatico e pieno di energie – il Brasile non esisterebbe, o meglio non si sarebbe affermata l’idea di uno spazio vasto e vergine dove realizzare l’esperimento di una società multietnica, che ne costituisce il fattore identitario più originale.
La Storia, ma una Storia che più semplificata non si può, è il filo conduttore dello spettacolo compreso nel prezzo d’ingresso al Marco das Tres Fronteras. Lo spettacolo costituisce una delle offerte del luogo, oltre al piccolo museo storico, al negozio di souvenir, alla missione ricostruita, ai chioschi di cibo e bevande varie, al ristorante con danze, agli spazi gioco per bambini e naturalmente alla vista sui fiumi.

Lo spettacolo al Marco das Tres Fronteras

Gli spettatori, numerosissimi, sono disposti in cerchio intorno all’obelisco. Un attore-presentatore racconta in portoghese brasiliano (anche se qui gli stranieri non mancano, le parole non sono poi così rilevanti): qui c’erano gli indigeni guarani (danza con costumi indigeni), poi sono arrivati i portoghesi (parata con costumi europei del Settecento), poi si è formato il Brasile, quindi sequenza di danze (un po’ country, un po’ afro, un po’ meticce).

Terminati i pretesti storici, semplicemente si alternano i numeri di danza e circensi, alcuni davvero spettacolari, tra cui un gruppo di tamburi e un assolo con fruste (immagino che abbia un nome tecnico…). Alla fine chi vuole è chiamato a partecipare a un simpatico girotondo. Il pubblico mostra di gradire molto lo spettacolo, che mi sembra in effetti rappresentativo del genere “per turisti”: occorre un pretesto per creare un filo conduttore minimo che colleghi scene brevi e numeri riconducibili a generi diversi. Un varietà, insomma.

Divagazione, ancora fuori tema, con una (doppia) curiosità. A Foz do Iguaçu le cateratte non sono la sola cosa fuori scala: la diga idroelettrica di Itaipu sul fiume Paranà è la terza più grande del mondo (le prime due sono in Cina). Per realizzarla è stato evacuato un territorio molto vasto e sono stati distrutti una ventina di villaggi, ma fornisce energia a tutto l’Uruguay e a buona parte del Brasile. Poteva andare peggio, avrebbero potuto farta sull’Iguaçu, all’altezza delle cascate …o meglio, non avrebbero potuto perché la zona è stata per tempo e è tuttora protetta grazie a Alberto Santos-Dumont (1873–1932), pioniere dell’aviazione brasiliana, amatissimo da tutti i brasiliani, che dopo una visita alle cateratte già nel 1916 convinse le autorità e farne un parco protetto.

Foz do Iguaçu, la diga idroelettrica di Itaipu

Brasilia: utopia e distopia

Il centro di Brasilia visto dalla torre della televisione

Brasilia è sconcertante, affascina e lascia perplessi.
Come si fonda una città ex novo e perché? E nel mezzo del nulla?
A monte c’è un presidente visionario, Juscelino Kubitschek, e una precisa scelta politica: l’idea di una capitale geograficamente equidistante dai grandi centri del paese, che rafforzasse lo Stato federale, era prevista dalla Costituzione, ma più come formalità che come obiettivo concreto.

Brasilia: il Parlamento (edificio di Oscar Niemeyer)

Un’impresa titanica, all’insegna della modernità, serve per accompagnare l’affermazione internazionale.
Siamo negli anni Cinquanta: utopia, ottimismo, calcio, bossa nova, e crescita economica… Il Brasile non vuole essere solo un paese grande, ma un grande paese.
Poi ci sono gli “autori” della città: l’architetto (Oscar Niemeyer) e l’urbanista (Lucio Costa) altrettanto visionari, geniali, fortemente motivati sul piano sociale… e un po’ folli.
Il risultato è Brasilia, costruita in pochi anni, inaugurata nel 1960.
Quattro anni dopo arriva la dittatura militare.

Il Palazzo Itemarai, Ministero degli Esteri (edificio di Oscar Niemeyer)

I palazzi del potere sono imponenti e insieme leggeri, trasparenti, con interni-esterni integrati, linee curve, forme naturali ma fortemente simboliche.
Alcuni sono davvero magnifici (quasi tutti opera dell’architetto Oscar Niemeyer, con Roberto Burle Marx per il paesaggio).
L’impianto urbanistico parte dall’immensa piazza dei Tre Poteri ed è diviso per settori funzionali (dopo l’infilata dei ministeri, le diverse zone: alberghiera, commerciale, bancaria, svago eccetera).

Il Festival di Jazz, fra la Biblioteca Nazionale e il Museo d’Arte di Brasilia

Nella pianta originale (non del tutto realizzata), si prevedevano due braccia con isolati residenziali (quadras), tutti uguali e funzionali: è qui che si comprende meglio la visione utopistica socialista di Costa e Niemeyer (che è stato per tutta la vita un militante del Partito Comunista Brasiliano). Oggi quei quartieri bastano per una parte minima dei cittadini, che per lo più abitano nelle città satellite a una ventina di chilometri dal centro.
Ma l’insieme è autocelebrativo: più hybris che utopia. Le distanze sono davvero assurde, in più nei giorni che trascorro qui l’aria è estremamente secca, il terreno arido (non piove da quattro mesi e non c’è acqua per bagnare i giardini), la città non è gradevole e mi sembra invivibile.
Dal punto di vista europeo almeno: nel weekend il centro è quasi deserto, la sera però il lago (artificiale) e i ristoranti sulle rive sono molto affollati. I residenti con cui riesco a scambiare qualche battuta mi dicono che si vive bene e sono affezionati alla città. Un tassista anziano – che era qui negli anni Sessanta – mi racconta della costruzione della città come di un’epopea. Anche i turisti – quasi tutti brasiliani in visita al cuore del potere – sono orgogliosi della loro capitale, anche un po’ emozionati. Come se tutti partecipassero al “mito” Brasilia.
Come tutti i turisti e i visitatori, alloggio nella zona degli alberghi. C’è qualche ristorante con musica, è un fine settimana e nei pressi dei musei c’è un festival jazz, molto affollato (lunga coda per accedere). Qui in centro teatri non ce ne sono: c’è più vita, mi dicono, negli isolati periferici e nelle città satellite.

Brasilia, il Centro Culturale del Banco del Brasile

Non lontano dal lago però (ma non a distanza pedonale: per fortuna c’è Uber), c’è il centro culturale del Banco del Brasile: il più importante della città con spazi espositivi, un grande parco con sculture, una multisala cinematografica e un (piccolo) teatro.

L’installazione a terra e sulla facciata è parte della mostra “Naturaleza urbana”

“Ipsilon”, manifesto Dall’utopia urbanistica alla distopia teatrale

Lo spettacolo in programmazione è Ipsilon, un monologo che per la stampa è tra gli eventi teatrali dell’anno. Mi metto in lista d’attesa ed entro. E’ un testo contemporaneo, autore e regista Guylherme Almeida, protagonista Juliana Plasmo. La protagonista Carolyna (con la Y), è un’astronauta che torna sulla terra con un kit di sopravvivenza sbagliato e scopre che la cittadina in cui è nata è stata ridotta a una discarica di pneumatici. Durante tutto lo spettacolo ci si chiede se riuscirà a sopravvivere, costretta tra fumo, pneumatici e abbandono. A una prima lettura la metafora sembra ambientale, fin troppo semplice.
Ma i materiali online, le dichiarazioni e interviste del regista, indicano riferimenti personali tragici e sociali, e suggeriscono altre chiavi di lettura, esistenziali e sociali. Lo spettacolo è ispirato all’omicidio del padre dell’autore, ucciso e bruciato vivo in un deposito di penumatici. Da questo episodio, la riflessione si allarga alle esperienze di emarginazione, a Brasilia e Recife. Per la verità non sono stata in grado di cogliere questi riferimenti (ma ho sicuramente perso passaggi e sfumature del testo), a parte il collegamento con la scena, che è molto bella e molto ben illuminata: una montagna di penumatici in cui la protagonista si muove con una certa difficoltà e che nel corso dello spettacolo sposta e riposiziona.

Mi arriva un senso di solitudine e insicurezza, e di estremo degrado. Juliana Plasmo ha presenza scenica. Fasciata da un abito nero in pelle un po’ sbrindellato forse è un po’ troppo rockstar, ma ha una bella voce calda e capace di convincerci della sua ansia.

Guylherme de Almeida è un produttore culturale di Brasilia, ha curato eventi importanti come l’Anniversario di Brasilia, il Capodanno di Brasilia, il Festival Iberoamericano delle Arti Integrate. E’ un “artista nero, periferico” e in questo spettacolo esordisce nella drammaturgia e nella regia teatrale, per affrontare e rielaborare il lutto per la morte del padre. Come sempre accade qui, alla fine degli spettacoli Juliana e Guylherme dicono qualche parola sulla produzione e salutano. Lui è molto giovane e timido, diverso da quello che ti aspetteresti dal profilo biografico.

San Paolo: Sampa per gli amici

Sulla via di San Paolo passo fra l’altro per Cuiaba (Mato Grosso) e Florianopolis (Santa Catarina), ma anche in queste due città – capitali di Stato – non sono fortunata con gli spettacoli. A Cuiaba il mio albergo è proprio accanto al teatro della città, nel mese di agosto c’è un festival con una selezione di proposte per adulti e ragazzi… ma non nei giorni in cui sono in città. A Florianopolis incrocio un amico di amici italiani, Vicente, che insegna all’Università e fa teatro in un carcere femminile, mi dà indicazioni molto utili per San Paolo… ma pare che qui non ci sia proprio niente da vedere.
San Paolo è il cuore della produzione teatrale brasiliana, e ci mancherebbe che con 11,45 milioni di abitanti non ci siano spettacoli da vedere. Quelli che mi hanno suggerito però sono gli stessi che trovo on line, e anche qui ho l’impressione che l’offerta sia piuttosto limitata, almeno l’offerta di teatro “da palco” (e nel confronto con quella milanese).
Questo è un ritorno, il mio viaggio è partito da San Paolo due mesi fa, questa volta ci sto cinque giorni, il confronto con le altre città visitate rende le mie impressioni più sfaccettate e complesse. Non ho ancora un’idea precisa, è una di quelle città in cui senti che dovresti restarci a lungo e con calma, e forse potrebbe catturarti. Come nella canzone Sampa di Caetano Veloso, che racconta di un colpo di fulmine ritardato.

San Paolo: l’incrocio fra Ipiranga e Avenida São João

Alguma coisa acontece no meu coração
Que só quando cruza a Ipiranga e a avenida São João
É que quando eu cheguei por aqui eu nada entendi
Da dura poesia concreta de tuas esquinas
Da deselegância discreta de tuas meninas
(…)
Quando eu te encarei frente a frente não vi o meu rosto
Chamei de mau gosto o que vi, de mau gosto, mau gosto
É que Narciso acha feio o que não é espelho
E à mente apavora o que ainda não é mesmo velho
Nada do que não era antes quando não somos mutantes

Qualcosa è successo nel mio cuore di colpo,
lì dove si incrociano le vie Ipiranga e São João
Il fatto è che quando sono arrivato qui non ho capito niente
Dalla dura poesia concreta dei tuoi angoli
Della discreta ineleganza delle tue ragazze
(…)
Quando ti ho guardato faccia a faccia non ho visto il mio viso
Ho chiamato cattivo gusto quello che ho visto, cattivo gusto, cattivo gusto
Il fatto è che Narciso trova brutto tutto ciò che non è uno specchio.
E la mente è terrorizzata da ciò che non è ancora vecchio
Niente che non ci fosse prima, quando non siamo disposti a cambiare

Quell’incrocio non doveva avere essere diverso dal momento in cui è stata scritta questa canzone, e non ha niente di speciale neppure oggi, ma la canzone ti dice che San Paolo forse non la capisci subito. E mi piace soprattutto perché ti mette in guardia dall’osservare il mondo cercando quello che ti piace, quello che tu sei e che già sai.
Ma c’è una strada che non mi sarei aspettata – non così – e che mi ha catturato subito: è la Avenida Paulista, un’incredibile corridoio culturale (oltre che cuore economico del paese). Alcuni edifici sono geniali, molti sorprendenti, alcuni francamente brutti (anche fra i più famosi). Nell’arco di tre chilometri c’è un concentrato di musei, istituzioni culturali pubbliche e private, cinema, teatri… oltre a negozi e centri commerciali naturalmente e un parco: tutto insieme nella stessa strada non lo trovi neppure a New York. E’ sorprendente nei giorni feriali, di giorno e di sera, e la domenica, quando è chiusa al traffico: l’atmosfera è tranquilla e festosa, la gente, che va molto di fretta negli altri giorni (non così nel resto del paese), passeggia, ascolta musica, balla, fa propaganda elettorale.

Domenica sulla Avenida Paulista

Il centro culturale SESI-Sp sulla Avenida Paulista

Cechov sulla Paulista

Al Teatro Fiesp del SESI-SP (SESI sta per Servizio Sociale dell’Industria e Fiesp per Federazione delle Industrie dello Stato di San Paolo), uno degli edifici iconici della Avenida Paulista, è in programmazione uno spettacolo ispirato al Gabbiano di Cechov, Ao vivo. Dentro da cabeça de alguém (Dal vivo. Nella testa di qualcuno), con la Companhia Brasileira de Teatro.
Il Centro Culturale Fiesp, una delle attività di SESI-SP, “ha una missione fondamentale nella promozione della cultura e delle arti offrendo una ampia varietà di attività e programmi accessibili a tutto il pubblico”.

Il manifesto per i sessant’anni del Teatro Fiesp

Tramite partenariati con artisti, istituzioni culturali e educative, il SESI-SP e il Centro Cultural Fiesp lavorano insieme “per democratizzare l’accesso alla cultura, stimolare la creatività e promuovere lo sviluppo personale e sociale”.
Un po’ come i centri CESC, di cui abbiamo già parlato e su cui torneremo, SESI persegue con una gestione privata-associativa una funzione pubblica.
Per approfondire leggi qua.

Ao vivo, Companhia Brasileira de Teatro, testo e regia di Marcio Abreu, al centro Renata Sorrah

Ao vivo ha uno spazio particolarmente importante nella programmazione: starà in scena più di tre mesi, fino al 1° dicembre (anche se solo venerdì, sabato e domenica e con qualche interruzione, sono circa 40 repliche) e precede le celebrazioni per il sessantesimo anniversario del teatro, per cui si prepara un anno speciale. Io assisto a una delle prime rappresentazioni, è gratuita su prenotazione, affollata e con posti non numerati (ma come per tutte le attività culturali, e anche per i trasporti, approfitto della corsia preferenziale riservata agli anziani per legge federale ☺ ).
La Companhia Brasileira de Teatro è un collettivo di artisti provenienti da varie regioni del paese, fondato dal drammaturgo e regista Marcio Abreu e attivo dal 2000. La sua ricerca è focalizzata su varie forme di scrittura contemporanea, creazioni originali, ma anche dialoghi creativi con i classici, e autori inediti in Brasile. Con Cechov si è misurata nel 2019, con un adattamento da Platonov.
Per approfondire leggi qua.
Lo spettacolo, testo e regia di Marcio Abreu, è costruito intorno ai ricordi (reali) e a quello che passa “nella testa” di un’attrice, Renata Sorrah, e in quelle di un gruppo molto affiatato di attori.
Il gabbiano è interpretato secondo i meccanismi del teatro nel teatro: una compagnia che mette in scena Cechov… Soluzione certo non nuovissima ma funzionale: per l’identificazione dell’attrice protagonista (intorno a cui ruota tutto lo spettacolo) con il personaggio di Arkadina e perché gli ampi passaggi originali del testo attivano il flusso di coscienza che caratterizza lo spettacolo.

I ricordi e le riflessioni di Renata-Arkadina riguardano i personaggi che ha interpretato, il senso del teatro, gli incontri della vita, il tempo passato e il tempo futuro. Lo stesso vale per gli assoli degli altri attori, non so quanto a partire da ricordi, sogni o esperienze di ciascuno: la testimonianza dell’attrice/cantante trans e dell’attore che interpreta un personaggio drag sono state particolarmente applaudite dal pubblico. C’è un momento di grande sintonia con la platea quando Renata legge un lungo elenco di fatti degli ultimi quindici-vent’anni (come l’impeachment di Dilma Rousseff o la morte di Amy Winehouse): la memoria e i sentimenti collettivi catturano il pubblico molto più delle riflessioni sul senso del teatro.

Marcio Abreu e Renata Sorrah

Un’operazione originale, uno spettacolo interessante e molto ben interpretato anche se – l’ho pensato anche per una recente edizione italiana del Gabbiano – Cechov è più forte di tutti i possibili adattamenti. E’ difficile andare oltre, tanto a livello di senso che di linguaggio.

Un incontro nel quartiere Bras: la compagnia O Grito de Teatro alla Casa Restaura-me

Bras è un quartiere non molto distante dal centro (in rapporto alle dimensioni di San Paolo), incredibilmente affollato e con un traffico particolarmente caotico dovuto alla grande concentrazione di attività commerciali, vendita di abbigliamento all’ingrosso e al dettaglio (anche se nella prima parte del Novecento era soprattutto una zona industriale).
Qui, presso la Casa Restaura-me, un centro a servizio della popolazione senza dimora, incontro O Grito de Teatro, un gruppo che sviluppa esperienze artistiche e teatrali con la gente del quartiere, in particolare con le persone in condizione di vulnerabilità sociale che frequentano la Casa.
Studi governativi basati sui rilevamenti anagrafici stimavano la popolazione dei senza dimora in Brasile nel 2023 in 281.000 persone (su 211 milioni e 500.000 abitanti). Secondo uno studio recentemente pubblicato dall’Università Federale di Minas Gerais (UFMG), il numero è cresciuto del 25% nel 2024. Solo lo Stato di San Paolo conta il 43% del totale, ovvero 139.800 persone. Dal dicembre 2023 il governo federale, sensibilizzato anche dal movimento Povo da Rua, ha varato un piano per cercare di arginare il fenomeno, ma a quanto pare senza risultati. (Sono numeri impressionanti, anche se noi siamo messi molto peggio: in Italia al 31 dicembre 2021 i senza dimora, secondo dati Istat, erano 96.197 su 59 milioni di abitanti).
Per approfondire leggi qua.

La Casa Restaura-me è una vecchia struttura industriale, attaccata alla ferrovia e solo parzialmente ristrutturata, ma molto pulita e funzionale. Ospita circa 450 ospiti al giorno: ci sono orti, mense, lavanderie, naturalmente docce. E’ un progetto senza fine di lucro, collegato alla Aliança de Misericórdia, che accoglie le persone di strada offrendo “orientamento spirituale e appoggio materiale”, oltre a assistenza sociale e giuridica e ai servizi che aiutano chi lo desidera a uscire dalla situazione di strada.
Lo spazio all’interno della Casa dove O Grito è residente dal 2015 è accogliente e spazioso: è la sede ideale sia per l’attività a vocazione sociale e artistico pedagogica, sia produttiva. Qui sono stati organizzati corsi di teatro, laboratori, stagioni e sono stati prodotti cinque spettacoli (oltre alla ripresa di quelli in repertorio).

Il gruppo, che è nato nel 2003, è composto da sei operatori formati in arte e teatro all’Istituto d’arte dell’UNESP (l’Università di Stato di San Paolo), ciascuno ha sviluppato esperienze e competenze specifiche, e tutti si occupano anche della gestione dello spazio. Si aggregano collaboratori esterni e partner per progetti speciali o tecniche particolari.
Roberto Morettho, il regista e drammaturgo del gruppo, mi parla degli interventi espressamente dedicati agli adulti ospiti alla Casa Restaura-me e nel quartiere di Bras. Sono semplici, ma molto meditati, ne segnalo qualcuno:

  • stimolare il racconto di storie (o della propria storia) mentre si mangia una fetta di torta e si beve il caffè;
  • disegnare la “mappa degli affetti” tracciando percorsi nel quartiere, e confrontarsi su scelte e emozioni;
  • laboratori di creazione di maschere: gli ospiti della casa sono invitati a prendere i calchi dei loro volti, dipingere le maschere secondo i loro sentimenti e raccontarle;
  • a partire dall’ esperienza di coloro che vivono a Casa Restaura-me, si è investigata la precarietà del lavoro attraverso il teatro epico, la gentrificazione del quartiere attraverso il teatro di strada (il progetto si intitola “Memorie di una città precaria”);
  • per la realizzazione dello spettacolo Diana, Luana è stato coinvolto un rifugio per bambini senza casa e i bambini stessi sono stati coinvolti nella creazione (il lavoro con i bambini di strada è forse quello che in questo momento coinvolge di più il gruppo).

L’attività per adulti (sia esterni sia interni alla Casa) ha visto negli anni l’organizzazione di corsi e laboratori molto partecipati, su ambiti e tecniche varie, come la costruzione e la manipolazione di marionette, la creazione e confezione di scene, costumi e maschere, scrittura creativa, danze popolari e i laboratori teatrali veri e propri (giochi teatrali e improvvisazione, teatro dell’oppresso, teatro di narrazione, teatro epico, teatro di strada e itinerante).

La compagnia O grito do teatro: Maurício, Fúlvio, Júnia, Roberto, Samira, Rodrigo, Wilson

Dioniso e Bumba Meu Boi

Compagnia o Grito, Menino Deus Dioniso (ph. Roberto Morettho)

Non ho visto uno spettacolo completo del gruppo O Grito, ma una prova per la ripresa di Menino Deus Dioniso, uno spettacolo per ragazzi del 2014 che ha ancora qualche opportunità in tournée. E’ la storia di un bambino, Tonino, che – rimasto senza padre – da un piccolo centro di campagna del nordest arriva nella grande città alla ricerca del suo padrino. Tonino crede che padre e padrino abbiano fatto un voto: realizzare nella città la festa di Bumba Meu Boi. Farà di tutto perché il padrino mantenga la promessa. Ingenuo e spaesato ma determinato, il piccolo Toninho attraverserà avventure e difficoltà, aiutato da una bambina coraggiosa e da un aiutante magico.
Lo spettacolo parla di differenze culturali fra città e campagna, nordest e sud del paese, del rapporto con gli adulti che non mantengono le promesse, di delusione e forza di volontà, e anche di questa festa così importante per la gente del Maranhão, cui la città è del tutto indifferente (e infatti i bambini della città non la conoscono). La storia è piena di colpi di scena, di personaggi da amare e da temere, tutte cose che di certo i bambini amano, e che ha catturato anche me durante la prova.

Compagnia o Grito, Menino Deus Dioniso (ph. Roberto Morettho)

Mi ha incuriosito anche la scelta di valorizzare in uno spettacolo per bambini la festa di Bumba Meu Boi: l’avevo scoperta a São Luís do Maranhão, e ne ho parlato nella seconda parte di questi appunti. È una delle espressioni più affascinanti e originali di cultura popolare che ha saputo inventare questo paese, rappresentativa del meticciato, del rapporto fra città e campagna, di religiosità e sincretismo.
Gli operatori del Grito sono studiosi e appassionati di Bumba Meu Boi e sono andati oltre nella riflessione: grazie a un periodo di ricerca e scambio in Grecia, hanno trovato affinità suggestive fra la festa brasiliana e il mito della nascita, morte e resurrezione di Dioniso (e le ritualità connesse). L’intuizione ha lasciato traccia quasi solo nel titolo, ma è stata molto importante nella costruzione dello spettacolo.

Prossimamente in Italia

Se la compagnia O Grito avrà conferma di un finanziamento del governo brasiliano dedicato agli scambi culturali, sarà in Italia nella prima metà di luglio, per un periodo di lavoro con i Cantieri Meticci di Bologna: l’obiettivo è promuovere e diffondere metodologie artistiche, teatrali e sociali orientate all’inclusione, incentivando lo scambio di pratiche culturali fra i membri delle due compagnie. O Grito lavorerà con il pubblico socialmente vulnerabile di Bologna e ci saranno interventi teatrali conclusivi, realizzati congiuntamente.
La compagnia è interessata ad allargare lo scambio di esperienze – tanto a livello teorico che pratico – anche con altre realtà in Italia e a presentare lo spettacolo Diana, Luana, dedicato ai bambini di strada.

La dura vita dei gruppi teatrali a San Paolo

Devo ringraziare Roberto Morettho del Grito per le informazioni sul sistema teatrale brasiliano e per le indicazioni che mi hanno permesso di approfondire le forme di sostegno pubblico e la realtà del teatro di gruppo a San Paolo.
Nell’ottobre 2023 è uscito il libro Il teatro di gruppo in tempi di riqualificazione: creazioni collettive, sentimenti e manifestazioni tecniche nello Stato di San Paolo, la seconda parte di una mappatura molto accurata sulla produzione teatrale paulista curata da Selo Lucias e pubblicata dalla Associação dos Artistas Amigos da Praça (ADAAP), l’organizzazione responsabile della Escola de Teatro – Centro de Formação das Artes do Palco, che è un’istituzione della Instituição da Secretaria da Cultura, Economia e Indústria Criativas do Estado de São Paulo (Segreteria per la Cultura, l’Economia e le Industrie Creative dello Stato di San Paolo, un dettaglio che sottolinea il livello istituzionale dell’iniziativa).
La prima parte della ricerca, pubblicata nel 2021 si focalizzava sulla grande San Paolo, mentre questa seconda pubblicazione si concentra sull’interno e sulla costa dello Stato. Ha coinvolto 50 ricercatori per descrivere la storia, i processi creativi e i punti di riferimento estetici e pedagogici di 335 gruppi. Si annuncia una terza fase della ricerca per estendere la mappatura alle capitali di tutti gli Stati del Brasile.
Per molti di questi gruppi, nati in tempi diversi, il linguaggio teatrale è il punto di partenza per esperienze sociali. Secondo il professor Alexandre Mate, che ha curato il testo introduttivo, i collettivi non si formano per montare uno spettacolo ma a partire da strategie per approfondire il rapporto con il pubblico, attuando processi formativi interni che devono collegare questioni e aspetti etici, tecnici, pedagogici, politici ed estetici.
La ricerca è stata condotta in un periodo difficile per le compagnie teatrali, nei momenti critici della pandemia, fra difficoltà tecniche ed economiche (che in Brasile non sono state compensate da sostegni pubblici), e la temporanea migrazione al teatro digitale.
Per approfondire leggi qua.
Gli anni di Bolsonaro sono stati particolarmente difficili per il teatro. Ha abolito il Ministero della Cultura, i finanziamenti sono stati drasticamente ridimensionati. Il sostegno ai gruppi non arriva dallo Stato federale, ma dalle amministrazioni locali, dal Comune e dallo Stato con le leggi per la promozione del teatro, della danza e della cultura periferica. Il sistema dei bandi e dei premi finisce per perpetuare una cronica precarietà: dei 250 gruppi presenti nel 2020 nella grande San Paolo non è facile sapere quanti siano attivi oggi.
Un punto di riferimento per la loro attività (artistica e pedagogica) erano e sono i Centri Educativi Unificati-CEU, creati da Marta Suplicy, politica carismatica del partito dei lavoratori, dal 2001 al 2004 sindaco di San Paolo. Già durante il suo mandato, fra il 2003 e il 2005, erano stati aperti 21 centri in zone disagiate della periferia. Oggi sono 58 e, oltre a svolgere il ruolo di istituzione educativa, sono spazi a disposizione delle comunità e sono nati per offrire servizi e attività extrascolastiche, come teatro e cinema oltre ad attività sportive.
Per approfondimenti leggi qua.
Il Comune di San Paolo è sempre più orientato all’esternazionalizzazione dei CEU, ovvero ad affidarne la gestione a organizzazioni private esterne all’amministrazione. Alcuni affidamenti sono stati attuati, altri sono in corso. L’effetto è una frammentazione della politica culturale in periferia e uno spostamento verso attività e programmazioni orientate al mercato (orientamento che, ci dice Roberto, ha già ridimensionato e sta riducendo molto la presenza dei gruppi).
Ricordo infine che a San Paolo, fra centro e area metropolitana, sono attive 25 sedi SESC, fra cui il famoso SESC Pompeia, progettato da Lina Bo Bardi (ne ho già parlato nella prima parte di questi appunti)
Sono gli spazi meglio promossi e organizzati ma anche i SESC sono in difficoltà e tendono a ridimensionare le programmazioni e ridurre i compensi agli artisti.
Certo che 58 CEU e 25 CESC, quindi più di 80 centri senza scopo di lucro e con finalità pubbliche, anche in una città grande come San Paolo, sono (o potrebbero essere) una rete formidabile. A questi si aggiungono teatri prestigiosi come il Teatro Municipale, auditorium pubblici e privati e numerosi teatri privati, centri culturali e locali per spettacolo: tripadvisor ne elenca 180, mettendo un po’ tutto assieme, compresi alcuni SESC, ma non i CEU.

I SESC, un modello di welfare sportivo e culturale

Ho già incontrato i SESC in giro per il paese, ma mi rendo conto meglio della complessità del progetto visitando il Pompeia.
Al di là della genialità, originalità e grandiosità del progetto di Lina Bo Bardi, sia per il recupero delle strutture industriali sia per l’edificio realizzato ex novo (effettivamente “brutale”, e può anche non piacere), le opportunità e i servizi che sono concentrati qui corrispondono a una visione e a un modello di welfare (pubblico-privato) che potrebbero dare molti spunti alle nostre politiche per le periferie.

San Paolo, il SESC Pompeia progettato da Lina Bo Bardi

San Paolo, il SESC Pompeia progettato da Lina Bo Bardi

Il SESC (Serviço Social do Comércio) fu creato nel 1946 per offrire servizi ai dipendenti del commercio e ai loro familiari, ma con il tempo è stato aperto a tutti e riunisce nelle stesse strutture servizi di assistenza sanitaria, formazione, attività culturale e per il tempo libero e impianti sportivi.
Al SESC Pompeia trovo spazi per laboratori (e molti sono in corso: rilegatoria, stampa, arte…), palestre con corsi di ginnastica, più piscine di cui una olimpionica, spazi gioco per bambini, naturalmente un ristorante…

Non riesco a entrare nel teatro grande – che pare sia molto bello – perché è in corso un allestimento, ma nell’enorme piazza coperta, dove gli spazi sono flessibili e diverse attività possono svolgersi in contemporanea, vedo uno spettacolo per bambini e per tutti, Il diario delle due biciclette del gruppo di Ângelo Madureira e Ana Catarina Vieira. Lavorano da molti anni assieme su meticciato, colonizzazione e identità, facendo coesistere due formazioni distinte: Ângelo, danza popolare, Ana Catarina, balletto classico.
È sabato pomeriggio e l’ingresso è gratuito. Leggo sul sito del Comune che

i tratta di uno spettacolo interattivo, partecipativo, contemplativo e relazionale con musica propria, alcuni momenti suonati dal vivo, con testi musicali educativi e formativi con l’obiettivo principale di condividere la conoscenza, recuperare l’importanza della danza nella società, il suo ruolo di promozione nell’esercizio della cittadinanza e il suo rapporto intrinseco con la comunità, rompendo con il pensiero stigmatizzato con cui la danza contemporanea viene percepita dal pubblico.

Lo spettacolo è molto godibile. I due attori immaginano un giro in bicicletta per il paese, in cui incontrano diverse tradizioni e le mostrano ai bambini, che si fanno volentieri coinvolgere (numerosi i presenti, anche molto piccoli). Mi sono detta: “E’ proprio una bella occasione per un ripasso e l’ultima possibilità per capire le differenze fra samba, forrò, frevo e carimbò” …ma non c’è niente da fare, penso di essere un caso disperato.

SESC Pompea, Il Diario delle due biciclette

La compagnia più longeva e il teatro più bello del mondo: Teat(r)o Oficina

L’incudine come logoIl finale dei miei appunti teatrali di viaggio lo dedico alla mitica Companhia Teat(r)o Oficina Uzyna Uzona (e il teatro omonimo), fondata nel 1958 (fra gli altri) da José Celso Martinez Corrêa, “Zé Celso”, uno degli uomini di teatro più innovativi, noti e prestigiosi del Brasile, rimasto vittima di un incendio nella sua casa nel 2023, a 86 anni. Teat(r)o Oficina era ed è una compagnia unica, per il numero dei componenti (oltre 2000 negli anni), l’ampio repertorio, le generazioni coinvolte e il metodo di lavoro, ben rappresentato dall’incudine che campeggia nel logo storico e dalla stessa parola “officina”. La compagnia si sta riprendendo dal lutto, e vuole trarne una spinta come gruppo, come entità collettiva.

José Celso Martinez Corrêa, “Zé Celso”

L’eredità più preziosa di José Celso Martinez Corrêa è collettiva e si chiama Teat(r)o Oficina Uzyna Uzona. La compagnia, classificata come patrimonio materiale e immateriale brasiliano, è la più longeva del paese, attiva ininterrottamente da sei decenni. Per 66 anni abbiamo inventato, lottato, creato, immaginato, desiderato e forgiato Teat(r)o Oficina, un’”officina” di tanti popoli, di tante mani e di tanti cuori. Ora più che mai queste parole che contengono tanta axé, tanta magia, tanto teatro, tanta storia, hanno bisogno di essere dette, desiderate, protette: Teat(r)o Oficina! Che è movimento, territorio, vivaio, branco, mescolanza, compagnia, eredità.
L’uscita di scena di Zé Celso, in un evento tragico, ci porta all’azione. Dobbiamo continuare, onorare questa eredità. Lo spazio gigantesco abitato da questo genio dalla grandezza multipla apre una foresta di possibilità, in un campo aperto alla fioritura di nuove primavere, nelle metamorfosi che solo il teatro è capace di regalarci. (…)
L’Associazione Teat(r)o Oficina Uzyna Uzona è oggi strutturata come una compagnia multidirezionale nella composizione del suo repertorio, con un nucleo direttivo allargato. La generazione che ora raccoglie il testimone, con tutta la bellezza della sua molteplicità, prende il timone con grande entusiasmo per la coltivazione, la conservazione e la continuità di questo patrimonio vivente.
Dal sito di Teat(r)o Oficina

Un punto di forza di Teat(r)o Oficina Uzyna Uzona era e resta il teatro. Già nel 1961, dopo soli tre anni di attività amatoriale come teatro universitario, la compagnia acquisisce l’edificio di Rua Jaceguai. L’impostazione che sceglie di dare allo spazio rappresenta una prima grande innovazione formale: il palcoscenico al centro e due gradinate per il pubblico ai lati. Una nuova radicale ristrutturazione ha inizio negli anni Novanta su progetto di Lina Bo Bardi e porta alla configurazione attuale: ampie finestre di vetro consentono di giorno l’illuminazione naturale e di notte contribuiscono all’ambientazione scenografica. Spesso gli alberi sul retro del teatro contribuiscono a creare una scena viva, che ondeggia al vento. Il pubblico è sistemato su una tribuna a tre piani che ricorda le impalcature da cantiere, il palco è trasformato in una passerella, una lunga striscia orizzontale a livello del suolo. Lo spazio è stato inaugurato nel 1994, due anni dopo la morte di Lina Bo Bardi.

Fra le battaglie (vinte) di Ze Celso c’è quella contro il proprietario dello terreno adiacente, che voleva costruire un grande centro commerciale dove Lina Bo Bardi aveva previsto un parco.
Nel 2015 il giornale britannico “The Guardian” ha selezionato il progetto architettonico del teatro come il migliore al mondo nella sua categoria.
La storia di Ze Celso è complessa, affascinante e terribile: è una storia di innovazioni, provocazioni e successi artistici, resistenza al fascismo (aggressioni, censura, esilio), tragedie personali (incluso l’omicidio omofobo subito dal fratello, a sua volta regista), e questi tre livelli naturalmente si intrecciano.
Per saperne di più leggi qua oppure leggi qua.

Rabbia e dolcezza per affrontare l’Alzheimer

Al Teat(r)o Oficina vedo Meu nome: mamãe (Il mio nome: mamma), monologo ideato e interpretato da Aury Porto, che ripercorre la vita accanto alla madre, malata di Alzheimer da quindici anni.

L’attore richiama ricordi, storie, canzoni dell’infanzia trascorsa in provincia, nel Ceara, con delicatezza, qua e là perfino con umorismo, ma anche con un senso di ribellione per l’ingiustizia della malattia (soprattutto all’inizio dello spettacolo).
Il Brasile sta invecchiando, i dati indicano un aumento di nove milioni di anziani nel paese, grazie soprattutto al progresso della medicina, ma anche l’aumento delle malattie, fra cui (con centomila nuovi casi ogni anno) l’Alzheimer. E’ forse anche questa esperienza, o questa percezione diffusa, che proietta una vicenda intima e personale in una dimensione più universale.
Lo spettacolo è fortemente autobiografico, ma l’attore passa dall’essere sé stesso all’incarnare la madre con una verità e una dolcezza sorprendenti, supportato dalla drammaturgia di Claudia Barral e guidato dalla regista Janaina Leite.

Aury Porto, Meu nome: mamãe (Ph. Renato Mangolin)

La prossimità del palco ha sicuramente favorito la complicità con la platea (ma resta il desiderio di vedere uno spettacolo che utilizzi la passerella centrale in tutta la sua lunghezza, e sicuramente non avrebbe potuto essere questo).
Aury Porto ha un grande talento: nell’interpretare la madre mi ha ricordato il nostro Saverio La Ruina, è nella compagnia del Teatro Oficina da nove anni e questo spettacolo è già alla sua terza stagione.

Arrivederci Brasile!

Il viaggio in Brasile è stato un crescendo di scoperte, entusiasmo e emozioni. Il passaggio a San Paolo è stato interessante – più che altrove – anche dal punto di vista degli incontri teatrali.
Lascio la città con un ultimo passaggio sull’avenida Paulista.
Forse questa non è una “bella città”, ma le belle città dopo un po’ annoiano, mentre quante cose ci sarebbero ancora qui da scoprire, da fare e da vedere…




Tag: Brasile (3)