Brasile: da Salvador di Bahia a Recife e a São Luís de Maranhão

Appunti teatrali di viaggio | Seconda parte

Pubblicato il 24/12/2024 / di / ateatro n. 201

Mimma Gallina, Brasile: teatri, teatro e festa (Appunti teatrali di viaggio | Prima parte=
Salvador di Bahia: passeggiando con Jorge Amado

Lascio Belo Horizonte per il nord-est. La fascia costiera è stata la prima a essere colonizzata nel corso del Cinquecento e dei Seicento, le distanze cominciano a essere davvero molto lunghe e passo dagli autobus all’aereo: mi dispiace un po’, perché la rodoviaria (la stazione dei bus) è un mondo, e non c’è niente come viaggiare sui mezzi pubblici su strada per vedere paesaggi e incrociare gente. Anche l’aereo però ha i suoi pregi: la prima meta è Salvador, che già dall’alto di notte è meravigliosa.

Salvador di Bahia dall’aereoRigoberto Torres “Rodoviaria di Brumadinho” (Centro d’arte contemporanea di Inhotim)

Rigoberto Torres “Rodoviaria di Brumadinho” (Centro d’arte contemporanea di Inhotim)

Fra i primi anni del Cinquecento e il 1850, anno in cui venne proibito il commercio internazionale degli schiavi (nel 1888 il Portogallo è stata l’ultima potenza coloniale ad abolire la schiavitù), sei milioni – chi dice cinque, chi dice sette – di persone schiavizzate dall’Africa furono deportate in Brasile, il 40% del totale arrivato nelle Americhe. Attenzione: “persone” e “schiavizzate”, non schiavi: c’è una bella differenza. Ci sono cambiamenti significativi di linguaggio nel tentativo di ribaltare la narrazione coloniale: per l’arrivo dei portoghesi nel 1501 ormai da tempo si parla di “invasione” o “occupazione”, e non più di “scoperta” del Brasile. La comunità afrobrasiliana lotta nel nome dell’ancestralidade (mantenere, scoprire e reinventare le tradizioni: l’Africa come mitica terra delle origini), ma anche per valorizzare il ruolo degli antenati nella costruzione del paese e rivendicarlo nel presente. Una mostra molto interessante a Ouro Preto (nel Minas Gerais) documentava come nello sfruttamento delle miniere d’oro i nigeriani e i sudanesi non portassero solo le braccia, ma anche tecnologie che i portoghesi ancora ignoravano: è attiva una corrente nella ricerca storiografica orientata alla rilettura del passato in questa chiave.
La prima cosa che nota il visitatore europeo in Brasile sono le mille sfumature di colori e di tratti nel viso, nei capelli, nei corpi delle persone: ti spinge a ragionare su questa storia terribile – di occupazione, di deportazione – ma anche sull’intreccio di America, Europa, Africa, perfino Asia (è molto forte la presenza giapponese) che ha plasmato i brasiliani.
Di tutte le città brasiliane Salvador (São Salvador da Bahia de Todos os Santos), l’antica capitale, fondata nel 1549, è la più meticcia.

Jorge Amado con la moglie Zélia Gattai, il monumento nel quartiere di Rio Vermelho a Salvador

Jorge Amado con la moglie Zélia Gattai, il monumento nel quartiere di Rio Vermelho a Salvador

La forza vitale dei neri fu più forte che la frusta e l’acqua benedetta, riuscì a mantenere vivo e permanente, in mezzo alle condizioni incredibili della vita degli schiavi, un volto originale, cui si mescolarono col correr del tempo le altre due matrici della nazione brasiliana, per dare come risultato l’originalità della cultura meticcia del Brasile, unica forse nel mondo. Tutto qui si è mescolato, le lingue – quelle parlate nella casa padronale, nei quartieri degli schiavi e nella foresta – i santi, venuti dalla penisola iberica, con gli orixá provenienti dall’Africa e le iàras e caboclos venuti fuori dalle foreste e dai fiumi locali. Mulatti siamo, che il Signore del Bonfim e Oxalá siano lodati, amen, axé.
(da Bahia di Jorge Amado)

E’ una condizione felice e unica. Il Brasile è forse il paese meno razzista del mondo… ma ugualmente il razzismo c’è. Consapevolezza e orgoglio del meticciato non sono un antidoto al razzismo, che è nei fatti, nella distribuzione della ricchezza, nell’organizzazione del lavoro. Il Brasile è anche tuttora uno dei paesi più diseguali al mondo.
Proprio mentre scrivo leggo questa notizia di agenzia

Il governo Lula, a nome dello Stato brasiliano, si è scusato pubblicamente con la popolazione nera per la riduzione in schiavitù. La dichiarazione è stata fatta dal procuratore generale, Jorge Messias, durante un evento a Brasilia dopo la festività della giornata della Coscienza Nera, celebratasi come ogni anno il 20 novembre.
“Il Brasile esprime pubblicamente le sue scuse per la schiavitù dei neri, così come per i suoi effetti e riconosce che è necessario compiere sforzi per combattere la discriminazione razziale e promuovere l’emancipazione del popolo nero brasiliano.”

Amado mi accompagna nel mio troppo breve soggiorno a Salvador (cinque giorni): ritrovo i suoi romanzi nelle strade e nella gente, ma soprattutto mi guida il suo Bahia, un atto d’amore per la città: la prima edizione è del 1945 ma l’ha aggiornato nel corso di decenni successivi fino agli anni Novanta (il titolo completo è Bahia de Todos-os-santos: guia de ruas e mistérios de Salvador).
Questo libro non è stato solo uno stimolo letterario, ma una guida alla scoperta della città appassionata e appassionante: le guide per turisti sono necessarie ma invecchiano in fretta, riportano orari che possono cambiare, consigliano locali ormai chiusi… mentre quello che racconta Amado, per esempio il complesso Olimpo del Candomblé o l’incredibile varietà della cucina (due aspetti su cui senza di lui non mi sarei proprio orientata), ma anche le personalità che hanno fatto la storia della città… sono cose che non cambiano. E anche il paesaggio, l’impianto urbanistico e sociale, lo spirito delle strade cambiano lentamente e Bahia mi ha aiutato a cogliere le trasformazioni.
Salvador è speciale, emozionante, coinvolgente, unica… non solo per il Pelourinho (lo slargo – e per estensione il quartiere – dove si impartivano le punizioni agli schiavi ribelli), incantevole con le sue case pastello, ma per tutto il suo centro storico, per il suo porto e la sua baia, per non so più quante chiese con oro e azulejos a profusione, e anche per quelle un po’ diroccate, per i suoi forti bianchi sul mare blu intenso, e per i fari e le spiagge, e i musei senza troppe pretese. E gli ascensori, le terrazze, i mercati, le favelas colorate sul mare, i grandi palazzi, spesso abbandonati e degradati. E per la sua gente.
Ancora da Bahia:

Un popolo bonaccione, che ama i colori vistosi, rumoroso ma placido e amabile, facile alla meraviglia, accogliente e democratico. Sotto un cielo di ammirevole limpidezza, ai margini del mare, о sulla collina dove corre sempre una brezza carezzevole, vive il popolo più dolce del Brasile. Nella città di Salvador di Bahia.

Cinque giorni non sono certo sufficienti per conoscerla (la gente e la città), ma abbastanza per innamorarsi.
Arrivo un sabato sera, la zona del Carmine e di Sant’Antonio dove abito è piena di gente, giovani soprattutto. Ma, rispetto a Rio-Ipanema, sembra più tranquilla, la gente chiacchiera senza urlare, i locali sono discreti: la musica si sente dappertutto, ma proviene dagli interni, a volume accettabile e soprattutto – almeno qui – non noto grandi schermi per il calcio.
Cerco di capire se c’è teatro da vedere, ma non ne vedrò (non teatro di prosa). La sala più importante della città, a gestione pubblica, è dedicata a Antônio de Castro Alves (1847-1871): morto giovanissimo, è considerato uno dei più importanti scrittori dell’Ottocento, poeta civile, sostenitore della causa degli emarginati e degli schiavi, considerato uno dei padri della cultura democratica brasiliana. Il Teatro Castro Alves (TCA) normalmente ha una programmazione ricca e articolata (con produzioni e ospitalità) ma è in ristrutturazione: quando sarà finito sarà bellissimo e, dicono, uno dei teatri più attrezzati del paese. Il sito di prenotazioni Sympla non offre niente in altre sale durante il mio soggiorno. Allora come al solito mi affido al caso: non c’è teatro, ma tutta la città è spettacolo.

Il TCA, Teatro Castro Alves, in ristrutturazione

Il TCA, Teatro Castro Alves, in ristrutturazione

Messa cantata alla Chiesa di Nossa Senhora do Rosário dos Pretos

Alle 9 del mattino di domenica, messa grande con musica e canti alla chiesa di Nossa Senhora do Rosário dos Pretos (Nostra Signora del Rosario dei Neri), forse l’edificio più bello nella salita del Pelourinho. La chiesa fu costruita fra Sette e Ottocento dalla Confraternita degli Uomini Neri come luogo di culto riservato alla popolazione nera. Le confraternite religiose erano sicuramente funzionali a mantenere la separazione fra le diverse componenti della popolazione, ma erano anche uno strumento di coesione e assistenza delle comunità.

Chiesa di Nostra Signora del Rosario dei Neri

La Chiesa di Nostra Signora del Rosario dei Neri a Bahia

L’azzurro della facciata rende questa chiesa unica, ma è coerente con i colori pastello che caratterizzano le architetture del quartiere. L’interno, al confronto con gli ori delle altre chiese del centro, è particolarmente sobrio, quasi povero, a navata unica. Gli interessanti cartelli esplicativi predisposti dalla Confraternita sottolineano la particolare devozione della comunità nera per la Madonna del Rosario, che non riguarda solo Salvador, ma tutta la costa atlantica. Gli archivi della Chiesa contengono preghiere alla Vergine per la liberazione del popolo nero. Quasi un processo di identificazione riguarda anche i santi “neri” (o “enegrecidos”) venerati nella chiesa, che sono tutti, e non a caso, anche martiri. Uno di questi è particolarmente amato e lo trovo anche nella chiesa di San Francesco, la più bella di Salvador.

La Chiesa di San Fancesco in Largo do Cruzeiro e l’altare di Sant’Antonio di Lourdes

La Chiesa di San Fancesco in Largo do Cruzeiro a Bahia

E’ sant’Antonio di Catagerò, o “di Lourdes” (credo che sia lo stesso santo): è nero e raffigurato sempre con in braccio un bambino Gesù bianco (l’ho già incontrato a Minas: doveva in effetti essere una presenza abbastanza rivoluzionaria nelle chiese bianche e barocche, ma la conquista delle popolazioni indigene e nere passava anche da questi gesti).

L’altare di Sant’Antonio di Lourdes nella Chiesa di San Fancesco a Bahia

La popolazione di Salvador di Bahia è, ed era, molto religiosa: ma di una religiosità particolare, che ha mantenuto un legame molto forte con la cultura afro-brasiliana. I cartelli della Confraternita sottolineano che i santi hanno funzione di intermediari e si sovrappongono alle “entità” del Candomblé: in particolare il culto di Iansà, spirito dei venti e padrone del regno dei morti, si sovrappone a Santa Barbara, protettrice contro gli incendi, molto venerata in questa chiesa. Altre sovrapposizioni che incrocerò nella visita della città sono ancora più clamorose, come quella di Nostro Signore del Bonfin (il più venerato di tutti) con Oxala, la massima divinità del pantheon afro. Le processioni e le ricorrenze dei santi sono occasioni per grandi feste popolari in onore degli Orixa africani. Per tre secoli è successo perché i culti africani erano proibiti, ma con il tempo la sovrapposizione santi/divinità è diventato un dato di fatto che non turba molto le gerarchie cattoliche.
La sovrapposizione delle due religioni si coglie anche in una semplice Messa della domenica dalle musiche e dai canti (che cominciano prima e accompagnano tutta la funzione), che sono molto simili a quelli praticati nelle cerimonie del candomblé. Un gruppo di quattro musicisti – strumenti a corda e atabaque, il classico tamburo cilindrico – suona dal vivo dall’alto della navata centrale, i ritmi sono ripetitivi (proprio come vedrò in un terreiro e in una scuola di capoeira) ma allegri, e tutti cantano appassionatamente i testi sacri accompagnandoli con movimenti (minimi) per assecondare il ritmo: un po’ come in un gospel dell’America del Nord, ma più dolce e tranquillo.

L’atmosfera in chiesa è particolarmente cordiale e familiare, la predica sembra far riferimento a vicende precise della comunità, il sacerdote raccomanda più volte la pazienza (senza che ci siano collegamenti evidenti con i testi sacri del giorno) e dopo la benedizione, che i partecipanti si affollano a ricevere, ricorda i compleanni della settimana (parecchi). Non so se si usi anche nelle nostre parrocchie.

Al museo d’arte africana: la reinvenzione delle Afriche e delle identità nere nelle diaspore

I musei di Salvador non sono grandiosi come quelli di Rio o San Paolo, ma espongono con grande chiarezza le loro tesi. Il Mafro, il museo d’arte africana, mostra e documenta le relazioni fra Bahia e le regioni dell’Africa da cui arrivarono le persone schiavizzate, i gruppi etnici cui appartenevano.

Museo d’Arte Africana, Mafro: regioni e gruppi etnici africani di provenienza delle opere esposte e delle persone schiavizzate a Bahia

Il museo insiste soprattutto su questo punto, come si legge nei cartelli esplicativi:

La religiosità brasiliana è frutto dell’incontro di riferimenti molteplici portati dai vari popoli che formano la nazione brasiliana in un costante processo di interpretazione e rielaborazione.

Le africane e gli africani schiavizzati hanno portato in Brasile la memoria e il patrimonio di conoscenze, pratiche, tradizioni, nei terreiros (i santuari) del candomblé si sono ricostruite identità e riferimenti sociali, culturali e storici minacciati dalla schiavitù, e tuttora si rafforza la continuità temporale col continente africano e si collabora “alla reinvenzione delle Afriche e delle identità nere nelle diaspore”.

Il Museo d’Arte Africana, MAFRO

Il museo espone maschere, sculture e oggetti pregevoli dei territori e delle culture d’origine, soprattutto Nigeria, Benim, Angola. L’amatissima (e temuta) Yemaja, dea del mare e dei marinai, ma anche dea madre e patrona delle donne, è raffigurata nelle sculture provenienti dal Benin e dal Ghana in forma di sirena, proprio come la incontriamo nei murales e nelle sculture di Rio Vermelho (quartiere di Salvador).

Nelle culture africane, le divinità umanizzate si rivelano con i loro attributi di identificazione basati sugli archetipi, così nel pantheon della religione afro-brasiliana, di cui ho letto in Bahia e che ritrovo nella bellissima sala di Karibé: le divinità sono rappresentate in 27 grandi pannelli in legno, con i loro attributi e oggetti.
Karibé, una delle maggiori personalità del modernismo, è forse il massimo artista di Salvador, quello che più di tutti l’ha raffigurata, ma non ci è nato: è fra quelli che sono arrivati, si sono innamorati e ci sono rimasti. Il nome anagrafico è Hector Jùlio Pande Bernabò (1911-1992), nato in Argentina da madre brasiliana e padre italiano. Secondo Amado ha piantato nella terra baiana radici più profonde di qualunque cittadino nato qui.
Con grande rispetto per le immagini che si ritrovano nei terreiros e un’immersione profonda nella mitologia del candomblé, Karibé ha saputo reinterpretare gli orixa con segni semplici, stilizzati e assieme realistici, che consentissero di identificarli.
Condivido la visita alla sala con una scolaresca, i bambini interrogati riconoscono le divinità, conoscono il carattere e le specificità di ciascuna, cosa proteggono, per cosa vanno eventualmente temute. Non ne parlano come si potrebbe parlare in Europa di Zeus, Apollo o Diana: queste divinità non sono solo memoria, tradizione, o conoscenza culturale, ma sono reali, presenti nella vita quotidiana. Non sono solo, ma anche, archetipi funzionali a descrivere il mondo.

I pannelli di Karibé (Hector Jùlio Pande Bernabò) raffiguranti gli Orixa del Candomblé al MAFRO (Museo di Arte Africana)

Al museo è documentata anche, in una suggestiva, piccola mostra Abitanti del Pelourinho, cartografia del quotidiano, lotta, memoria e sogno, una ricerca degli studenti dell’Università di Bahia sulla situazione abitativa del centro e le lotte “per una città davvero giusta”. Attraverso una serie di mappature socio-urbanistiche, realizzate per e con gli abitanti del centro (con le donne delle case occupate, il movimento dei senza tetto, l’associazione dei residenti), si documenta la situazione delle case in rovina, vuote, occupate. La ricerca partecipata è una delle forme di resistenza della gente del centro di Salvador ai processi di gentrificazione.

Il carnevale: Trio elettrico e Filhos de Gandhi

Un mascherone all’ingresso della Casa del Carnevale

Naturalmente visitare la Casa del Carnevale è molto diverso dal partecipare al carnevale, ma se proprio non si capita a Salvador nel momento giusto (per mescolarsi tra circa due milioni di partecipanti e visitatori), questa “casa” colorata nel cuore del centro storico può essere un surrogato soddisfacente. La storia, le specificità dei diversi blocchi, le caratteristiche musicali ed estetiche e i collegamenti internazionali, le partecipazioni memorabili… tutto è documentato in modo approfondito e piacevole.
Quello di Bahia è un carnevale di strada, con la massima partecipazione attiva dei residenti (mentre Rio è famosa soprattutto per le scuole di samba). Protagonisti sono gli afoxé, gruppi carnevaleschi-religiosi-musicali legati al candomblé: nel carnevale sacro e profano si confondono più che mai.

Casa del Carnevale: i primi modellini di “trio elettrico”

Un’invenzione di cui qui vanno molto orgogliosi è il “trio elettrico” e i suoi creatori, Dodo e Osmar, Adolfo Antônio do Nascimento e Osmar Álvares Macedo sono quasi venerati: il loro merito consiste nell’aver perfezionato il funzionamento di un trio di strumenti elettrici e averlo collocato su un mezzo di trasporto, inizialmente un camioncino dotandolo di amplificazione: nel 1950 e nel 1951 il piccolo complesso mobile ha un successo eccezionale e diventa la principale caratteristica del Carnevale di Salvador. Sembra l’uovo di Colombo: aumentate le dimensioni del mezzo di trasporto e la potenza degli altoparlanti, metteteci anche cantanti e ballerine, diversificate in rapporti ai temi… e avrete i carnevali contemporanei e non solo (senza il trio elettrico forse non ci sarebbe il gay pride).

Molte altre cose fanno del carnevale di Salvador un unicum: i ritmi particolari delle percussioni bahiane, la samba de roda (danzata in cerchio) e soprattutto la partecipazione popolare ai blocchi (o afoxé) e la loro organizzazione. Per esempio Olodum è il più noto blocco afro (ispirato a musica e cultura africana), attivo dal 1979: è soprattutto una “banda” (nota anche a livello internazionale), ma anche una ONG del movimento nero brasiliano. Non è attiva solo durante il carnevale (con e per gli abitanti del Pelourinho), ma propone attività culturali, non solo musicali durante tutto l’anno, rivolte soprattutto ai giovani, contro il razzismo, per i diritti civili, per gli emarginati.
Mi hanno colpito molte altre cose alla Casa del Carnevale: la struttura della festa (con il tema annuale, il programma delle diverse giornate e dei diversi circuiti, la nomina del re Momo), le relazioni internazionali attivate nel tempo e le influenze reciproche, musicali e estetiche, con personalità come Michael Jackson e Paul Simon, e la partecipazione entusiasta e costante dei maggiori musicisti brasiliani.

Ma quello che mi ha colpito di più sono i Filhos de Gandhi. A 75 anni dalla nascita sono il più affollato blocco del carnevale. Nel 1949, affascinato dall’estetica oltre che dalla parola gandhiana, un afoxé animato dagli scaricatori del porto (tutti uomini) sfila in costume bianco gandhiano. Sono circa 200, poi introdurranno l’azzurro e il turbante, arriveranno a sfilare in 16.000. Io non li avevo mai sentiti nominare, li ho scoperti alla Casa del Carnevale, ma trovate moltissimo materiale in internet. Trovate soprattutto molte versioni della canzone di Gilberto Gil Filhos de Gandhi (Gil a tutte le età e un po’ anziano nella versione con Caetano Veloso). Il testo è di una semplicità disarmante e dice molto del significato del carnevale e del legame fra religiosità e festa.

Una sfilata dei Filhos de Gandhi (dal web)

Si invocano le divinità più amate del pantheon afro: Omolu, Ogum, Oxum, Oxumaré, Iansã, Iemanjá, Xangô, Oxossi (..è quasi una giaculatoria): “scendete a vedere I figli di Gandhi”. Ma anche il Signore di Bonfim: “fammi un favore, chiama il personale, scendi a vedere I figli di Gandhi”. E ancora: “Oh mio Dio in cielo, sulla terra è carnevale .. scendi a vedere i Figli di Gandi”. Se sono ancora così numerosi, l’invocazione evidentemente è stata ascoltata. Le affinità – non solo estetiche – fra la religione afro e l’induismo del resto sono forti. Il sincretismo può essere geniale, riesce a collegare in un unico abbraccio Brasile-Africa e India e soprattutto, grazie al Carnevale, a fare festa, e molto rumore per la pace (da settantacinque anni).

Gilberto Gil e Caetano Veloso (dal web)

Su Gilberto Gil e Caetano Veloso, questi due ragazzi del ’42, così attivi e così presenti nel carnevale di Salvador – e nella vita del Brasile – vorrei spendere due parole. Faccio fatica a orientarmi nell’universo della musica brasiliana, anche solo del genere (o movimento) che prese il nome di “musica popolare brasiliana” (MPB) e che è vastissimo. So che il padre riconosciuto è Dorival Caymmi, dopo di lui João Gilberto e i figli non si contano, la MPB è collegata alla reazione giovanile al golpe del ’64 e al periodo della dittatura: una generazione che è andata in esilio cantando e che quando è tornata ha costruito il Brasile democratico. Caetano Veloso l’ho ritrovato nel corso di tutto il mio viaggio (ne riparleremo a San Paolo), citato come poeta – davvero notevole – e come intellettuale impegnato, oltre che come musicista, ma al carnevale non manca mai. E’ di Santo Amaro, nel Recôncavo (il territorio intorno alla baia, l’entroterra di Salvador di Bahia), come la sorella Maria Betania. Gilberto Gil ha avuto una carriera musicale trionfale. Di lui (giovane), la mia guida dice

C’è nella sua musica un’alterezza da re negro, sudore di lavoratori della banchina e della fazenda, un segno profondo di piantagioni e di arida caatinga, odori agresti. Pungente melodia – perfino la più allegra e festosa, la più popolare e maliziosa delle sue composizioni, porta le cicatrici del tempo passato a bordo del vascello negriero e sul mercato degli schiavi. Uomo libero, cittadino in lotta permanente perché la dignità e la libertà siano realtà concrete e non semplici speranze, alla testa dell’afoxé, Gilberto Gil guida il ballo e la battaglia, con lui sfilano i combattenti di Zumbi, nel quilombo di Palmares. Al tempo stesso, il suo è un riso di fanciullo, puro, un riso d’amore.
(da Bahia di Jorge Amado)

Ignazio Lula da Silva e Gilbero Gil (dal web)

Gil è sempre stato attivissimo in politica. E’ stato fra l’altro consigliere comunale a Salvador, ambasciatore FAO e quando nel gennaio del 2003 Lula da Silva viene eletto presidente del Brasile diventa ministro della Cultura (mantiene la carica fino al 2008). Caetano e Gilberto, con Maira Betania e Gal Costa, sono anche gli inventori del “tropicalismo”: dal punto di vista musicale fu una corrente della MPB che aggiornava la samba con rock, reggae e influenze africane, ma ebbe un ruolo importante anche nel teatro, nel cinema e nella letteratura, fu una voce di protesta, una specie di ’68 brasiliano. E’ una storia molto interessante, che Caetano Veloso ha raccontato in un libro. Per approfondimenti più rapidi suggerisco: leggi qua.

Le “zie” di Bahia e il loro costume

Una delle ansie del viaggiatore quando cerca o si imbatte in momenti o aspetti particolarmente originali e caratterizzanti di un luogo, consiste nel non sapere o non capire quando siano autentici e quando fabbricati per il turista. Qualche volta la risposta è intuitiva: un gladiatore davanti al Colosseo non è autentico. Qualche volta la decodifica è più complessa: una danza folkloristica proposta a un gruppo di soli turisti è chiaramente “per turisti”, ma potrebbe essere riprodotta fedelmente (anche se mancheranno probabilmente l’atmosfera, la partecipazione, eccetera). Se celebrazioni o danze sono ancora praticate, è forse possibile intrufolarsi in occasioni non “per” turisti: ma mettetevi il cuore in pace, anche quelle potrebbero contenere una buona dose di finzione. L’autenticità non sta quasi mai nell’originalità (che rischia di essere un mito occidentale), ma semmai proprio nelle variazioni sul tema, nel modo in cui le persone e le comunità fanno propria un’espressione, un modo di danzare, di suonare o semplicemente di essere.
Un bello spunto di riflessione a questo proposito è offerto dai costumi tradizionali delle donne di Bahia.
Zweig, che ne scrive nel ’41, racconta con ironia di aver partecipato (consapevole) a una macumba (rito propiziatorio afro), inscenata per lui, ma quando parla del costume che tutte le donne bahiane a quei tempi portano, si emoziona: il costume

Una donna in costume tradizionale

non è paragonabile a nessun altro, non è né africano, né orientale né portoghese, ma tutto quanto insieme. Un turbante di colore sui capelli, attorto con arte raffinata, rosso, verde, giallo, azzurro o a vari colori ma sempre vivace, una camicetta variopinta come quella delle contadine slovacche e ungheresi e, sotto, una larghissima sottana inamidata che si svasa a campana. Non si può liberarsi dal sospetto che le schiave antenate di queste nere al tempo della crinolina abbiano visto gonne simili indosso alle loro padrone portoghesi e le abbiano conservate come simbolo di eleganza nei loro abiti di cotone a buon mercato. Sulle spalle queste nere portano uno scialle drammaticamente drappeggiato che serve anche da cercine quando recano sulla testa le brocche o i grandi canestri; al braccio compare un paio di braccialetti scintillanti, di metallo poco pregiato: così s’abbigliano tutte, ma ciascuna con colori personali, con sfumature diverse seppure sempre crude. L’elemento imponente però non risiede propriamente nel costume, bensì nell’atteggiamento, nell’andatura, nel contegno. Eccole sedute al mercato o su una soglia lurida: l’ampia veste è drappeggiata come un manto reale, sicché si direbbero sedute su un fiore gigantesco. In tale atteggiamento imponente queste principesse nere vendono la merce più a buon mercato della terra.
(da Brasile: Terra del futuro di Stefan Zweig)

Ancora oggi molte donne indossano quel costume o le sue varianti, e come allora sono perlopiù venditrici nel centro storico. Altre forse lo indossano per le feste (ci sono negozi dedicati al mercato). L’impressione è che tuttora ci si ritrovino a loro agio: è un modo di essere sé stesse e assieme interpretare un ruolo, quello delle “zie di Bahia”, regali e eleganti, poco importa che si vestano così anche per noi, i turisti.

Penso che non solo questo costume, ma i costumi in genere siano una delle espressioni di massima creatività delle donne di Bahia. Per il carnevale soprattutto: molte di loro passano mesi a confezionare i costumi per i diversi blocchi.

Una lezione di capoeira

Che cos’è la capoeira? Una lotta? una danza? Uno sport?
E’ piuttosto popolare anche in Italia, ma da dove arriva?

Il berimbau (dal web)

Di sicuro è di origine africana e arrivò in Brasile sulle navi negriere dal XVI secolo in avanti. Secondo alcuni è una lotta che per sopravvivere si è mascherata da danza. La tesi è suggestiva, ma non regge del tutto, perché fu presto proibita e repressa, più perché favoriva l’aggregazione delle comunità africane che perché fosse potenzialmente offensiva. Certo qualche secolo dopo si è presa la rivincita: nel 1974 è stata riconosciuta come sport nazionale brasiliano e nel 2014 la Roda di Capoeira è stata proclamata patrimonio immateriale dell’umanità dell’UNESCO.
Perché la roda? il riferimento è al cerchio di persone che si forma intorno ai due capoeiristi che stanno giocando. E’ una lotta che si basa sull’agilità e particolarmente elegante, per questo anche molto gradevole e spettacolare.
Elemento musicale comune ai diversi stili è il ritmo scandito dal berimbau: uno strumento a corde semplicissimo, un arco e una zucca (il nome deriva da un legno brasiliano, ma l’ho visto identico in Mozambico). La musica è fondamentale, attraverso la musica i suonatori possono modificare il gioco (rallentarlo, accelerarlo).
Nella città di Salvador la presenza delle Scuole di Capoeira è capillare, sono frequentate da persone di tutte le età, uomini e donne, abitanti e visitatori, abituali (che sono qui proprio per praticare questo sport) e occasionali, si richiamano a diversi maestri, ma la maggior parte sono riconducibile allo stile “Angola”.

Una roda di capoeira in un acquarello di Karibé (dal web)

Il forte di Sant’Antonio, spazio dello Stato di Bahia

A Rio ho già visto un piccolo spettacolo (una famiglia con bambini nella favela di Rocinha), qui sono più frequenti le lezioni.
La capoeira è piuttosto diffusa in Italia, ma non so bene di cosa si tratta, così alla ricerca di una lezione cui assistere entro nel grande cortile del Forte Sant’Antonio, che è uno spazio pubblico, con locali concessi a diverse associazioni culturali e sportive, fra cui due scuole di capoeira.

Nella sede della scuola di Capoeira

Chiedo se posso assistere alla lezione.
“Certo, sei capoerista?”
“Non ancora ☺”
La maestra è una donna sui quarant’anni, simpatica e autorevole. Si forma la “roda” (ma su panche) e assisto all’incontro di quattro coppie. Sono brasiliani, mi sembra, uno di origine giapponese. Mi colpisce la ritualità dei movimenti, la lentezza e lo scarsissimo contatto fisico anche se il gioco è molto ravvicinato e prevalentemente vicino al suolo.
Nella lezione a cui assisto non ci sono bastoni né spade (come vedo a volte nelle immagini). La musica (e il canto) inizialmente mi sembra incalzante e gradevole, poi un po’ monotona.
La verità è che non capisco bene cosa stia succedendo: apprezzo l’agilità, ma vedo anche un grande sforzo, intuisco che ci sono strategie, forse astuzie, ma come si vince? E chi vince? Perché le coppie smettono senza un vero finale?

Nella sede della scuola di Capoeira

Mi aiuta un cartello: “Na capoeira nao precisa bater”: nella capoeira non è necessario colpire. Anche se dietro l’eleganza il gioco trasmette molta forza ed energia, non si vince e non si perde – almeno non in modo tradizionale. Il corpo deve restare “frenato”, il gioco consiste nello schivare i colpi, nella capacità di uscire da situazioni difficili. E se uno dei due giocatori è in difficoltà o semplicemente stanco, in qualche modo lo comunica e il gioco cessa. Quasi una filosofia, o un modo di intendere la vita. Davvero molto formativo. (Vedo che prossimamente ci sarà un torneo internazionale, anche con la presenza italiana).

Nel forte di Sant’Antonio

Alla Casa di Oxumaré

Quanti sono a Salvador i terreiros, le sedi delle comunità della religione afro-brasiliana, il Candomblè?
Per gli anni Sessanta, nel periodo della dittatura, Amado parla di 611 terreiros registrati alla polizia. Leggo che oggi potrebbero essere circa 2000, molto capillari, non so quanto percentualmente frequentati dai due milioni e quattrocentomila abitanti della città.
Ma dove sono? Chiedo consiglio alla biglietteria del MAFRO, dove sembrano bene informati. Mi consigliano di fare un salto alla Casa di Oxumaré: è uno dei terreiros più antichi, un bene culturale tutelato, ed è molto attivo, lì troverò di sicuro qualcuno che mi racconta cosa fanno ed è probabile che possa partecipare a una cerimonia.
La Casa di Oxumaré (il dio serpente) è in città ma un po’ fuori mano (i terreiros erano perseguitati e tendevano a nascondersi o mimetizzarsi). Vado di pomeriggio, non ci sono visitatori, ma alcuni anziani e qualche bambino.
Un gentilissimo membro della comunità mi racconta la storia dello spazio, mi mostra i luoghi sacri e quelli che ospitano l’attività comunitaria. E’ un complesso raccolto ma con diversi edifici, molto gradevoli, bianchi con infissi azzurri.

Molti orixa sono venerati nel santuario, negli spazi dedicati: piccoli giardini, quasi altari all’aperto e in minuscole stanze chiuse.

Soprattutto mi raccontano quello che si fa qui per i ragazzi e le molte persone povere del quartiere. Ci tiene a sottolineare questa funzione sociale, che è strettamente integrata a quella religiosa. Mi dice anche che la pratica della religione cattolica e del candomblé non sono incompatibili, molti frequentano entrambe (lui per esempio). Mi invita a una funzione per la sera dopo. Non è una festa, è una liturgia semplice, non mi sentirò a disagio: ci può contare, non mancherò.
La storia della Casa di Òxumarè è molto interessante dal punto di vista storico oltre che religioso, e non solo per la comunità nera: riassumo quello che mi hanno raccontato e che si ritrova con molti dettagli nel sito della Casa di Òxumarè.

Il fondatore della Casa di Oxumarè, Bàbá Tàlábí, arriva schiavizzato dal Benin, apparteneva a una delle famiglie più importanti del Culto di Sakpata–Ajunsùn (una divinità africana). Grazie alle conoscenze mediche yoruba guarisce il suo padrone e da liberto si dà al commercio. Con neri schiavizzati di diverse etnie comincia a promuovere il culto di Ajunsùn. Compra un primo spazio, poi un altro, e crea una confraternita dove i figli e le figlie “di santo” risiedono (in forma conventuale). Compra la libertà dei suoi “figli”, che a loro volta comprano altri schiavi… E’ sacerdote e commerciante: importa prodotti dall’Africa, dove viaggia spesso, portando anche sacerdoti africani (siamo nella prima metà dell’Ottocento).
Il suo successore, Bàbá Salako, si distingue anche per l’attivismo politico nella campagna abolizionista. Perseguitata negli spazi dove risiedeva, la Casa de Oxumarè si trasferisce negli spazi attuali e diventa un punto di riferimento nella lotta per la liberazione dalla schiavitù. Dopo la morte di Bàbá Salako, e dopo l’abolizione della schiavitù nel 1888, la persecuzione contro la Casa si intensifica, con i ripetuti ordini di cessare il Candomblé.
Le incursioni della polizia fanno parte della vita quotidiana della Casa di Oxumaré. Dal 1927, con Mãe Cotinha de Yèwá e altre che le succedono, la gestione prende un impronta matriarcale: Mãe Cotinha fa parte delle Negras do Partido Alto, che lavoravano per i diritti dei neri. Una delle particolarità della Casa di Oxumaré è la protezione delle figlie di santo contro lo sfruttamento dall’élite razzista: le ragazze imparano a produrre dolci tipici, a diventare proprietarie di attività proprie, studiano.
Le matriarche si caratterizzano per carisma e per la capacità di ferma denuncia delle persecuzioni della polizia e di determinazione nel proteggere il terreiro minacciato dalla speculazione immobiliare. Il 1988 è l’anno di una battaglia emblematica: il Comune vorrebbe appropriarsi di un’ampia area della Casa di Oxumaré, distruggendo la fonte d’acqua – fondamentale per il culto dell’Òrìsà – e l’albero Ìrókò, il Padre di tutti gli alberi. Al vertice della Comunità ci sono Madre Nilzete e Bàbá Pecê che presidiano fisicamente l’albero sacro, lottando per la sua conservazione. E’ una lotta assieme religiosa e ambientale che vedrà la società civile, leader politici e religiosi riunirsi in un gruppo in difesa del terreiro.
Dell’esito vittorioso beneficiò non solo la Casa di Oxumarè, ma tutto il Candomblé di Bahia: la Costituzione dello Stato di Bahia, l’anno successivo, decreta che “È dovere dello Stato preservare e garantire l’integrità, la rispettabilità e la permanenza dei valori della religione afrobrasiliana” e la legislazione attuale riconosce ufficialmente il Candomblé come religione.
Oggi le informazioni sul sito sono di carattere più religioso, ma insistono anche sul lavoro per la protezione dei bambini, della comunità nera e di tutti coloro che si trovano in situazioni di vulnerabilità. Importanti sono anche i contatti attivati con l’Africa, Nigeria e Benin, ristabilendo legami senza precedenti. Continua la battaglia per l’emancipazione della religiosità di origine africana in Brasile e per la promozione del rispetto reciproco tra le religioni. La Casa di Oxumaré vuole essere un riferimento nazionale nella lotta per i diritti umani.

Nel 2004, la Casa di Oxumaré è stata riconosciuta patrimonio dell’Istituto del Patrimonio Artistico e Culturale di Bahia e nel 2014 è stata iscritta nell’elenco dei Monumenti Storici e Archeologici, Etnografici e Paesaggistici, come Patrimonio Nazionale del Brasile. Oltre a sviluppare attività religiose, Casa de Oxumarè è attivamente impegnata in progetti sociali e culturali, che contribuiscono allo sviluppo delle comunità circostanti. E’ impegnata contro i pregiudizi e l’intolleranza religiosa e a valorizzare l’eredità culturale afro-brasiliana a promuovere la democrazia e i diritti umani.

La stanza delle funzioni religiose della Casa de Oxumaré

Finalmente arriva la sera della funzione. Siamo cinque ospiti, io e una famiglia di San Paolo. Nell’attesa ci fanno accomodare in una sala da pranzo con un grande tavolo e ci offrono caffè e un assaggino di acaraje (fagioli e gamberetti).
Finalmente entriamo nella stanza dedicata alle funzioni. Noi ospiti stiamo molto defilati, su una panca laterale. Ci sono persone di tutte le età, tutte vestite di bianco, ma sono particolarmente numerose le donne anziane e i ragazzi giovani, non sono divisi per genere. Tutti sono seduti per terra in semicerchio, all’inizio in modo informale. Qualcuno va a omaggiare e parlare con il Padre di Santo (il sacerdote a capo della comunità), Bàbá Pecê, ma c’è anche, in posizione più defilata, da numero due, una Madre di Santo, piuttosto anziana. Quando inizia effettivamente la funzione, i fedeli in cerchio si posizionano in ginocchio o in quadrupedia (ma con atteggiamento piuttosto rilassato) e mantengono questa posizione anche quando entra una processione di donne che offrono acaraje e banane: è una cena rituale, ma pur sempre una piccola cena.
Dal gruppo emergono due giovani fra quelli che avevano parlato con il Padre di Santo, un ragazzo e una ragazza: saranno i Figli di Santo prescelti quel giorno? O – più probabilmente – sono già predestinati?

Il cortile della Casa de Oxumaré (in fondo a sinistra la stanza di Exu)

Le donne li stringono in vita con fasce bianche. I tamburi suonano da un angolo della sala – mi sembrano due atabaques ma non ne sono sicura – ma non freneticamente e accompagnano una cantilena un po’ monotona, ritmata dal cerchio. L’atmosfera è calma e proprio non mi aspetto che si verifichi uno stato di trance: è la giovanissima ragazza, trema e ha la faccia stravolta (il ragazzo invece resta solo molto concentrato). La vedo molto da vicino nel corridoio che si è formato al centro. Chissà se crede davvero di essere posseduta dall’orixá evocato… La ragazza viene portata fuori da una donna dalla porta centrale.
Poi la tensione e il gruppo si scioglie, qualcuno torna a parlare con il Padre di Santo e tutti escono in cortile. Il trance mi ha colpito, ora in cortile tutti si apprestano a presentare il loro omaggio a Exu, uno a uno entrano nella sua stanza. Penso di potermela svignare lasciando la mia offerta, ma una delle ospitali e accoglienti signore insiste: “Non hai ancora fatto la tua richiesta a Exu? Vedrai quanto ti fa bene…”
Resisto, ma mi mette una fascia bianca in vita e mi spinge dolcemente. Così mi ritrovo sulla soglia della piccola stanza buia: non so chi c’è dentro, mi prostro come ho visto fare dalle persona davanti a me, appoggio la fronte sulla pietra e lascio la mia offerta. Penso che sia finita, ma il rito prevede che porga le mani riunite a ricevere un mestolo di cibo (è una zuppa, o non so cosa…).
La signora anziana che ha insistito che entrassi mi toglie la fascia e mi chiede se ho fatto la mia richiesta a Exu…Ringrazio mentre cerco come e dove liberarmi del cibo, pulire le mani (e collegarmi con la app di Uber). Exu ci tiene a essere omaggiato, è un divinità esigente ma anche allegro e quasi bonaccione, spero che mi perdonerà.

Il cortile della Casa de Oxumaré (in fondo a sinistra la stanza di Exu)

L’esperienza mi ha turbato, mi ha fatto riflettere. Me la ricorderò. Dice Amado di Salvador:

Città profondamente religiosa, non c’è dubbio. E tuttavia, dove stanno, nella religiosità del baiano, i confini che separano la religione dalla superstizione? Le due cose sono quasi sempre strettamente collegate, e quasi sempre è la seconda a predominare. I riti religiosi acquisiscono qui strane modalità, i culti cattolici si illeggiadriscono ben presto di un’aura feticista. C’è nella religiosità dei baiani qualcosa di pagano, un certo che di sensuale che fa sì che le numerose comunità religiose altro non siano che un prolungamento, stilizzato e incivilito, delle macumbe misteriose.
(da Bahia di Jorge Amado)

Il tema della religione, della religiosità e del rapporto con le chiese dei brasiliani è interessante e merita un approfondimento. Negli ultimi quindici anni si sono diffuse in modo esponenziale le religioni neo-pentecostali (come in tutto il mondo, del resto): secondo i censimenti ufficiali tra il 2000 e il 2010, la percentuale dei cattolici in Brasile è passata dal 74% al 64,5%, mentre gli evangelici salivano dal 15% al 22%. Ricerche recenti stimano che i cattolici non siano più del 50%. Non trovo statistiche che dicano quanti fra i praticanti delle religioni afro (spesso anche cattolici) siano stati conquistati dalle sette pentecostali, che si stanno arricchendo e appoggiano la destra in politica. Per approfondimenti suggerisco un saggio dal titolo eloquente, Il tempio è denaro di Anna Virginia Balloussier, in “The Passanger/Brasile”, Iperborea 2019). Il bisogno di religione si esprime e si soddisfa in molti modi, forse in futuro rimpiangeremo le macumbe misteriose.

Il tempio della Igreja Universal do Reino de Deus a Salvador

Una serata di danza alla Baroquinha per la Giornata Mondiale della Donna Afro-discendente

Nell’esplorazione del centro storico di Salvador, gli appassionati di Amado non si perderanno di certo la Ladeira da Barroquinha: è la via dei postriboli in Teresa Batista stanca di guerra. E’ ancora oggi una via popolare, ricca di passato e vivace nel presente.

Il monumento a Gregório de Matos Guerra

Prendendola dall’alto, da piazza Castro Alvez, il primo incontro è con (il monumento a) Gregório de Matos Guerra (1636-1696) soprannominato “Boca do Inferno” (bocca dell’Inferno). Fu il maggiore poeta barocco, le sue poesie satiriche sono all’origine della tradizione d’ispirazione sociale che caratterizza l’arte e la letteratura baiana, alcune le conoscono tutti. Questa per esempio, che denuncia disuguaglianze e corruzione nella città di Salvador (il titolo è Epílogos):

Que falta nesta cidade?…………….Verdade
Que mais por sua desonra?………..Honra
Falta mais que se lhe ponha……….Vergonha.

Cosa manca in questa città?…………….Verità
Che altro per il suo disonore?…………….Onore
Cosa c’è ancora da aggiungere…………….Vergogna

Ne aveva già il ritmo ed è diventata un rap (autore Rappin Hood, trovate diverse edizioni in internet, io l’ho scoperta al Museo della Lingua portoghese di San Paolo).
Scendendo la gradinata ho una bella sorpresa: cercavo uno spettacolo per la serata e presso l’antica chiesa, trasformata in Spazio Culturale della Barroquinha, è in programma uno spettacolo di danza per celebrare il Giorno delle Donne Nere, Latine e AfroCaraibiche, che si celebra il 25 luglio.

La chiesa della Baroquinha trasformata in centro culturale

Nel 1992, diversi gruppi di donne afro-latine e afro-caraibiche da 32 paesi dell’America Latina si riunirono nella Repubblica Domenicana per denunciare le oppressioni e le discriminazioni di genere, etnia e classe sociale. Dopo questo incontro, l’ONU decise di riconoscere il 25 luglio come Giornata Mondiale della Donna Afro-discendente, Latino-americana, Caraibica e della Diaspora. In Brasile dal 2004 il 25 luglio ricorda anche Tereza de Benguela, protagonista delle lotte di resistenza alla schiavitù nell’Ottocento.

Il francobollo dedicato dal “Dia Internacional da Mulher Negra Latino-Americana e Caribenha”

Non è una giornata, o una questione di discriminazione fra le tante. Quello delle donne nere, afro-latine e afro-caraibiche è uno dei movimenti femministi più importanti del mondo e in Brasile c’è qualche motivo in più per concentrarsi sui loro problemi. La popolazione di origine africana corrisponde al 54% della popolazione, 200 milioni di persone si riconoscono come afrodiscendenti e è la parte della popolazione più povera: secondo L’IBGE (l’Istituto Nazionale di Statistica) la povertà riguarda tre persone nere su quattro. I dati sulla violenza e la disuguaglianza indicano che le vittime sono soprattutto le donne nere. Per questo il 25 luglio è molto sentito, e tutto il mese (con festival, mostre, manifestazioni varie) è dedicato a sensibilizzare, riflettere e rafforzare le organizzazioni che si occupano delle donne nere e delle loro lotte.
Lo spettacolo che ho visto celebra la ricorrenza dal punto di vista del corpo, che è – come sempre – quello più rivoluzionario. La serata Preticidades (non so bene come tradurre, potrebbe essere “negritudini”, cose che hanno a che fare con l’essere neri), ideata da Maria Claudia Dias, mette in scena “corpi che danzano le loro verità” a partire dalle danze afrobrasiliane, danze “del terreiro” e della cultura popolare. I materiali dello spettacolo contengono dichiarazioni programmatiche molto precise:

Le nostre danze si basano sui nostri riferimenti e le nostre verità, è necessario decolonizzare, riconoscere e rompere con lo stile europeo che limita i corpi neri, ci impone un modo di muoverci. La nostra ricerca consiste nel lavorare su questi movimenti. Dobbiamo correggere queste “etnografie”, che hanno lasciato segni sui nostri corpi. Il nostro corpo ancestrale è contemporaneo. Oltre al corpo abbiamo i nostri ricordi, l’ambiente che il nostro lavoro  riflette, dobbiamo organizzare e comprendere il nostro tempo come artisti della danza, il nostro corpo è il nostro tempio più grande. (…) Il corpo nero è politico, è un discorso di parola e di presenza.

Le specificità e la differenza dei corpi sono al centro dello spettacolo. Danzatrici professioniste di tutte le età, insieme e con una serie di assolo davvero spettacolari, reinterpretano le danze tradizionali: “Hanno costruito il loro lavoro attraverso le storie di danza che portano nei loro corpi”, mi dice Maria Laura. E sono storie felici e dolorose ma anche presenze regali: grazie ai bellissimi costumi e ai movimenti ampi, lenti o frenetici, mi sembra che richiamino le icone delle divinità del candomblé.

Anche le musiche rimandano a quell’ambiente, tranne la sola che riconosco, Africa di Ismael lo, e nell’assolo della più anziana del gruppo vedo davvero tutto il dolore dell’Africa e la nostalgia per l’Africa.
Nel finale dello spettacolo entrano le bambine coinvolte nel progetto: un gruppo di ragazzine gioiose, con i loro corpi veri, non deformati da stili e pratiche crudeli (come succede nei nostri corsi coreutici occidentali): è un bell’incontro di donne di tutte le età nel nome della danza, in scena, e con la platea, tutta femminile e tutta nera.

Maria Claudia Dias è coreografa, danzatrice, ricercatrice, insegnante, project manager e produttrice con esperienze vaste e articolate. Di sé sottolinea anche (via whatsapp) che è una donna nera, tatuata, di 45 anni, che pratica il candomblé (della comunità di São Lázaro al Centro Storico), attivista e politica. Le altre interpreti e co-creatrici che vedo in scena sono una decina, oltre alle bambine.

Gamberetti al mercato

I miei cinque giorni a Salvador, la città africana più grande fuori dall’Africa, sono stati intensi e appassionanti. Non vi ho parlato di un molte di cose, per esempio della cucina: il tema di questo reportage è “appunti teatrali” e dunque devo limitare le divagazioni, ma spero di aver dato l’idea che questa città, ovunque ti giri, è uno spettacolo.

Recife: frevo, carnevale e un monologo a sorpresa

Faccio di rado giri organizzati nelle città, ma quando contatto l’ufficio turistico di Recife per qualche informazione in più sui teatri, mi raccomandano il giro a piedi organizzato dal Comune. L’obiettivo è qualificare dal punto di vista culturale la conoscenza della città, anche per gli abitanti.
Mi aggrego, siamo un piccolo gruppo (gli altri sono brasiliani) e ci guidano un consigliere comunale e uno storico. E dal punto di vista storico lo stato del Pernambuco e Recife (che è la capitale) sono estremamente interessanti. Siamo in una delle prime regioni colonizzate dai portoghesi, che in un primo tempo però non si curano troppo del Brasile (non c’è oro, non l’hanno ancora trovato), anche se qualche disperato ci si stabilisce. Soprattutto ci sono i commercianti ebrei: quella del Brasile nel Cinquecento è una colonizzazione, diciamo così, autogestita. Anche se già nel 1537 si fonda Olinda (“O bella”) in collina, dove si stabilisce l’aristocrazia. Recife, a pochi chilometri, nasce come porto di Olinda. Il suo sviluppo, e la sua fortuna, sono collegati inizialmente all’esportazione del legno e del colorante che ne derivava: il pernambuco, che dà il nome a questa regione, o il pau brasil, che dà il nome al paese, è appunto un albero, un tipo di legno e un colorante. E’ stata la prima ricchezza del paese scoperta dagli europei, era presente in tutta la “mata atlantica” (ed è stata così depredata che il famoso pau brasil io l’ho visto solo nei giardini botanici). Poi, e per due secoli, sono arrivati la coltivazione della canna da zucchero nell’interno e il commercio degli schiavi.
Ma i portoghesi forse non si sarebbero accorti del potenziale del paese e di quanto strategica fosse questa posizione (così vicina all’Africa), se non glielo avessero fatto capire gli olandesi, prima con la Compagnia Olandese delle Indie Occidentali, e nel 1630 arrivando con una flotta di 67 navi a invadere la regione. Dell’occupazione olandese a Recife resta oggi un bel forte a cinque punte, solido ed elegante, e la memoria di un’antica vittoria: i pernambucani, con una rivolta dal basso, di cui sono tuttora orgogliosi (l’”Insurrezione Pernambucana”, appunto), sconfissero gli olandesi nel 1654 e la regione tornò a essere colonia portoghese. Altri scontri e rivolte caratterizzano la storia della città, quello fra i commercianti e i proprietari della terra e delle industrie dello zucchero (nel Settecento), le rivolte popolari indipendentiste e le agitazioni culturali contro l’assolutismo di Pedro I e, nel 1848, i movimenti di carattere liberale.
Nel frattempo Recife ha preso del tutto il posto di Olinda ed è diventata capitale di Stato. Inizia a decadere quando la canna da zucchero non è più il traino dell’economia e la tratta degli schiavi viene proibita (1850: anche se per qualche tempo prosegue la tratta clandestina). Per tutto il Novecento si registra l’immigrazione dalle zone rurali impoverite, un fenomeno comune a tutto il Brasile che forse non si è saputo governare.
Il Pernambuco, e in genere gli stati del Nord e Nord-Est, sono la zona povera del paese. Mi aspettavo una città un po’ in disarmo ma – al contrario di Olinda, che in effetti sembra abbandonata e triste – Recife, anche se non appare certo ricca nel centro storico, mostra un grande sviluppo in periferia: è una città grande, con quartieri moderni e selve di grattacieli lungo tutta la costa bordata dalle barriere coralline che la tengono al riparo e le danno il nome (Recife vuol dire appunto “barriere coralline”) e sembra molto dinamica e vivace.

Servizi, turismo, il porto…
Sembra florida, la povertà è più visibile probabilmente all’interno del paese, e nelle favelas – che non ho visto. Si avverte però un senso d’insicurezza, non so se reale: è la città dove più mi hanno raccomandato (portieri d’albergo, tassisti, compagni di gita) di stare attenta alla borsa, non andare in giro di sera…

Frevo e non solo

Dell’importanza storica della città nello sviluppo democratico del paese i miei accompagnatori sono orgogliosi (del resto anche Lula è pernambucano), ma anche e soprattutto delle tradizioni musicali, dei generi che sono nati e si sono sviluppati qui, e del grande carnevale.

Il gallo da madrugada

Cosa ha di speciale il carnevale di Recife? Da quello che ho capito direi che è ruspante – più grezzo, un po’ campagnolo – almeno a giudicare dal gigantesco gallo “da madrugada” che ne è il simbolo (ne ho visti parecchi posizionati come monumenti in città), e dagli stendardi delle diverse confraternite che fanno riferimento anche a comunità indigene, rurali, oltre che afrobrasiliane. E poi fa un largo uso di mascheroni e pupazzi giganti (come del resto – ancora di più – quello della vicina Olinda).

La Casa del Carnevale

E’ un carnevale urbano, ma questa città è anche punto di arrivo e di scambio con un immenso entroterra, il sertão, che influenza le musiche, le danze e l’immaginario.
Due esempi: c’è sicuramente continuità fra i “bonecos” giganti del carnevale e i piccoli burattini diffusi in tutto il nord rurale (a Olinda c’è il Museo do Mamulengo, purtroppo lo trovo chiuso: sbircio e fotografo da uno spiraglio).
Anche la passione per la quadriglia e i relativi costumi che caratterizzano le feste di giugno (qui e in tutto il paese) arrivano dal sertão. Ma di particolare ha soprattutto il frevo, che al carnevale oltre al ritmo ha portato in dote gli ombrellini colorati che sono la specificità più nota e evidente.

 

Al Paço do frevo

Ma che cos’è il frevo? È musica per banda (ottoni e percussione), danza acrobatica e frenetica di strada (con ombrellino), musica e danza per interni ma, spiegano al Paço do Frevo (Palazzo del Frevo), “prima di essere un genere e un passo è un fenomeno sociale, una forma di esistere nel mondo”.
Confesso che non ne avevo mai sentito parlare, eppure nel 2012 è stato iscritto sulla lista del Patrimonio orale e immateriale dell’umanità dell’UNESCO e pare sia molto praticato nel mondo.

Al Paço do Frevo

Il Paço è molto ben allestito e molto suggestivo, colore dominante i rosso, allegro e anche un po’ ironico: “Il frevo è virile, non come quella marcetta carioca asessuata” (ovvero il samba), è contagioso, è difficile resistergli, invita a cantare e a entrare nel coro… Soprattutto ciascuno lo fa come vuole, e questo lo rende molto simpatico.
Il museo parla naturalmente di alcuni creatori e interpreti del genere e documenta tutti gli aspetti materiali legati al carnevale: come si confezionano costumi e mascheroni, come si trasporta il gigantesco gallo…

Una copertina di Luiz Gonzaga

Ma la musica a Recife non è solo frevo. C’è il forrò (nato nel sertão: e a Luiz Gonzaga, padre di questo genere è dedicato un museo), c’è il maracatu che ha molte varianti che in comune hanno percussioni di tipo africano e danzatori in abiti coloniali, c’è il coboclinho, che ha origine nelle musiche e danze indigene.

Il monumento a Chico Science

Risale invece agli anni Novanta il mangue beat, una tendenza ancora viva che contamina tradizioni locali afro con musica elettronica e ritmi rap. Il musicista di riferimento, che inventò anche il termine molto eloquente “afrociberdelia” per descrivere questa musica, era Chico Science, è morto in un incidente è tuttora molto amato e la città lo ricorda con un monumento e un museo.

Scoperte in sinagoga

Non lontano dal Palazzo del Frevo, c’è uno dei luoghi più emblematici della città: la sinagoga Zahal Kahal Zur Israel, la più antica delle Americhe, e il centro culturale ebraico collegato.
Gli ebrei hanno dato un contributo fondamentale allo sviluppo di questa regione (quindi alla costruzione del Brasile) nel corso del Cinquecento e del Seicento. Fernando de Noronha, nativo delle Asturie, con altri ebrei convertiti e commercianti portoghesi ottiene già nel 1503 la concessione da parte della Corona portoghese per sfruttare le risorse naturali e in particolare un contratto per lo sfruttamento del pau brasil (il pernambuco). Finanzia la spedizione che raggiunge l’isola che oggi porta il suo nome (oggi è una delle mete turistiche più esclusive del Brasile). Nel 1506 (solo cinque anni dopo il primo arrivo portoghese) lui e i suoi soci avevano già importato a Lisbona più di 20.000 quintali di pernambuco, con un profitto dal 400 al 500%. Ricavo queste informazioni da wikipedia, ma ne parla molto anche Zweig in Brasile terra del futuro, sottolineando l’indolenza dei portoghesi messa a confronto con il dinamismo dei commercianti ebrei – non solo Noronha – ai quali si deve, e quasi solo a loro, lo sviluppo iniziale del Pernambuco.

Il Centro culturale ebraico e la Sinagoga Zahal Kahal Zur Israel

Il centro culturale ebraico di Recife documenta le vicende della comunità, soprattutto nel periodo del dominio olandese. Quando nel 1654 l’Olanda tratta la resa, una clausola prevede l’allontanamento della comunità ebraica entro tre mesi. Poi si accavallano avvenimenti, di quelli per cui succede che a volte il peggio generi il meglio: una delle navi con gli ebrei in fuga naufraga in Giamaica, i naufraghi identificati come non battezzati vengono arrestati, una parte però tratta la liberazione e si rimette in mare… In breve, fu così che la piccola colonia di Recife in fuga fondò New Amsterdam… quella che oggi conosciamo come New York.

Il Centro culturale ebraico e la Sinagoga Zahal Kahal Zur Israel

Venendo all’Ottocento e al Novecento, il centro documenta la ripresa della vita comunitaria grazie all’immigrazione e sottolinea la diffusione e la funzione della lingua e del teatro yiddish. Al teatro (come mezzo di comunicazione privilegiato della cultura ashkenazita, capace di trattare argomenti quotidiani, quindi popolari, alle sue forme e ai suoi autori) sono dedicati alcuni pannelli, che riferiscono delle presenza frequenti a Recife di compagnie itineranti ebraiche: intere compagnie o singoli attori ebrei arrivati come migranti avevano ripreso a recitare in Brasile in forma itinerante a cavallo fra Ottocento e Novecento. Molti spettacoli arrivano così al Teatro Isabel di Recife (un bel teatro all’italiana), fra cui classici della letteratura teatrale ebraica (come Avrom Goldfaden, Scholem Asch, Jacom Gordin, con un Re Lear influenzato dalla tradizione russa).

Un teatro giardino per Virginia Woolf

Finora siamo rimasti a “Recife antica” che è un’isola. Sulla terraferma, nel quartiere centrale di Boa Vista, animato e piacevole, passo una serata al bellissimo Teatro do Parque.

Recife, il Teatro do Parque

E’ un edificio del 1915, restaurato a più riprese. L’ultima ristrutturazione, particolarmente accurata, ha richiesto parecchi anni ed è terminata nel 2020 (in pieno Covid). E’ uno spazio particolarmente gradevole, le strutture del tetto sono in acciaio a vista, gli atrii, i corridoi e gli interni della sala da circa 800 posti sono impreziositi da decorazioni della fine degli anni Venti. Ma la cosa che mi è piaciuta di più, oltre alla leggerezza liberty, è la caratteristica di “teatro giardino”, la permeabilità di interno-esterno che si addice molto al clima tropicale. Il complesso è circondato da un parco che lo rende particolarmente attraente, che può diventare sfondo scenografico aprendo il palco sul retro e ospitare spettacoli all’aperto.

Nella sua vita centenaria, il Teatro do Parque ha ospitato cinema muto, il primo sonoro e il teatro. Attualmente è gestito dalla città di Recife, con una programmazione multidisciplinare (teatro, teatro per ragazzi, cinema, musica), a parte la presenza della banda della città che qui ha la sua sede. Non trovo però linee artistiche-programmatiche e una formulazione strutturata delle proposte, mi sembra ci sia un po’ di tutto. Sul sito c’è un modulo per proporre spettacoli.
Lo spettacolo che vedo, e che effettua tre rappresentazioni, è Virginia di e con Claudia Abreu, sull’opera e la vita di Virginia Woolf, con la regia di Amir Haddad, regista noto nel panorama teatrale brasiliano. Il teatro è quasi pieno, pubblico in grande maggioranza femminile e bianco. La grande attrazione è Claudia Abreu, ma un’attrice molto popolare e amata. Ha fatto molto teatro, partecipato a diversi film, ma soprattutto ha recitato in diverse soap opera e serie, e poche cose in Brasile sono popolari come le telenovela. Questo è il suo primo monologo e il suo debutto come autrice teatrale.

Claudia Abreu in Virginia, da Virginia Woolf

Nei materiali in rete si ricorda un precedente spettacolo della Abreu da Virginia Woolf, Orlando. Quel primo incontro ha procurato e alimentato negli anni un’affinità con la scrittrice, ed è all’origine della lunga ricerca da cui è nato lo spettacolo. Il testo percorre sostanzialmente la biografia della Woolf, i momenti dolorosi, l’alternanza di lucidità e follia, alternando voci reali e fittizie presenti nella sua mente. Lo spettacolo è un monologo appassionato ma molto sobrio, interpretato al centro del palco nudo, in costume bianco. La Abreu mi è sembrata molto brava, ma non particolarmente carismatica. Il pubblico alla fine era entusiasta (le signore intorno a me si aspettavano e hanno avuto la loro star e la cultura “alta”) ma con la moderazione che – come ho già osservato – caratterizza la reazione dei brasiliani: un paio di chiamate sono sufficienti.
Alla fine, come sempre si fa qui, l’attrice ringrazia e saluta con simpatia dando qualche informazione. Sottolinea il piacere di recitare a Recife, parla della tournée che prosegue dal 2022 e non è ancora finita (27 città fra cui San Paolo, Rio de Janeiro, Belo Horizonte, Porto Alegre, Fortaleza, Goiânia), degli oltre 40.000 spettatori che l’hanno vista.

Uno scorcio della Oficina de Ceramicas Brennan

Gruppo in gita a “marco zero” (sullo sfondo il totem di Francisco Brennan)

Prima di lasciare Recife voglio segnalare una personalità importante nella città, l’artista visivo Francisco Brennan. Ci sono molte sue opere in città, ma una in particolare, un totem, fa da contrassegno al luogo dove la città è nata, “marco zero”, creando un gioco di spazi, fra terra e mare.
Ma è sorprendente soprattutto il vastissimo spazio, Officina Brennan (realizzato presso l’antica fabbrica di ceramiche dei genitori, di origini irlandesi): è quasi una città sacra abbandonata, con una sequenza di vaste scenografie, ricche di suggestioni mitologiche e letterarie. Di sicuro lo spazio più teatrale di Recife (a una ventina di chilometri dal centro).

Passaggio a Fortaleza: il Centro Dragão do Mar de Arte e Cultura

Toccata e fuga nella capitale del Cearà, Fortaleza: un’altra città che mi mostra il volto dinamico e rampante del Brasile. Popolosissima e in continua crescita, si sviluppa per molti chilometri lungo la costa con una sequenza di grattacieli modernissimi paralleli al mare da fare invidia ai quartieri più eleganti di Rio. Il reddito pro capite è uno dei più alti del paese: servizi, commercio, turismo, grandi eventi.

Il lungomare di Fortaleza

E’ domenica e si respira gioia e ottimismo, le spiagge, molto larghe, sono strapiene, famiglie, giovani … Nella piazza principale del lungomare, si alternano gruppi musicali su un grande palco.
La principale attrattiva della città è un modernissimo centro culturale. ll Centro Dragão do Mar de Arte e Cultura si trova nella zona del porto vecchio e ospita su più livelli, e in diversi corpi collegati da passerelle, due musei (della Cultura del Cearà, di Arte contemporanea), un teatro, un cinema, un anfiteatro, spazi vari all’aperto, negozi artigiani, una caffetteria.

ll Centro Dragão do Mar de Arte e Cultura

Ho visto uno spettacolo non professionistico – un musical dichiaratamente amatoriale – ma molto partecipato. Molto numerosi gli attori in scena, e calorosi gli amici in platea.

São Luís de Maranhão: vitalità e decadenza

Arrivo a São Luís de Maranhão a un mese dall’inizio del mio viaggio, ormai mi sembra di conoscere qualcosa di questo paese ma mi aspetto di trovare qui un Brasile ancora più complesso e meticcio: è la terza città del Brasile per popolazione afro discendente, e con una delle più alte presenze indigene.
Sono state travagliate anche le vicende storiche e economiche che la caratterizzano. Fondata dai francesi (da qui il nome) su territori dei Tupinamba nel 1612, conquistata dai portoghesi, presa dagli olandesi nel 1641 torna portoghese dal 1645, ma nei decenni successivi non mancano i movimenti dei coloni contro Lisbona (il Brasile comincia a rivendicare margini di autonomia). In economia deve la sua fortuna al mercato degli schiavi (e al loro lavoro), alle piantagioni di canna da zucchero, di cacao e di tabacco (orientate all’esportazione), più avanti al cotone (con alti e bassi): arriva ad essere la terza città del paese per popolazione grazie alle esportazioni di cotone, che però declinano alla fine del XIX secolo. Nella seconda metà del ventesimo secolo l’economia riprende per lo sfruttamento di giacimenti di ferro e bauxite e la costruzione dei porti di Itaqui e di Ponta da Madeira (il secondo terminal portuale più profondo del mondo). Attività tutte gestite o controllate dalla potente Compagnia Vale do Rio Doce (seconda per esportazione di ferro al mondo). Che non gode propriamente di buona fama: nel 2012 si aggiudica il premio come peggior multinazionale al mondo. Leggi qua.

I Lençóis Maranhenses

E’ il turismo però oggi la principale risorsa economica della città, che è attrattiva in sé e punto d’arrivo (o di partenza) di una delle zone più belle del paese dal punto di vista naturalistico (a qualche ora di auto dal Parco nazionale dei Lençóis Maranhenses). Nonostante ferro, porti e turismo, è una delle città povere del paese. Il Maranhano è al primo posto per abitanti sotto la soglia di povertà: la grande disuguaglianza che caratterizza il Brasile, qui si vede.

Una fotografia di Mobi (Luiz Gonzaga Araújo Frazão), dalla mostra “Renunciar / Mobi” al Museo d’Arte di Rio de Janeiro

Una fotografia di Mobi (Luiz Gonzaga Araújo Frazão), dalla mostra “Renunciar / Mobi” al Museo d’Arte di Rio de Janeiro

Un primo sguardo alla città e a queste contraddizioni era stata, al Museo d’Arte di Rio de Janeiro, l’emozionante mostra fotografica itinerante di Luiz Gonzaga Araújo Frazão, detto Mobi (1953-2007): è stato “il” fotografo di São Luís, anche promotore di iniziative sociali, ambientali e culturali, le sue foto ci mostrano la città, le sue trasformazioni, le sue lotte, la sua gente dagli anni Settanta al 2.000.
L’ha prodotta il Centro Cultural Vale Maranhão – CCVM (sì, proprio “Vale” come la multinazionale di cui è emanazione), che sviluppa progetti culturali un po’ in tutto il paese: che si tratti di pentimento o di compensazione, la sede di São Luís, come vedremo, ha un programma molto avanzato sul piano culturale e del riscatto sociale.

João do Vale (Poeta do povo), Pra mim não

Nella mostra, scopro anche João do Vale (1934-1996), compositore e cantante, “poeta del popolo”, i testi di alcune sue composizioni accompagnano le foto in mostra, fra gli altri questo “Pra mim não” (che dice molto di questa città).

Dicono che la schiavitù è finita
Ma per me no
Ma per me no
Ma per me no
Conosco quel detto
Tutti siamo fratelli
E il sole nasce per tutti
Ma per me no, per me no

Arrivo un venerdì sera e la città nel centro storico è piena di vita, molta gente nei locali all’aperto con musica dal vivo. Incrocio anche un gruppo che danza e sento musica registrata uscire dalle case.

São Luís de Maranhão, locali con musica e danze nel centro storico

E’ una città molto bella, patrimonio UNESCO soprattutto per gli azulejos (che qui sono più per proteggere gli edifici da pioggia e sole che per decorarli), ma non manca qualche bel palazzo coloniale, come il Palácio dos Leões del XVII secolo, già residenza ufficiale dei governatori. C’è poi una cattedrale, con un interessante museo di arte sacra…

Le strade sono acciottolate, le case colorate (e se capitate da queste parti non perdetevi l’affascinante Alcantara, su un’isola a un’ora di barca, ferma nel tempo: attenzione agli orari delle barche, sono legati alle maree).
Ma São Luís, in centro, è un po’ sgarrupata (credo che il termine napoletano si addica): ha il fascino della vitalità, della trascuratezza e della decadenza. Ti immagini cosa doveva essere, e cosa potrebbe essere.

São Luís de Maranhão, i quartieri nuovi visti da Ponta Dareia

Domenica, all’ora del tramonto, passo nella parte nuova della città, oltre il ponte. Ormai conosco un po’ le domeniche brasiliane: l’atmosfera sulla spiaggia qui mi sembra più familiare e pacifica. In questi quartieri non mancano grattacieli e edifici importanti, ma meno innovativi e molto meno folti che a Recife e Fortaleza. Sul lungomare però, anche con tavoli sulla spiaggia, c’è una sequenza di ristoranti, alcuni stellati.

Strade nel centro storico

Un sfilata amazzonica

Il Teatro Arthur Azevedo

Non mancano i teatri a São Luís: uno è dedicato proprio a João do Vale (nelle mie date c’è un concerto e una serata privata). Il principale, un bel teatro ottocentesco all’italiana del 1817 (l’esterno ricorda un po’ quello di Belem di cui ho già parlato), è il Teatro Arthur Azevedo (Azevedo era un drammaturgo e narratore, nato qui a metà dell’Ottocento), ma nelle mie date non sembra esserci programmazione (social e sito non sono aggiornati).

Il Teatro João do Vale

Manifesto “São Luís indigena”

Mi aspetta però una serata molto interessante al Centro Culturale Vale Maranhão. Si inaugura una mostra itinerante (è stata anche a Parigi), dedicata alla mappatura e valorizzazione delle lingue indigene: “Lingua, memoria e trasformazione”.
L’apertura è preceduta dalla presentazione di un progetto collegato (una piattaforma, un dizionario), con ricercatori e rappresentanti delle comunità indigene: discutono dell’importanza di preservare e studiare le lingue, esemplificano anche presentando un canto popolare.
La mostra – mappe e oggetti molto belli – documenta le lingue e le culture indigene del Brasile: sono 175 lingue censite, per 305 etnie, ma prima dell’arrivo dei portoghesi gli abitanti indigeni erano cinque milioni e parlavano più di mille lingue.

Centro Culturale Vale Maranhão, la mostra “Lingua, memoria e trasformazione”: la mappa delle lingue

L’obiettivo del Centro culturale è molto chiaro:

Queste lingue rappresentano diverse cosmovisioni, forme diverse di essere e di stare al mondo. (…) Quando una lingua sparisce, si estinguono universi. Riconoscere, valorizzare e rafforzare la nostra grande diversità sociale, culturale e linguistica è un compito più che urgente.

Centro Culturale Vale Maranhão: rappresentanti delle comunità indigene

Precede l’inaugurazione della mostra una sfilata di moda: presentano le loro collezioni tre giovani stilisti della regione amazzonica che si ispirano alla tradizione indigena. Sottolineano che la tradizione deve collegarsi e proiettarsi nella contemporaneità, questo è il senso del loro lavoro, che prende spunto e reinventa costumi tradizionali. Obiettivi e modelli molto creativi, e in qualche caso perfino portabili.

Ancora due notizie sul Centro Culturale Vale Maranhão, che è molto gradevole, in pieno centro storico, con diversi spazi raccolti: vuole essere un luogo di dialogo e pratica per artisti e produttori di cultura. Principale scopo è allargare l’accesso a tutti (a tutte le diversità), ma attraverso una programmazione rivolta a un pubblico contenuto, che privilegia la qualità nei diversi linguaggi artistici. Quindi attraverso mostre, pubblicazioni, spettacoli, progetti di formazione e scambio. Il Centro si propone anche di promuovere la ricchezza culturale del Maranhão posizionandolo fra gli importanti poli culturali del paese, sempre con una grande focalizzazione sulla cultura popolare.

Bumba meu boi” (Alzati toro)

L’espressione di cultura popolare per eccellenza, la festa “Bumba meu boi” (Alzati toro), si celebra anche in altre città del Nord e dell’Amazzonia, ma il cuore è a São Luís.

La sede di un “sotaque” di “Bumba meu boi”

La Casa do Maranhão conserva una ricca documentazione e trovo tracce diffuse della festa nella città: come per gli afoxè, i blocchi di Salvador di Bahia, come per le scuole di Samba a Rio, i gruppi musicali di “Bumba meu boi”, che si chiamano sotaque (che vuol dire accento) sono in tutta la città.
La festa si prepara per mesi, culmina per San Giovanni ma dura tutto il mese di giugno. E’ una grande messinscena partecipata, un po’ sacra rappresentazione, un po’ commedia dell’arte, con maschere, costumi, un canovaccio e personaggi ben precisi. E è un genere musicale, con le sue personalità di riferimento, evoluzioni nel tempo, incisioni. E’ pagana con echi cristiani, rurale e urbana, mescola tradizioni e leggende delle comunità indigene, africane, portoghesi: entusiasma gli antropologi e potrebbe vincere il campionato mondiale di sincretismo.

All’origine c’è sicuramente la povertà, il legame con la terra e l’allevamento, le gerarchie sociali e le lotte. E c’è il bue, come simbolo di ricchezza (come del resto in altre tradizioni e ad altre latitudini).
Sentite la leggenda (nata nel Settecento): protagonisti sono Chico (Pai Francisco, schiavo nero), Caterina (Mãe), marito e moglie, il bue-toro e il fazendeiro. E’ piuttosto complicata e non è facile da riassumere, trovo una sintesi in questo blog: leggi qua.
La leggenda vuole che il fazendeiro, un portoghese ricco di denaro e di potere, possedesse un toro di incredibile bellezza e forza.  Chico un giorno si ritrovò con una moglie gravida, che evava con una gran voglia di mangiare la lingua del migliore bue. Chico taglia la lingua (benefica, secondo la tradizione, allo stato di gravidanza) all’animale. E qui la leggenda inizia a biforcarsi. Una corrente di pensiero lo vuole morto, un’altra semplicemente “malato”. Secondo questa versione, dopo che il latifondista ebbe inviato i suoi uomini a trovare il bue scomparso, convocò una corte di personaggi: Chico, reo confesso, ma solo dopo un’infinità di bugie e di mezze verità; il dottore-veterinario, una specie di Dottor Balanzone, tutto medicine fantasiose e terapie ancora peggiori, parodia dell’arte medica (il meglio che gli riesce è di far muovere la coda al toro moribondo); il poliziotto, tonto e minaccioso, che però nulla può a fronte dell’astuzia di Chico; il prete, le cui preghiere si dimostrano tanto efficaci quanto le minacce dello sbirro. La svolta arriva grazie al pajé, ovvero lo stregone, l’uomo della medicina indigena, l’unico in grado di rimettere in forze – secondo la scuola di pensiero più tragica addirittura di far resuscitare – la bestia. Rinascita o semplice guarigione che sia, la storia ha un lieto fine: il bue vive felice e contento (senza entrare in dettagli tipo “come farà senza lingua?”), Chico viene perdonato e riabilitato, la gioia torna a regnare nella fazenda. Balli, canti, tutti a festeggiare l’happy ending del fattaccio.
La storia apparentemente ingenua è ricca di simboli, consente innumerevoli possibili variazioni interpretative e continua a divertire da forse duecento anni. Per quanto riguarda la musica, ci sono un centinaio di “sotaque” di bumba-meu-boi nello stato del Maranhão, ciascuno ha caratteristiche proprie, nell’abbigliamento, nella scelta degli strumenti, ritmi e coreografie. Tutti accompagnano le Festas Juninas con le loro infinite varianti.

La diaspora africana e la banda dei ragazzi, effetto Schindler’s List

A São Luís c’è un monumento impressionante dedicato alla Diaspora Africana nel Maranhão: si trova proprio nella zona dove si teneva il mercato degli schiavi. Elenca tutte le navi negriere approdate dal 1693 al 1841, per ogni nave si indica il nome, il paese di provenienza, il numero delle persone schiavizzate imbarcate e di quelle arrivate a destinazione.

Il monumento alla Diaspora Africana nel Maranhão

Il monumento alla Diaspora Africana nel Maranhão

A São Luís c’è anche una scuola di musica per ragazzi molto partecipata. Durante tutta la giornata potete sentirli suonare, e una volta al giorno la banda de musica do Bom Meninho fa il giro del centro. Sono belli, bravi, concentrati, allegri, numerosi: dai 10 ai 16 anni.

Tornando dalla spianata della mostra mi è successo di imbattermi nei ragazzi e mi sono commossa come ancora in questo viaggio non mi era successo. Come nel finale di “Schindler’s List” i sopravvissuti si sono moltiplicati, sono tanti, sono belli, sono allegri.

PROSEGUE, nella terza parte.
Brasilia, San Paolo, Foz do Iguaçu




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