Dirigere uno Stabile negli anni Novanta
La testimonianza di Mimma Gallina per il volume Dal vivo. I settant’anni del Rossetti – Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia a cura di Paolo Quazzolo
Il Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia festeggia i settant’anni con un volume a cura di Paolo Quazzolo, Dal vivo. I settant’anni del Rossetti – Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia (Electa). Il volume verrà presentato alle 11.30 presenta al Politeama Rossetti.
Questa è la versione integrale del contributo di Mimma Gallina Dal vivo. I settant’anni del Rossetti – Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia, che ha diretto il teatro dal 1992 al 1995.
Sono arrivata alla direzione del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia nella primavera del ’92, prima donna a dirigere uno stabile pubblico (e rimasta per anni unica). Avevo 39 anni e credo fossi anche la più giovane (a parte un paio di colleghi sui quaranta, quasi tutti i direttori erano over sessanta).
Il decreto del Ministro Tognoli del novembre 1990 riformava i Teatri Stabili, con alcune precise indicazioni rispetto alla gestione, al funzionamento, ai ruoli e a Trieste lo avevano recepito in un nuovo statuto, prevedendo per la figura del direttore un profilo tecnico e, direi, ibrido:
Art. 15 Il direttore. Ha la direzione artistica e tecnico-amministrativa e può proporre al Consiglio di Amministrazione la delega di compiti artistici o amministrativi ad altro personale o collaboratori dell’ente.
Dunque è fra l’altro il capo del personale e sovrintende alla gestione.
Perché proprio io? Per caso e – lo dico con ironia ma è stato proprio così – per meriti sul campo.
Dopo molti anni con una compagnia (Il Gruppo della Rocca), dal 1987 lavoravo con una società di servizi (Emmecinque s.r.l) con base a Milano, ci occupavamo di scambi internazionali, progetti culturali vari (non solo spettacolo) e gestione di festival. In particolare, nell’estate del ’91 avevo curato l’organizzazione del Mittelfest di Cividale del Fiuli, alla sua prima edizione: era stata un’impresa non facile, preparata in pochissimi mesi ed era andata in porto con ottimi risultati.
Il link
I primi anni di Mittelfest
Il collegamento con Mittelfest è poi rimasto determinante nei miei tre anni allo Stabile.
E così, notata sul campo, da funzionari della Regione, dal vicepresidente e direttore del Circuito Regionale, Rodolfo Castiglione, e soprattutto dal presidente, il sindaco di Trieste Franco Richetti (che di Mittelfest era assiduo spettatore) devo essere sembrata il “tecnico” giusto, capitata sul territorio al momento giusto.
Sono tuttora grata al Presidente Richetti che mi ha dato fiducia, e per indicazioni precise (che ritrovo nel suo contributo al libro dedicato ai quarant’anni del teatro) e per il confronto di allora.
In quel libro (che è del 1994) ritrovo anche stralci delle mie dichiarazioni programmatiche e relazioni al Consiglio: le riflessioni sulla situazione nazionale degli Stabili (non era un bel periodo per il teatro pubblico, ma era importante pensarsi come “sistema”), sulla situazione economiche del nostro teatro (che era stato da poco risanato e non sembrava difficile tenere sotto controllo, anche se forse l’inevitabile rigore avrebbe determinato – e infatti determinò – qualche tensione con il personale) e le linee artistico-organizzative, che rimandavano alle funzioni degli Stabili pubblici: la principale riguardava l’attività di produzione, ed era la necessità di darsi una compagnia stabile (una scelta che aveva un precedente importante nella storia del teatro).
Decisi allora di non dare le deleghe che lo statuto ipotizzava (presidente e direttivo condividevano), il mio profilo era organizzativo e progettuale, senza rischio di altre tentazioni: non ho mai pensato di fare regie (per essere chiara) ma ho sempre pensato che la componente artistico-culturale e organizzativa debbano restare strettamente collegate. Decisi però di dare un incarico preciso per la costruzione e conduzione della Compagnia Stabile, e la scelta cadde sul regista Nanni Garella: non si trattava solo di realizzare spettacoli, ma di creare un gruppo, e di costruire un percorso. La compagnia fu un progetto molto meditato, pensata un po’ all’antica (per ruoli direi), basata anche sulla disponibilità a farsi coinvolgere e sulla generosità degli attori, e fu una bella compagnia: punto di forza era Ottavia Piccolo e con lei Virginio Gazzolo, e intorno a loro Dorotea Aslanidis, Gianni De Lellis e Giorgio Lanza, e i giovani Graziano Piazza e Sara D’Amario (e mi scuso con gli altri che non cito, parecchi, con periodi inizialmente differenziati, e l’idea di allargare in prospettiva anche ad attori giovani, anche triestini e friulani, in un processo di formazione interna).
Il progetto di Garella ruotava intorno al “dramma borghese”, in particolare alla drammaturgia di area tedesca e Mitteleuropea, che sembrava particolarmente congeniale alla città di Trieste. Ricordo soprattutto Intrigo e amore di Schiller (traduzione commissionata a Busi), Medea di Grillparzer (tradotta da Claudio Magris), mentre L’avventura di Maria di Svevo, che nella stagione 95-96 chiuse (credo) quell’esperienza.
La compagnia stabile era solo una parte del progetto produttivo. Dalla direzione precedente (di Furio Bordon) avevo ereditato la collaborazione con la compagnia di Glauco Mauri e Roberto Sturno che prevedeva un ciclo di coproduzioni. La più importante nel mio periodo di direzione fu L’idiota di Fëdor Dostoevskij, riduzione di Furio Bordon, regia di Glauco Mauri, con Robero Sturno (che vorrei ricordare come perfetto nel ruolo del principe Myškin a fianco di una bravissima, giovane Elena Ghiaurov). In alcuni casi i percorsi si intrecciavano, come accadde per Anatol di Schnitzler, versione italiana di Furio Bordon, regia di Nanni Garella, protagonista Roberto Sturno.
Vorrei soffermarmi su altre scelte e percorsi di lavoro collegati a come vedevo – o forse mettevo a fuoco progressivamente – le specificità e le identità del territorio. La città di Trieste ha esercitato su di me (come su tutti) una grande fascinazione, ma anche il Friuli-Venezia Giulia così vicino e così lontano, così diverso (ma non dimentichiamoci che di stabile regionale si tratta e bisognava tenerne conto). La collaborazione che mantenevo con Mittelfest in quel periodo poi, orientava tutte le letture, i viaggi, le relazioni internazionali in direzione nord-nord est.
Con Grillparzer, Svevo, Magris, Bordon, cercavamo di tenere conto e di valorizzare nei progetti di produzione la componente mitteleuropea, correndo un po’ il rischio di farlo in una dimensione esclusivamente intellettuale, guardando al passato, mentre Austria e Ungheria erano a poche ore di macchina, e la Slovenia e la Croazia erano in casa, da poco indipendenti e subito oltre il confine. E rischiavamo di dimenticare la componente slava e mediterranea (perché i triestini sono soprattutto – secondo me – gente di mare).
Avevo così cominciato a pensare a sviluppare relazioni internazionali e fare qualche primo passo in direzione dell’Ungheria e dell’Austria: ospitammo le Marionette di Budapest e la compagnia di danza di Yvette Boszik, sempre da Budapest, e il gruppo Serapions da Vienna; Medea di Grillparzer andò in tournée nelle due capitali austroungariche, e le Marionette di Podrecca a Budapest (ma anche a Salonicco). Erano le prime tappe di un percorso internazionale che avrei voluto sviluppare e fu anche un proto-progetto europeo dal titolo “dal Danubio al Mediterraneo” (che fu in effetti finanziato – uno dei primi finanziamenti europei – ma non credo sviluppato oltre gli episodi che ho ricordato).
Quella internazionale era forse anche la strada per valorizzare le Marionette di Podrecca: il principale problema era la formazione degli animatori, il rapporto costi ricavi, l’effettiva possibilità di rinnovare il repertorio (non siamo riusciti a fare molto in quei tre anni).
Ma sono due gli spettacoli che più di tutti hanno incarnato il mondo di confine che Trieste e il Friuli rappresentano: L’ora in cui non sapevamo niente l’uno dell’altro di Peter Handke e I turcs tal Friul di Pier Paolo Pasolini. Sono spettacoli che ho amato molto e che sento molto “miei”, forse perché i testi stessi suggerivano i modi di produzione e perché le strategie produttive sono state parte fondamentale del processo creativo e dei risultati.
Il testo di Handke è una lunga didascalia: dall’angolo di una piazza (si dice che Handke l’abbia scritto a Muggia, seduto a un tavolino di caffè) vediamo le persone di tutti i giorni, immaginiamo le loro storie, le stesse persone passano in stagioni ed epoche diverse… sulla piazza passa la storia. Ero stata a Vienna a vedere l’edizione che ne aveva fatto Claus Peymann per il Burgtheater e ne avevo parlato con Giorgio Pressburger, regista e direttore artistico di Mittefest. Era lo spettacolo perfetto per la piazza Paolo Diacono di Cividale e per farne uno spettacolo internazionale. Mittelfest mise una quota come collaborazione alla produzione, Pressburger ebbe l’idea di affidare la lettura della didascalia a un attore, per l’edizione italiana fu Mariano Rigillo (l’edizione di Peymann era completamente muta). In breve: fu la prima coproduzione fra il nostro Teatro Stabile e il Teatro Stabile Sloveno (in seguito non so se ce ne siano state altre). Ma non solo: oltre agli attori sloveni e italiani coinvolgemmo cinque accademie d’arte drammatica: quelle di Vienna, Budapest, Lubiana, Zagabria e Udine. Lo spettacolo ci riguardava da vicino, emanava energia, debuttò a Mittelfest e poi fece qualche replica al Rossetti e qualche altra al Teatro Sloveno (era irrazionale replicare in due diversi teatri a Trieste, ma non ci fu niente da fare: si poteva collaborare, ma nessuno dei due teatri poteva rinunciare a presentare lo spettacolo nella propria sala, o forse si preferiva non mescolare il pubblico).
Rischio di dimenticare: Pressburger aveva fatto un altro bello spettacolo con noi, sempre con il sostegno co-produttivo di Mittelfest: Una solitudine troppo rumorosa di Bohumil Hrabal, con uno strepitoso Paolo Bonacelli e le scene spettacolari di Enrico Job. Fu il primo del mio triennio di direzione.
I turcs tal Friul di Pier Paolo Pasolini fu l’ultimo. Andò in scena quando non ero più direttore, ma non per questo lo amo di meno: il progetto di produzione fu un’altra quadratura del cerchio. Era il 1995, vent’anni dalla morte di Pasolini, e I Turcs è il suo unico testo teatrale in friulano. Informandomi sui diritti ero venuta a sapere che li aveva già presi Elio De Capitani e così concordammo una coproduzione con il Teatro dell’Elfo, e con la regia dello stesso De Capitani. Fu l’Elfo a concordare la collaborazione con la Biennale di Venezia, dove lo spettacolo debuttò, all’Arsenale: molti lo hanno ricordato di recente in occasione della scomparsa di Giovanna Marini, le sue musiche erano un punto di forza. Il risultato, davvero eccezionale, fu anche il frutto di una rete di collaborazioni e laboratori sul territorio friulano, soprattutto nel pordenonese. Fino ad allora la presenza in regione dello Stabile si era limitata a qualche replica in tournée, non aveva mai comportato collaborazioni così strutturate e questa era l’occasione: la lingua friulana era protagonista.
Sono grata dell’occasione del libro sui settant’anni per poter raccontare tutto questo: la compagnia stabile, i processi produttivi, i progetti internazionali… tutte cose che rischiano di andare perdute nell’elenco degli spettacoli, e i credits dicono qualcosa solo a chi c’era.
Scorrendo le stagioni – sul sito del Teatro Rossetti – ricordo bene anche i meccanismi di scelta e programmazione delle ospitalità. Ci sono molti stabili, con scambi inevitabili ma anche convinti, non sempre gli spettacoli sono memorabili con qualche eccezione (come i grandi spettacoli di Strehler in repertorio). Non manca il teatro privato con attori bravi e noti (ma avevo fatto molto arrabbiare il consigliere Guido Botteri – che ricordo con simpatia – per aver escluso qualche presenza fissa da decenni): nel complesso le scelte si orientano sulla drammaturgia contemporanea, italiana e straniera, anche con qualche proposta brillante e qualche incursione nel musical.
Poi ci fu la scelta di insinuare in una programmazione storicamente molto convenzionale semi di innovazione: scelte abbastanza coraggiose probabilmente per allora, anche se, viste a distanza di trent’anni, sembra incredibile: ospitare allora a Trieste Virgilio Sieni o Leo De Berardinis o Toni Servillo o Judith Malina era trasgressivo. Scelte che non erano per niente apprezzate dal Presidente che era subentrato a Franco Richetti, l‘assessore alla cultura della giunta Illy, Roberto Damiani. Non pensavo che i miei tentativi di “rinnovare il gusto” (così scrivevo), o almeno informare sulla ricerca teatrale contemporanea, ci avrebbero fatto perdere pubblico, ci avrebbero semmai consentito di differenziarlo, ringiovanirlo…
Certo quegli spettacoli non erano adatti per il Rossetti, che aveva fra l’altro un’acustica pessima (ricordo la perizia che fece un ingegnere israeliano e l’installazione che ci suggerì – e che realizzammo – per rimediarla empiricamente: chissà quanto è durata), era invece perfetto per i cantautori che ospitammo in quegli anni (Gaber col Teatro Canzone naturalmente ma anche – fra gli altri – Dalla, De André, Morandi…).
La Sala Bartoli non era ancora aperta al pubblico e una programmazione articolata, anche per pubblici diversi, avrebbe richiesto spazi intermedi: in questo forse le scelte innovative rischiavano di essere poco protette, senza uno spazio intermedio il rischio era che fosse il Rossetti stesso a dettare la programmazione e la linea del teatro (e così è stato, negli anni immediatamente successivi: “il Rossetti” è diventato un brand).
Quando ci penso mi chiedo se ho corso troppo o, anzi, troppo poco (forse avrei potuto bruciare un po’ le tappe): certo è che non ho avuto la possibilità e il tempo di verificare se qualche trasformazione fosse stata innescata, anche se la solidarietà da parte del pubblico quando non fui confermata me lo fece credere. Comunque sia, è stata una bella esperienza.
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