Fabulatore, poeta, militante ma soprattutto comico in rivolta

La prefazione a Su un comico in rivolta. Dario Fo, il bufalo, il bambino di Claudio Meldolesi (Cue Press, 2024)

Pubblicato il 04/12/2024 / di / ateatro n. 201

Escono in questi giorni, editi da Cue Press, due volumi di un grande “studioso militante” del teatro italiano come Claudio Meldolesi.
Il primo è Su un comico in rivolta. Dario Fo, il bufalo, il bambino, che ripercorre l’esperienza militante di Fo nel contesto delle lotte degli anni Sessanta e Settanta, evidenziando la sua partecipazione, nonché il suo rapporto con gli intellettuali di massa.
Nel secondo, Fra Totò e Gadda. Sei invenzioni sprecate dal teatro italiano, Meldolesi esplora in sei saggi acuti e illuminanti la versatilità comica di Totò, il difficile equilibro di Eduardo tra scrittura e oralità e tra dialetto e lingua, il recupero della cultura attorica da parte di Mario Apollonio, le regie d’avanguardia del giovane Strehler, la trasmutabilità del teatro di Pirandello e la drammaturgia al confine con il romanzo di Gadda. Sulla scia di queste intuizioni, la categoria storiografica di “invenzione sprecata” è stata a volte utilizzata anche da Ateatro, per mettere in luce l’inerzia del sistema teatrale italiano di fronte a proposte potenzialmente innovative anche in epoche più recenti.
Su gentile concessione dell’editore, pubblichiamo qui la prefazione di Oliviero Ponte di Pino a Su un comico in rivolta. Dario Fo, il bufalo, il bambino di Claudio Meldolesi.

Dario Fo e Franca Rame sono stati per decenni la bestia nera dei conservatori italiani, il bersaglio privilegiato di democristiani, vescovi e fascisti. Sono diventati un obiettivo prioritario fin dal 26 novembre 1962, quando abbandonarono Canzonissima, seguitissimo show del sabato sera in una tv che aveva un solo canale, e vennero banditi dalla televisione per quindici anni. Da allora le destre hanno continuato con ossessiva insistenza ad attaccare Dario e Franca, due teatranti di successo, politicamente schierati e intellettualmente “impegnati”. Emarginati da un establishment culturale conformista e opportunista, vennero esclusi dai giochi di potere del sistema teatrale italiano: Fo, come Luigi Pirandello e Eduardo De Filippo, non ha mai potuto gestire il suo teatro.

Il comunicato di solidarietà degli operai edili a Dario Fo dopo la censura di Canzonissima nel 1962.

Gli sberleffi di Dario Fo non potevano piacere ai reazionari. Basta leggere la motivazione del Premio Nobel: “Seguendo la tradizione dei giullari medievali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi”. Tutto questo gli è valso 47 processi e un arresto, nel 1974 a Sassari, per ragioni di censura e ordine pubblico (salvo poi essere scarcerato a furor di popolo). Questa persecuzione giudiziaria ricorda quella che subì Pier Paolo Pasolini, anche se questi due intellettuali programmaticamente scomodi erano divisi da un’insuperabile antipatia personale e culturale(1).
In Su un comico in rivolta. Dario Fo, il bufalo, il bambino, Claudio Meldolesi fa poche concessioni alla cronaca: sia l’autore sia i lettori all’epoca vivevano quotidianamente quelle polemiche, che oggi rischiano di apparire sfuocate. Resta l’ossessiva ripetitività degli attacchi dei “nemici naturali”. Ma ci sono anche i distinguo – a volte altrettanto feroci – da sinistra, le pugnalate di quelli che avrebbero dovuto essergli naturali “compagni di strada”.
Perché non c’erano solo gli attacchi della stampa “borghese”, spesso conditi di diffamazioni e insulti. Fo è stato duramente criticato anche “da sinistra”, nella frenetica e confusa svolta tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta. O meglio, Dario Fo venne attaccato dalle varie anime di una sinistra come sempre divisa e frammentata.
La “destra della sinistra”, ovvero il PCI, non apprezzava lo slittamento di Fo verso atteggiamenti considerati estremisti e avventuristi, vicini alla nascente sinistra extraparlamentare dei gruppuscoli marxisti-leninisti. Il Partito veniva messo in imbarazzo dal suo appoggio alle mobilitazioni dei lavoratori che sfuggivano al controllo del sindacato di riferimento, la CGIL. Lo scontro scoppiò, durissimo, già nel 1969, in occasione dello spettacolo L’operaio conosce 300 parole, il padrone 1000, per questo lui è il padrone, ispirato all’opera di don Lorenzo Milani e a Lettera a una professoressa (2).

La “sinistra della sinistra”, radicalmente egualitaria e spesso culturalmente attrezzata, rimproverava a Fo di essere rimasto nella sostanza una star da rotocalco e dunque di aver mantenuto una posizione di superiorità, sia all’interno della compagnia sia nei confronti del pubblico. Queste diatribe portarono ben presto a una crisi irreversibile all’interno del Collettivo Teatrale Nuova Scena, l’organizzazione che dal 1968 faceva circuitare il lavoro di Fo nelle fabbriche e nelle università occupate, nelle piazze, nei circoli ARCI e nei centri sociali, portando il teatro nei luoghi del conflitto, mettendolo al servizio di chi lottava. Nell’ottobre del 1970 Dario e Franca (con Nanni Ricordi, l’amministratore) decisero di andarsene e fondarono il Collettivo La Comune, segnando la rottura definitiva con in circuito del PCI e dell’ARCI. Proprio per questa posizione di capocomico attento agli umori del pubblico, nei suoi spettacoli Fo avrebbe trasmesso contenuti politicamente confusi e non abbastanza rivoluzionari: per lui l’estetico continuava a prevalere sul politico, la risata veniva prima del contenuto, perché solo l’efficacia della comunicazione legittimava la diffusione del messaggio. Per i custodi dell’ortodossia, la strabordante presenza in scena di un protagonista che era anche narratore, portatore di oggettività (i documenti) e di soggettività (le invenzioni fantastiche), avrebbe reso ambiguo sia l’emittente sia il messaggio.
Questi attacchi si intrecciavano con un altro ordine di critiche, di natura storico-accademica. Fo avrebbe utilizzato con eccessiva disinvoltura (o addirittura re-inventato con troppa libertà, secondo alcuni studiosi) le fonti e in sostanza la tradizione “popolare” cui diceva di attingere. Il fondamento culturale che sbandierava, con grande forza di suggestione, per legittimare il suo lavoro, e in particolare il legame tra i testi medievali e Mistero buffo, non poteva superare un serio scrutinio filologico (3).
Alla metà degli anni Settanta, quando decide di scrivere Su un comico in rivolta, Claudio Meldolesi è immerso in questo contesto politico e culturale. L’autore-attore-capocomico è stretto in una morsa. La destra lo attacca sistematicamente, ma buona parte della sinistra non lo considera un martire, anzi. Da un lato il PCI giudica il suo impegno politico avventurista, ingenuo e pericoloso, e dall’altro lo si accusa di non essere abbastanza pericoloso, di essere troppo ingenuo per essere un vero rivoluzionario. In sintesi, per gli uni e per gli altri in Fo c’è puzza di paternalismo e populismo. Gli insulti e le fake news di una destra rozza e incolta non meritano quasi l’attenzione dello studioso. La sua non è nemmeno una difesa d’ufficio dai vari attacchi “da sinistra”, anche se i vari capi d’accusa vengono puntualmente citati e smontati.

Dario Fo

Per affrontare il “caso Fo”, Meldolesi deve dipanare un doppio paradosso. Come conciliare il successo di massa con la scomunica lanciata (di fatto) dal grande partito di massa della sinistra (oltre che con il lungo ostracismo della RAI democristiana)? E come conciliare questo stesso successo di massa con il settarismo minoritario dei gruppuscoli e degli intellettuali marxisti, che erano il punto di riferimento politico e ideologico di Fo (che però saggiamente non prese mai una tessera di partito) e del suo pubblico? I leader politici e culturali, grandi e piccoli, lo hanno messo al bando, ma lui resta popolare senza rinunciare mai a fare opposizione, fedele al suo ruolo di provocatore.
Per sciogliere questi nodi, è necessario capire (o spiegare) la logica dello sviluppo umano e artistico di Fo e sottolineare che il suo valore non è frutto del genio ma nasce da precise condizioni sociali e antropologiche, dalla potenza delle sue intuizioni e da un dialogo costante e fecondo con le proprie motivazioni originarie. Meldolesi dispone di una straordinaria “scatola degli attrezzi”. In primo luogo, sa usare gli strumenti della storia, della critica e della filologia, come conferma la sua brillante carriera universitaria. E’ un acuto storico del teatro italiano, con particolare attenzione all’attore, oltre che alla regia. Ma Meldolesi, con la sua compagna Laura Mariani, è stato anche militante nell’area dell’estrema sinistra: ne conosce la forma mentis, le virtù e i vizi, intuisce che sta imboccando un vicolo cieco culturale e di conseguenza politico. Un’ulteriore competenza lo distingue dalla maggioranza degli storici e dei critici di teatro: agli inizi della carriera, Meldolesi è stato anche attore, oltre che inventivo organizzatore di Teatro Scelta, con compagni d’avventura come Carlo Cecchi, Franco Prattico e Gian Maria Volontè. Grazie a queste avventurose imprese giovanili, ha vissuto e conosce dall’interno la scena, con le sue complesse dinamiche. Si è misurato con le logiche e i trucchi del mercato dello spettacolo. Ha imparato le strategie di sopravvivenza degli attori. Sa che lo spettacolo (e in generale l’arte) e la politica sono due cose diverse, anche se sono due facce della stessa medaglia. Questo arsenale di studi ed esperienze fa di Meldolesi uno dei più profondi osservatori della storia del teatro italiano. E’ in grado di scoprire – usando come filtro la propria sapienza storica – le radici del presente. Legge lo scenario contemporaneo (la “fase”) con tutte le sue miserie, le sue speranze e le sue convulsioni. Riesce ad accompagnare, e a volte anticipare, l’evoluzione di molti fenomeni (e di molte realtà, artisti e compagnie) che hanno innovato la scena italiana.
L’analisi di Meldolesi sul “caso Fo” è esemplare. Ne ripercorre il percorso biografico, partendo dall’infanzia e dalla formazione, soprattutto da alcuni episodi apparentemente goliardici, nei quali riconosce importanti nuclei germinativi (4). Successivamente si concentra sulle dinamiche del teatro italiano degli anni Cinquanta, ritrovando un imprevedibile e illuminante precedente in un attore che fu tra i protagonisti del Risorgimento:

“Era dall’epoca di Gustavo Modena, più d’un secolo fa, che un grande attore non riversava sui nostri palcoscenici una così organica passione politica”.

Soprattutto, pone il giovane Fo, autore e attore, a confronto dialettico con il fenomeno teatrale più rilevante di quegli stessi anni, l’affermazione della regia e il tramonto del grande attore. Il percorso di auto-formazione di Fo negli anni Cinquanta diventa un corpo a corpo con l’idea di regia “come mestiere di conservazione istituzionale della distanza fra la parola e la cosa”, in polemica con Giorgio Strehler (che pure aveva avuto un ruolo chiave ai tempi del Dito nell’occhio)(5).
Meldolesi conosce bene le ragioni e i metodi dei professori e dei politici. Ma non risponde ai loro attacchi ponendosi al loro livello. Parte da un altro presupposto, si muove su un piano diverso.
Il teatro è un’arte sociale che si nutre del rapporto con il pubblico, mettendo in cortocircuito l’attualità, anche nelle sue urgenze politiche e polemiche, con i tempi lunghi della tradizione e le regole non scritte dell’arte. Fo è uomo di teatro, e come tale agisce e reagisce agli stimoli che raccoglie. Cerca di conciliare la forma poetica e l’efficacia comunicativa, prima di preoccuparsi della coerenza ideologica e degli scrupoli filologici. Usa quello che gli serve e come gli serve. Per intuito e per antica sapienza, riesce a connettere sulla scena le spinte contraddittorie del presente, innescandole su livelli e complessità più profondi. In questo stanno la sua forza e i suoi limiti. Ma in ogni caso non ha senso giudicarlo sulla base di logiche che gli sono estranee e che lo azzopperebbero in quanto uomo di spettacolo. Si tratta piuttosto di entrare “nella sua fabbrica di attore, di riduttore, di poeta” e di capire quali processi metta in atto.
Negli anni successivi, dopo questo sondaggio profondo, Meldolesi è tornato di rado a riflettere su Fo e sul suo lavoro. Se lo avesse fatto, avrebbe probabilmente esplorato aspetti che aveva lasciato in secondo piano. Forse avrebbe collegato le “invenzioni” di Fo alla ridefinizione del concetto di cultura popolare che proprio alla metà degli anni Settanta stava emergendo, anche sulla scia della diffusione delle idee di Michail Bachtin, ancora prima della traduzione italiana di L’opera di Rabelais e la cultura popolare nel 1979(6), dalle ricerche di Piero Camporesi, a partire del Libro dei vagabondi(7), e di Carlo Ginzburg, con Il formaggio e i vermi(8). E certo Meldolesi avrebbe riconosciuto più ampiamente il debito con Franca Rame, qui citata di sfuggita, ma anche il rapporto generativo con la letteratura e soprattutto con le arti visive (9).
L’ultimo Fo, più rinascimentale che medievale, ha dedicato una serie di volumi e di conferenze-spettacolo ai grandi maestri della pittura, che sono da un lato opera di divulgazione e dall’altro rivendicazione della propria identità di pittore: si è occupato di Leonardo, Caravaggio, Mantegna, Raffaello, Michelangelo, Giotto, Correggio, ma anche di Picasso (10).
Sul fronte letterario, negli ultimi anni, smessi progressivamente i panni dell’attore e del drammaturgo, Fo ha tradito il consiglio di Meldolesi e ha ceduto alla tentazione di svelare, almeno in parte, obliquamente, la “materia gelosa” delle “leggende dei fabulatori del lago” (11).
Un ulteriore aspetto che Meldolesi avrebbe forse approfondito, anche alla luce della sua riflessione sull’impegno politico dei teatranti ai tempi della Rivoluzione Francese (12), è il rapporto con i mass media e la figura pubblica dell’intellettuale, nel momento in cui le culture subalterne sono state spazzate via dalla scolarizzazione e dalla cultura di massa e il “popolare” è stato sommerso dal “pop” e dall’industria culturale. Ma è su questa base che diventa comprensibile – per certi aspetti inevitabile frutto di una affinità elettiva – il sostegno, negli ultimi anni, a un altro “comico in rivolta” come Beppe Grillo e al Movimento 5 Stelle.
Meldolesi porta alla luce – tirando una molteplicità di fili – quello che c’è dietro una risata, e la battuta che la scatena. Illustra la dinamica tra l’attore e il suo pubblico, che cambia l’uno e gli altri. Lascia intuire quali possano essere le ricadute dell’attività artistica sul corpo sociale e politico.
Ripartendo da questa pagine, è possibile continuare l’indagine sulla meccanica del processo creativo, come composizione dinamica di squilibri, e sul ruolo dell’intellettuale. In questo l’autore-attore è un oggetto di studio particolarmente interessante, visto che in lui l’opera si sovrappone alla maschera: in lui finiscono per coincidere l’artista e l’intellettuale, l’artefice e l’ideologo, l’artigiano (anche di sé stesso) e il tribuno.
La lezione di Meldolesi, in un’epoca di sovraesposizione mediatica e di influencer, offre suggestioni illuminanti. Il cuore segreto del libro è l’uso politico (e polemico) che Dario e Franca hanno fatto di sé e dei propri corpi, in scena e fuori, con la loro generosità e le loro ambiguità. Sono stati insieme gli ultimi “intellettuali impegnati”, quando viveva ancora Sartre, e i primi opinionisti, quando Maurizio Costanzo iniziava a celebrare i suoi talk show (senza peraltro invitarli). In bilico tra tradizioni (vere e inventate) e sperimentazioni, tra autenticità e provocazione, tra consapevolezza e intuito, sono stati gli ultimi frutti di una cultura nazional-popolare (o del suo sogno) e gli anticipatori della società dello spettacolo (e dei suoi incubi).

NOTE

1. Pasolini ha attaccato Fo in più occasioni con estrema durezza: sulla vicenda, vedi Pier Paolo Pasolini, Porcile, Orgia, Bestia da stile, Garzanti, Milano, 1979; Corrado Augias, Contestatori di tutto il mondo sparite, “l’Espresso”, 21 ottobre 1973; Chiara Valentini, Pum pum! Il Questore, “Panorama”, 22 novembre 1973. Fo ricambiò gli attacchi in diverse occasioni, se possibile con violenza ancora maggiore, prima e dopo la tragica scomparsa del suo “avversario” nel 1975, in diverse interviste: per esempio a Chiara Valentini (“Panorama”, aprile 1973), a Catherine Spaak, “Moda”, settembre 1985), a Felix Cossolo (“Babilonia”, aprile 1986).

2. Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1966.

3. Marzia Pieri, nel suo saggio Dall’antagonismo alla filologia: il Medioevo di “Mistero buffo”, in Menestrelli e giullari. Il Medioevo di Fabrizio De André e l’immaginario medievale nel Novecento italiano, EDIFOR, Firenze, 2012, cita per esempio un linguista e filologo come Gianfranco Folena, che delle invenzioni linguistiche di Fo ha scritto: “Questa interlingua teatrale è in sostanza un idioletto, una lingua individuale extragrammaticale, artificiale nella sua formula compositiva eppure di fortissima capacità comunicativa orale. […] È una ricapitolazione delle scaturigini, delle ragioni e del linguaggio del dramma popolare: e c’è alla base, oltre che un’abile strategia culturale e un’irriverente e paradossale intelligenza storica, l’intuizione della ragione profonda della commedia dell’arte e delle sue soluzioni linguistico-mimiche. […] Fo è la maschera più incisiva dei nostri giorni” (Gianfranco Folena, Le lingue della commedia e la commedia delle lingue, in Il linguaggio del caos. Studi sul plurilinguismo rinascimentale, Bollati Boringhieri, Torino, 1991).

4. Paradossalmente, nell’imperversare del revisionismo storico, anche la destra si concentrerà su quegli anni, cercando di minare la sua credibilità militante di sinistra, a partire dal suo comportamento ai tempi della Repubblica di Salò, per diffondere l’immagine di un Fo “repubblichino”. A iniziare fu un settimanale piemontese di destra, dove Fo veniva definito “voltagabbana, guitto, buffone pronto a mangiare in tutte le greppie (…) rastrellatore, repubblichino, intruppato nel battaglione Mazzarini” (Angelo Fornara, Il Fo rosso, detto Dario, già fascista, in “Il Nord”, 9 giugno 1977). Queste accuse vennero rilanciate da organi di stampa nazionali e Fo querelò l’autore dell’articolo, vincendo la causa.

5. Da questo punto di vista, il saggio che Meldolesi dedica a Fo è una sorta di controcanto alla sua opera maggiore, Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi, Sansoni, Firenze, 1984, nuova edizione Bulzoni, Roma, 2008.

6. Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale (1965), trad. it. Milli Romano, Einaudi, Torino, 1979.

7. Piero Camporesi, Il libro dei vagabondi, Einaudi, Torino, 1973, nuova edizione Garzanti, Milano, 2003.

8. Carlo Ginzburg, Il formaggio e i vermi, Einaudi, Torino, 1976, nuova edizione Adelphi, Milano, 2019.

9. Su questo vedi per esempio Concetta D’Angeli e Simone Soriani (a cura di), Coppia d’arte. Dario Fo e Franca Rame con dipinti, testimonianze e dichiarazioni inedite, Plus, Pisa, 2006.

10. Dario Fo, Lezione sul Cenacolo di Leonardo da Vinci tenuta da Dario Fo nel cortile della Pinacoteca di Brera a Milano il 27 maggio 1999, con VHS, Nuovi mondi, San Lazzaro di Savena, 2001; Id., Caravaggio al tempo di Caravaggio, Panini, Modena, 2005; Id., Il Mantegna impossibile, Panini, Modena, 2006; Id., Bello figliolo che tu se’ Raffaello, Panini, Modena, 2006; Id., Tegno nelle mane occhi e orecchi: Michelagniolo, Panini, Modena, 2007; Id., Giotto o non Giotto, Panini, Modena, 2009; Id., Correggio che dipingeva appeso in cielo, Panini, Modena, 2010; Id., Picasso desnudo, Panini, Modena, 2012.

11. Vedi per esempio Il paese dei mezaràt. I miei primi sette anni (e qualcuno di più), Feltrinelli, Milano, 2002.

12. Claudio Meldolesi, “La rivoluzione degli artisti e il terzo ‘Théâtre Italien’” (1991), ora in Laura Mariani, Mirella Schino, Fernando Taviani (a cura di), Pensare l’attore, Bulzoni, Roma, 2013.




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