Brasile: teatri, teatro e festa
Appunti teatrali di viaggio | Prima parte
Fra allegria e saudade
Ho viaggiato per due mesi in Brasile, fra luglio e settembre. Non era un viaggio professionale, vedere teatro non era lo scopo, ma ho cercato quando possibile di intercettarlo. Questo è un racconto con immagini di quello che ho incontrato: i teatri e il teatro in cui mi sono imbattuta, un po’ per caso, ma anche l’atmosfera di spettacolo diffuso che si respira nelle città.
Sono sicuramente la musica e la danza i generi più frequentati e decisamente pervasivi: nei locali, nei ristoranti, per le strade, nelle case si fa musica dal vivo, o registrata (a volume altissimo). Se non c’è musica nei ristoranti, c’è calcio su grande schermo (tutte le sere ci sono partite, io non capisco niente di calcio ma dalle reazioni appassionate sembrano partite in diretta). L’allegria cresce nel fine settimana, il sabato ci si imbatte spesso nella samba de roda (musicisti, ballerini e spettatori in cerchio, danzatori a turno in mezzo), la gente riempie le sale da ballo popolari, c’è sempre un clima di festa, anche quando festa non è.
E’ un’atmosfera speciale, che afferra il viaggiatore europeo senza che sappia bene di cosa si tratta, quella che faceva scrivere a Stefan Zweig nel 1941, in fuga dall’Europa, che “Basta mettere piede in Brasile per sentire l’anima schiudersi e divenire leggera” (Stefan Zweig, Brasile “Terra del futuro”, Elliot 2013). E dire (forse) a Charles de Gaulle che “Il Brasile non è un paese serio”.
Può sembrare un luogo comune rispetto a un paese dove non mancano certo i problemi, ma la festa emerge in effetti come tratto identitario ovunque, e in alcune città in particolare (fra quelle che ho visitato, a Rio de Janeiro, e soprattutto nel nord-est, a Salvador de Bahia, Recife, São Luís de Maranhão). Diffusi, molto colorati e ben allestiti sono i musei-case del carnevale o delle feste di giugno (quelle dedicate a San Pietro, Sant’Antonio, San Giovanni: forse anche più importanti del carnevale), e i centri culturali dedicati alle tradizioni musicali e di ballo locali e agli artisti che le hanno inventate, lanciate, contaminate (samba, frevo… e le infinite varianti). E ovunque arredi urbani permanenti che richiamano le feste e bandierine colorate e nastri devozionali, è facile anche imbattersi nelle sedi diffuse dei “blocchi” carnevaleschi e delle confraternite: luoghi partecipati e creativi dove si preparano le feste durante tutto l‘anno.
Forse la festa, e queste feste in particolare, tutte così diverse – per origini e storia, significato religioso e civile, aspetti estetici – ma con tratti fondamentali in comune può essere definita un “genere”, di certo è la forma di spettacolo brasiliana per eccellenza. Un modo di fare spettacolo in cui si fondono musica, danza, teatro di strada, parate e sfilate, costumi, maschere e mascheroni, invenzioni autoriali e creazioni collettive, religiose e laiche, urbane e rurali, antiche e contemporanee, impregnate di tradizioni afro ma anche indigene e europee: così meticce, così multidisciplinari e così popolari che di più non si può.
Le immagini del carnevale, la bossa nova, la samba, il calcio hanno in effetti plasmato l’immagine che abbiamo dei brasiliani, come un popolo cordiale e che ama divertirsi, combattente e ottimista non senza malinconia, la ”saudade”, l’altra faccia della medaglia. La mia generazione ascoltava canzoni come A banda o Alegria, cantate da Chico Buarque e Caetano Veloso allora poco più che ventenni (oggi splendidi intellettuali ottantenni), dove gioia, tristezza, noia e desiderio di fuga si intrecciavano. La realtà è mutata, e è sicuramente più complessa, ma forse qualcosa di vero ancora c’è, o almeno a me sembra di averlo riscontrato. (Per approfondimenti suggerisco dal ricchissimo e prezioso The Passanger-Brasile, Iperborea 2019, il saggio Apologia della frammentazione di Michel Laub)
Se una sera d’inverno uno spettatore (informazione, spazi, usi e assetti del teatro brasiliano)
Premetto che non so quasi niente e quasi niente ho visto in passato di teatro brasiliano: ho molto apprezzato gli spettacoli di Christiane Jatahy, Leone d’oro alla Biennale e artista residente al Piccolo Teatro di Milano, che è di Rio de Janheiro, e qualcosa so del Teatro dell’Oppresso di Augusto Boal, anche lui di Rio (di cui per la verità non ho trovato traccia in questo viaggio, ma molta in precedenti viaggi in Africa).
Non ho cercato “il meglio” del teatro brasiliano, ma – città per città – ho visto quello che capitava, quello che trovavo. Non mancano certo spettacoli e compagnie, ma una prima constatazione è stata che l’offerta è molto minore che in Italia, e concentrata nel fine settimana, con poche eccezioni. E’ un fenomeno che si sta diffondendo anche nelle nostre città ma – abituata al panorama ipertrofico di Milano – avere pochi spettacoli fra cui scegliere, o anche nessuno, in grandi città, addirittura capitali di stato, mi ha sorpreso. I motivi sono molti e intuitivi: la domanda effettiva nelle giornate lavorative rapportata al costo delle sale, l’organizzazione del lavoro di prova, ma soprattutto il fatto che i lavoratori dello spettacolo spesso (e sempre più spesso anche da noi) devono far altro per vivere.
Un altro problema in cui mi sono imbattuta sta nell’informazione. Nonostante il paese sia immenso (il Brasile è una confederazione con 26 stati), esiste un sito-biglietteria nazionale dedicato a spettacoli e eventi vari (scopri di più) che può essere consultato per città, per genere, per data… Uno strumento molto utile, ma che si limita alle proposte istituzionali e commerciali. Elenchi dei teatri pubblici e privati più organizzati nelle diverse città si possono trovare anche in rete (su trip advisor per esempio), ma i siti quasi sempre mostrano una programmazione a breve termine, tendenzialmente la stessa reperibile su sympla. Non ho intercettato canali informativi che segnalassero il complesso delle programmazioni, inclusi piccoli teatri, centri ibridi, locali indipendenti eccetera. E’ possibile naturalmente che esistano e che non li abbia individuati, ma i miei tempi erano troppo stretti per il passaparola e in qualche spazio sono capitata per caso (penso del resto che in viaggio affidarsi in parte al caso sia un metodo).
I centri culturali
Gli spazi meglio promossi e organizzati sono quelli che fanno capo ai SESC (l’acronimo sta per Serviço Social do Comércio). Questi centri culturali no profit furono creati nel 1946 e sono una rete capillare fondamentale, un po’ la spina dorsale per la diffusione del teatro e non solo (attuano progetti e servizi nei settori dell’istruzione, della sanità, della cultura in genere, dello sport, del tempo libero e dell’assistenza).
Li ho trovati nelle principali città che ho visitato ma sono presenti anche nei comuni dell’interno – anche con unità mobili – e nelle periferie: per esempio a San Paolo, fra centro e città metropolitana, ci sono ben 25 sedi. Sono spesso pregevoli anche dal punto di vista architettonico, come il SESC Pompeia, progettato nel 1977 da Lina Bo Bardi ( l’architetta di origine italiana Leone d’Oro speciale alla memoria della Biennale Architettura 2021). E’ un esempio di architettura modernista (o più precisamente del “brutalismo”), ma soprattutto uno dei casi più famosi a livello mondiale di riconversione di spazi industriali in un’ottica sociale e di recupero urbano: oltre a un teatro, un’arena flessibile, spazi espositivi, ristorante e numerose sale recuperate nell’antica struttura industriale, una doppia torre in cemento armato ospita impianti sportivi a ogni piano.
Per quanto la loro funzione pubblica sia fuori discussione, anche i SESC sono stati fra le vittime delle politiche culturali del governo di Jair Bolsonaro, che ha abolito la tassa obbligatoria che contribuiva a sostenerli, con gravi ripercussioni sulla programmazione in genere, e sullo spettacolo in particolare.
Un’altra rete di spazi di spettacolo significativi è quella del Banco del Brasile: le sedi sono prestigiose, all’interno di edifici storici o modernissimi, la vocazione prevalente è l’arte contemporanea. La banca nazionale, come anche le grandi imprese di Stato (Petrobras in particolare) sono fra i massimi sostenitori della cultura e dello spettacolo.
Da Bolsonaro a Lula
Le politiche brasiliane per il settore sono articolate e complesse, attuate dai diversi livelli di governo: lo Stato federale, gli Stati e i Comuni (con molte differenze locali) e integrano agevolazioni fiscali e sostegni diretti.
Nel periodo della presidenza Bolsonaro (2019-2022), le leggi che storicamente sostenevano il settore non sono state abrogate, ma è stato abolito il Ministero della Cultura e sono stati ridotti drasticamente i finanziamenti, tanto a livello statale che locale, e per di più in periodo Covid. Al contrario di quanto è successo da noi, si è creato un clima poco favorevole agli artisti anche nell’opinione pubblica. Il processo non è facilmente reversibile: si sono impoverite le istituzioni (mancano funzionari, non sempre i Comuni hanno incaricati alla cultura), si è affermata la tendenza – tanto a livello politico che di studi universitari – a enfatizzare il ruolo del mercato, anche dove il mercato non esiste, e si è diffuso il ricorso all’esternalizzazione della gestione degli spazi pubblici. Ignazio Lula da Silva, tornato al governo nel 2023, sta cercando di stimolare nuovamente i finanziamenti privati, rialzare quelli statali, stimolare e sostenere le amministrazioni locali, ma senza troppo successo, almeno per ora (con i privati) e una certa lentezza (la stessa che gli imputano in campo ambientale). Le elezioni locali di ottobre hanno ridisegnato il panorama politico, la coalizione fra sinistra e moderati ha vinto nel 75% dei comuni, nel 62% gli amministratori sono di centro, nel 13% di sinistra (Bolsonaro ha perso, ma ha roccaforti importanti), e molto, per le prospettive della cultura, dipenderà dai sindaci. Che il periodo non sia florido per il teatro, lo spettatore di passaggio lo coglie anche dagli spettacoli che, salvo eccezioni, sono a organico contenuto, spesso monologhi, con scene e costumi estremamente sobri, apparati e effetti tecnici minimali.
Uno sguardo al pubblico
Prima di entrare nel merito di teatri e spettacoli, mi sembra interessante segnalare alcuni aspetti che caratterizzano gli usi e la ritualità della partecipazione, comuni in tutte le città che ho visitato, e che ho notato soprattutto per qualche differenza rispetto agli usi italiani. I prezzi degli spettacoli sono di solito piuttosto bassi, posto unico e non numerato (almeno per gli spettacoli cui ho assistito). La prevendita on line è diffusa (attraverso il sito sympla di solito: di fatto un monopolio), ma serve per garantirsi un posto, non per sceglierlo. Gli anziani pagano la metà, come nei musei e in molte altre situazioni (per una legge federale in questo paese gli over 65 hanno corsie preferenziali ovunque e molti vantaggi, trasporti urbani gratis per esempio: il Brasile sembra in effetti un paese per vecchi, forse perché sono ancora pochi).
Per gli spettacoli che ho visto gli spettatori erano numerosi in rapporto alla capienza delle sale, spesso esaurite, mi sono sembrati un po’ di tutte le generazioni ma prevalentemente bianchi: in un paese visibilmente meticcio, dove vedi nelle facce delle persone tutte le sfumature di lineamenti e di colore (seppure con differenze da città a città), è una cosa che si nota.
Indipendentemente dalle esigenze sceniche gli spettatori entrano tutti assieme, arrivano molto per tempo per garantirsi un posto e si formano code lunghe, ma veloci. Gli applausi, anche quando sono intensi e entusiasti, si fermano dopo un paio di chiamate (da noi ultimamente si tende invece a prolungarle, forse esagerando un po’). Compagnie e singoli artisti parlano sempre dopo gli applausi (da noi qualche volta): ringraziano, fanno qualche considerazione o danno informazioni interessanti dal loro punto di vista, sul progetto artistico, sulle tournée… per me è stato davvero utile per capire qualcosa di più degli spettacoli -anche perché il materiale cartaceo è ridotto al minimo e scarso anche on line- dei meccanismi di sostegno, di produzione e di diffusione: molti degli spettacoli che ho visto erano fuori sede. Tutto questo (l’attesa, la non numerazione dei posti, lo scambio fra palco e platea dopo lo spettacolo) contribuisce a creare un’atmosfera amichevole e, direi, democratica.
I teatri d’opera: il trionfo della borghesia mercantile
In Italia siamo abituati a teatri d’opera splendidi che quasi non ce ne accorgiamo, anche qui ce ne sono di davvero speciali. Ve ne presento quattro.
A San Paolo, appena arrivata, mi imbatto nel Teatro Municipale, nessuno spettacolo in programmazione, ma mi intrufolo in un visita guidata. E’ il primo dei teatri di questo tipo che vedrò, costruiti a cavallo fra fine Ottocento e inizio Novecento. Lo stile è quello dell’epoca, “eclettico”, che si trova un po’ dappertutto (edifici pubblici, banche, dimore private prestigiose…), un mix di neoclassico, neorinascimentale, neobarocco. L’’edificio, terminato nel 1911, è ricco ma relativamente sobrio: il modello è l’Opéra di Parigi.
Il riferimento culturale, il modello dell’epoca per l’alta società brasiliana è Parigi. Ma c’è molto di italiano nella sua storia: al progetto dell’architetto brasiliano Ramos de Azevedo hanno collaborato gli architetti italiani Claudio Rossi e Domiziano Rossi e – fra le curiosità della visita – apprendo che la prima stagione fu affidata alla compagnia del baritono italiano Titta Ruffo e la prima opera rappresentata fu Il Guarany di Antônio Carlos Gomes dal romanzo di José de Alencar. Gomes è il maggiore compositore brasiliano dell’Ottocento, molto apprezzato anche da noi: in effetti la prima assoluta del Guarany, alla Scala il 19 marzo 1870, fu un grande successo, che si rinnovò poi a livello internazionale. Trovo continui riferimenti a quest’opera negli altri teatri (che le dedicano sipari) e nei musei storici: è una pietra miliare della cultura ottocentesca, la storia – piuttosto complicata – è ambientata alla fine del Cinquecento e narra dell’amore contrastato fra una fanciulla bianca e un capo indigeno di nobili sentimenti e coraggioso, e si collega a una tendenza della cultura brasiliana dell’epoca (“indianismo”) che tende a idealizzare i popoli indigeni.
Inaugurato solo un paio anni prima, nel 1909, ma ancora più lussuoso e parigino e un po’ esagerato è il teatro Municipale di Rio, che del resto era la capitale del Brasile repubblicano. Colpisce subito la posizione nella città, all’inizio della Avenida Rio Branco, che non ha niente da invidiare a un grande boulevard parigino e attraversa il centro storico fra magnifici edifici in stile “eclettico”. Una posizione e una funzione fortemente simbolici.
Le maggiori personalità della musica internazionale del Novecento sono passate di qua. Oggi è sede dell’Orchestra Sinfonica Petrobras (la compagnia petrolifera di Stato), e dell’Orchestra Sinfônica Brasileira. Nel mio periodo di permanenza in città si preparano celebrazioni pucciniane.
Rio era la capitale del Brasile, ma Belem, nello stato del Parà alla foce del Rio delle Amazzoni, era la capitale del caucciù, il punto di arrivo della ricchezza improvvisa che ha travolto il Brasile nell’ultimo quarto del XIX secolo e all’inizio del XX. Il teatro da Paz, più antico, più elegante e raffinato di quelli di Rio e San Paolo, nella piazza-parco che costituisce il cuore della città, inaugurato nel 1878 è un simbolo di questo periodo d’oro, quando Belem voleva essere la Parigi del nuovo mondo.
Il progetto architettonico è ispirato al Teatro alla Scala di Milano. Oggi ha una programmazione molto intensa di musica sinfonica, opera (anche con un apprezzato festival), musical, balletto, un cartellone all’altezza di una città che appare molto dinamica e in espansione.
Se Belem era il punto d’arrivo, Manaus – a sei giorni di navigazione risalendo il grande fiume, fino alla confluenza col Rio Negro – era il porto di partenza del cosiddetto “ciclo del caucciù”: una delle città più ricche del mondo a cavallo fra i due secoli (molti ricorderanno il film Fitzcarraldo con la regia di Werner Herzog, 1982).
Quella di allora fu una ricchezza malsana, fondata sullo sfruttamento delle persone e della natura, generò i problemi dell’Amazzonia di oggi, e fu anche effimera (bastò diffondere l’albero della gomma in Malesia perché la bolla si sgonfiasse). Che tanta ricchezza si accumulasse in questa estrema periferia del mondo, praticamente in mezzo alla foresta, e che il simbolo della città, il suo cuore, fosse un teatro, sorprende ancora oggi: il Teatro Amazonas, inaugurato nel 1896, lascia a bocca aperta, è esagerato e trasuda ricchezza, ma è davvero molto bello.
Fu progettato dall’architetto italiano Celestial Sacardim, che coinvolse costruttori, pittori e scultori da tutta Europa. La cupola spettacolare e multicolore è decorata con tegole colorate dall’Alsazia, scalone, statue e colonne sono di marmo di Carrara, i lampadari sono realizzati a Murano, gli arredi dalla Francia, l’acciaio per la costruzione dall’Inghilterra.
Con la fine dell’era del caucciù, la città decadde e il teatro restò chiuso per più di trent’anni fino a che, nel 1965, fu dichiarato monumento nazionale e qualche anno dopo restaurato. Negli ultimi decenni l’economia si è ripresa, già negli anni Sessanta Manaus è diventata zona franca e oggi è una città sempre più grande, dinamica e attrattiva (di investimenti e di persone: i profughi dal Venezuela arrivano in grande misura qui): il merito è della soia, soprattutto, e del legname, ma anche di molte industrie manifatturiere, dei servizi, non ultimo del turismo.
O forse potremmo parlare di colpa: il destino di questa città è quello di essere al centro dello scontro fra sfruttamento e difesa dell’ambiente, produzione di ricchezza e ridistribuzione, privilegi e tutela dei diritti. E il Teatro Amazonas è tornato a esserne il simbolo, per i turisti il principale luogo da visitare prima di immergersi nella foresta, ma anche il centro della vita culturale della città. Ha una programmazione intensa, una stagione sinfonica, una lirica, un festival di teatro, uno di danza, un’orchestra sinfonica stabile, un coro, un gruppo di danza folcloristico. Agli eventi e agli spettacoli professionali affianca spettacoli popolari, potendo contare su artisti locali di generi diversi. Qualche serata è a pagamento e qualcuna gratuita.
Io sono capitata in una serata molto particolare. Mi avevano detto in biglietteria che si trattava di uno spettacolo gratuito di musica e danza organizzato dall’università, in realtà l’Università (il dipartimento di spettacolo) assegnava il titolo di professore emerito a un anziano musicista, un docente molto amato, con tutto il senato accademico al completo: un’ufficialità che non mi sarei aspettata, anche un po’ comica ma calorosa, con molti discorsi commossi, e un pubblico molto partecipe di musicisti e studenti.
Lo spettacolo a seguire era un collage di poesia, musica e canzoni in cui non sono riuscita per la verità a orientarmi molto, ma è stata un’esperienza interessante: mi ha dato l’idea di un rapporto del teatro con la città che forse in una serata normale, con pubblico prevalente di turisti, non avrei avuto. Dalla programmazione (la più intensa fra gli spazi che ho incontrato), mi sono fatta l’idea che questo teatro abbia creato una combinazione interessante fra offerta e servizi ai turisti e funzione nella città. Immagino che essere nel cuore delle contraddizioni costituisca uno stimolo all’attività artistica e culturale, e Manaus merita certamente di essere scoperta al di là dello splendido Teatro Amazonas.
Questi teatri ci raccontano molto di quegli anni. Il Teatro Amazonas è un’ostentazione della ricchezza che si nobilita (e della grande musica non può fare a meno), quello di Belem ci dice che l’eleganza può fiorire anche ai tropici, quello di Rio è l’orgoglio di una grande capitale, quello di San Paolo testimonia di una società che vuole essere raffinata nel cuore produttivo del paese. Tutti ci raccontano di un’epoca ubriaca di ricchezza (è la belle époque), di una borghesia mercantile che si celebra, del mondo nuovo che rivendica la sua centralità. E l’opera e i teatri d’opera, più di qualunque altro luogo, testimoniano e simboleggiano la vocazione cosmopolita, lo status acquisito e i successi raggiunti.
Paraty, città festival, e le sue marionette
Paraty è una tappa perfetta fra San Paolo e Rio, da cui dista 250 chilometri. E’ una piccola città, costruita dai colonizzatori portoghesi sulle terre strappate alle tribù tupinamba fra fine Seicento e Ottocento, perfettamente conservata, è circondata dalle montagne e si affaccia su una baia incoronata da isole verdissime. Deve la sua fortuna all’oro, al caffè e soprattutto al commercio e allo sfruttamento degli schiavi, e la sua incredibile conservazione al crollo di tutte queste attività che ha determinato settant’anni di oblio: dagli anni Ottanta dell’Ottocento (la schiavitù in Brasile venne abolita solo nel 1888), alla metà del secolo scorso.
Tagliata fuori dal mondo, raggiungibile solo via mare fino alla fine degli anni Cinquanta, nel deccenio successivo viene scoperta da artisti e intellettuali: diventa un centro di contro-cultura, un set cinematografico perfetto, si inventano nel tempo festival di tutti i generi: di teatro di strada, di musica classica e sacra, di arti plastiche, di fotografia, di cinema, di jazz, più tardi il festival internazionale di letteratura (Flip, forse il più noto) ma anche manifestazioni più popolari, come il festival della cachaça (il liquore nazionale) o più di nicchia, come gli incontri di yoga, quelli degli acquarellisti e degli osservatori di uccelli. L’isolamento ha consentito di mantenere feste religiose originali e molto sentite e una grande tradizione musicale con due bande, tuttora attive. La rinascita culturale della città ha valorizzato la ricerca e la promozione della musica barocca (esiste un museo di musica antica con preziosi spartiti) ma dall’incontro fra personaggi locali e intellettuali arrivati negli anni Sessanta sono nate anche creazioni musicali originali come le “serenate” (quasi un nuovo genere, collegato alla bossa nova).
Tutelata come patrimonio nazionale dal 1947 e oggi patrimonio UNESCO “misto” (naturale e culturale), Paraty vive di turismo e artigianato, è stata infatti molto provata dal Covid. E’ davvero una città festival ideale, e il solo centro storico chiuso completamente al traffico che abbia visto in Brasile. Per gli appassionati di urbanistica, di recupero dei centri storici e di fenomeni sociologici connessi, la storia della protezione monumentale e pianificazione di questa città è estremamente interessante: negli anni Sessanta si è costruita la città nuova, quartieri commerciali e residenziali intorno al centro (case discrete, a distanza pedonale e un grande viale d’accesso). Il bel museo storico, da cui ricavo tutte queste informazioni, riferisce anche degli scontri legati allo spostamento delle attività e delle persone e all’oscillazione dei valori immobiliari, una gentrificazione non del tutto pacifica, guidata e supervisionata anche dall’UNESCO (quando questi fenomeni cominciavano a verificarsi a livello mondiale e non erano ancora molto studiati).
Nei miei giorni a Paraty, alcuni impianti per le manifestazioni all’aperto sono montati, in piazza si balla, la banda accompagna una festa religiosa e un matrimonio e i turisti non mancano… ma non c’è nessun festival, è inverno (temperatura perfetta: 22°), periodo di relativa tregua. Ma è un fine settimana, e il Teatro Espaço, che è un passaggio obbligato per i turisti, è aperto.
I Contadores de Estórias
E’ una piccola sala a gradinata e dal 1985 è sede del Gruppo Contadores de Estórias, che si è insediato in città dopo anni di nomadismo, ricerca e avventura.
Quella del gruppo è una bellissima storia che dagli anni Settanta dura fino a oggi. Nasce dal sodalizio di Marcos e Rachel Ribas, studenti di arte, di teatro e di danza a New York, dove la loro ricerca inizia nel 1971: cominciano con spettacoli di strada, all’aperto, con maschere e grandi pupazzi.
In Brasile il loro lavoro all’aperto è inizialmente incompatibile con la dittatura militare, fra il 1973 e il 1974 si trasferiscono nei Paesi Bassi, dove fanno spettacolo nei parchi di Amsterdam e Rotterdam e nelle scuole. Ma il ritorno a Rio – fra il 1975 e il 1978, quando la dittatura non è finita, ma evidentemente la censura si è allentata – è trionfale: al Museo d’Arte Moderna, nei parchi e nelle strade cittadine presentano spettacoli-parata con pupazzi alte quattro metri, attori, bande musicali, autentiche feste popolari, per adulti e per bambini, molto apprezzati anche dalla critica. Ma Marcos e Rachel sono inquieti, tornano a New York e da lì ripartono via terra con i figli verso il Brasile, alla ricerca di nuove idee: il viaggio, ricco di incontri e esperienze, li porterà a creare pupazzi piccoli e a ragionare su un linguaggio il più possibile universale; nasce la nuova tecnica della manipolazione diretta con piccoli pupazzi senza parole che caratterizzerà la fase successiva del gruppo (fino a oggi). Nel 1981, folgorati dalla città di Paraty (dopo aver partecipato ai primi festival di teatro di strada), decidono di fermarsi. Da qui, nei primi anni Ottanta, partono per le prime tournée internazionali, negli Stati Uniti soprattutto, in Canada e in tutto il mondo (ma non sono mai stati in Italia). E’ grazie ai soldi guadagnati in tournée che nel 1985 acquistano l’edifico che diventerà il loro teatro (l’unico della città). Il Teatro Espaço in questi anni ha ospitato più di 70 gruppi di teatro, danza e musica e presentato gli spettacoli del repertorio della compagnia.
Sullo stile e il linguaggio di fondo – pupazzi piccoli, animazione su nero, spettacoli per adulti e per bambini, personaggi semplici e fortemente espressivi che raccontano situazioni sociali e esistenziali molto comunicative – si sono innestate altre ricerche e tecniche, l’incontro di danza e marionette per esempio, con lo spettacolo Rodin, Rodin. La ricerca sullo scultore Auguste Rodin porta i Contadores nel 1994 ad affiancare la mostra dedicata allo scultore francese a San Paolo con un autentico kolossal, che dà vita alle sculture con un gruppo di oltre cinquanta elementi fra ballerini, scultori, burattinai e macchinisti
Un’altra tappa memorabile è Descaminhos (del 1999): lo spettacolo è tratto da una ricerca e da un romanzo dello stesso Marcos Ribas e è dedicato all’antico “caminho do Ouro” (quello che portava schiavi e oro da Paraty verso l’interno – la regione mineraria di Minas Gerais – e viceversa) che ha contribuito al recupero e al rilancio in termini di ricerca storica e in chiave turistica di questo percorso.
Nel tempo naturalmente il gruppo si amplia, con l’attrice Inez Petri fra gli altri, che sta attualmente formando nuovi membri. Raquel è morts nel 2012, Marcos è ancora anima e direttore del gruppo e del teatro.
Lo spettacolo che vedo, In Concerto, è un collage di scene, piccole storie da diversi spettacoli per adulti, creato e diretto da Marcos Caetano Ribas, ora interpretato dai bravissimi Ana B. Torres e Karina Bulhões. I pupazzi, animati a vista, sono di piccole dimensioni e realistici, i personaggi, caratterizzati da movimenti minimi, sono osservati con affetto e dolcezza, le storie sono intime, ma tutt’altro che pacificanti: un vecchio solo che suona il violino, un suicidio, una donna indigena in un momento di riflessione, il divertente flirt di due vecchi, una scena evoca autoerotismo e allude a un parto (titolo Conceição, concezione: coraggiosa, al limite del blasfemo). Uno spettacolo raffinato e coinvolgente, che riesce a comunicare mondi interiori con piccoli gesti, ha molto colpito e quasi commosso il pubblico (e anche me).
Allestito inizialmente per celebrare i venticinque anni del gruppo, In Concerto è già stato visto da più di centomila spettatori solo a Paraty. In effetti i Contadores si sono ritagliati un ruolo fondamentale nel profilo culturale della città e del territorio, rappresentano un’offerta di spettacolo originale, qualificata e costante nella città festival, hanno costruito un rapporto virtuoso fra una ricerca rigorosa e il turismo. Oltre alle rappresentazioni per il pubblico adulto, il gruppo lavora con laboratori e spettacoli con la rete delle scuole pubbliche di Paraty.
Passaggio a Rio: il diritto all’allegria
A Rio de Janeiro ci sono così tante cose da fare e da vedere che non riesco ad andare a teatro. O, più precisamente, sono all’inizio del mio viaggio e le proposte che trovo con relativa facilità – su Sympla e trip advisor, in assenza di informazioni sull’off e off-off – non mi incuriosiscono abbastanza: stand-up comedy, classici contemporanei (Beckett, Albee..), monologhi. Il Banco del Brasile ha una programmazione multidisciplinare articolata ma, per quanto riguarda il teatro per adulti, nel corso del mese di luglio presenta solo un monologo ispirato a Re Lear.
A Rio non mancano certo le sale di spettacolo, come il bellissimo auditorium Cecília Meireles nel quartiere Lapa, o il Teatro João Caetano, il più antico teatro di prosa “tradizionale” della città, dedicato dal 1930 all’attore considerato il padre del teatro brasiliano, che ne fu anche proprietario. Il teatro, che è molto grande, è stato ricostruito più volte, e anche durante il mio passaggio è in ristrutturazione. Il monumento che raffigura Caetano evoca un grande attore ottocentesco: la città mostra dappertutto la sua componente afro, vivace e contemporanea, ma le radici eurocentriche della cultura brasiliana sono antiche e probabilmente ancora vive.
Ma il teatro più originale è sull’isola di Niteroi, il quartiere di Rio a una decina di minuti di battello dal centro, dove c’è il più vasto complesso di opere di Oscar Niemeyer dopo Brasilia. Mi aspetto le linee curve, ma lo scenario della baia è spettacolare e unico. L’edificio più famoso e sorprendente del “cammino Niemeyer” è il museo d’arte contemporanea, inaugurato nel 1996, ma il Teatro Popular Oscar Niemeyer (porta il nome del suo ideatore dal 2013) è quasi un testamento: inaugurato nel 2007 quando il grande architetto ha 100 anni (morirà nel 2012) è un manifesto del suo pensiero e della sua coerenza di militante comunista: la cultura come diritto è uno dei suoi principi ispiratori.
Il murale nel foyer, dedicato alle marce del movimento dei lavoratori rurali senza-terra (MST), è realizzato con la tecnica degli azulejos, così radicata in Brasile dai tempi coloniali e che per Niemeyer rappresenta l’unione fra arte e architettura (è del 1943, più di sessant’anni prima, la chiesa di San Francesco d’Assisi che vedrò nel quartiere di Pampulha, a Belo Horizonte).
Non riesco a visitare il teatro all’interno (leggo che ha i colori della bandiera del Brasile), ma un punto di forza è la possibilità di rendere agibile il palco tanto nella direzione della sala, che ha 700 posti, che del grande piazzale esterno, da cui lo separa un gigantesco sipario tagliafuoco, “permettendo la visione dai due lati, e aumentando la capienza di pubblico fino a 20.000 persone”: il piazzale, dove durante la mia visita è in corso una manifestazione-mercato religiosa, è in effetti immenso. Per chi volesse approfondire, dichiarazioni e interviste di Niemeyer e la storia del cammino Niemeyer a Niteroi, travagliata per molti motivi (progettuali, economici e politici), è raccontata qua.
Se il Teatro di Niemeyer a Niteroy è un monumento al modernismo e al diritto alla cultura, ti circonda, quasi ti assedia a Rio il diritto alla festa: negli affollatissimi locali con musica e calcio, nella tendenza a addobbare e creare monumenti, nelle bandierine presenti ovunque…
Le chiavi di lettura mi arrivano da due bellissime mostre al Museo d’Arte di Rio (MAR): Bloco do Prazer e Funk: un grito de ousadia e libertade (un grido di audacia e libertà).
Bloco do Prazer: la parola bloco, ovvero isolato/ quartiere, fa riferimento al Carnevale e indica i gruppi di persone che sfilano per le strade a ritmo di samba. Il direttore Leonardo Barchini scrive che per il MAR presentare questa mostra significa “riflettere sulle diverse istanze delle feste nella cultura popolare e nella contemporaneità”. E’ necessario evocare nel pubblico il ricordo che celebrare è vivere e anche sopravvivere, “è fuggire dall’ordinario e risplendere nello straordinario”. Il titolo ricalca quello di una famosa canzone di Gal Costa del 1982, che si può ascoltare qua. E’ il periodo di transizione fra la dittatura e la democrazia: il blocco carnevalesco è evocato come simbolo di euforia, libertà e resistenza, “Que a vida ta pouca / E eu quero muito mais”: perché la vita è poca, e io voglio molto di più. La mostra parte dal bisogno della società brasiliana di riaffermare “il suo diritto alla espressione e all’allegria”.
E l’allegria si esprime attraverso la musica e il ballo, il travestimento, il costume e le maschere (alcuni davvero strabilianti un mostra)
Che cosa è il Funk? Una mostra spettacolare risponde presentando il funk carioca, la matrice culturale urbana e periferica, la dimensione coreografica, le comunità, gli sviluppi estetici, politici ed economici, l’immaginario pop che lo circonda (moda, copertine, oggetti), l’influenza sull’arte contemporanea, ma anche i collegamenti con l’emancipazione femminile e con l’inclusione della comunità LGBTQ+.
E’ divisa in due grandi sessioni, la prima è dedicata al soul, il movimento musicale importato dagli anni Settanta e Ottanta, recepito e reinventato nelle feste organizzate nei club di quartiere di Rio e che anticipa funk contemporaneo. La seconda è dedicata al ballo della favela che, secondo i curatori “costituisce, forse, una delle maggiori forze della produzione artistica di Rio e nazionale”: davvero “un grido di audacia e libertà”.
Con oltre 900 oggetti e 100 artisti, musica e video, la mostra fa quasi girare la testa, ma è davvero una bella scoperta: aperta fino al 30 marzo 2025 (…se passate da quelle parti).
Belho Horizonte: una capitale dell’arte contemporanea
Lascio Rio per qualche giorno nello stato di Minas Gerais: bellissime piccole città barocche, colline dolci ancora perforate dalle antiche miniere d’oro. Nella pittoresca piazza di Tiradentes, anche se è martedì, c’è uno spettacolo di strada con clown e personaggi da commedia (a cappello), e a Ouro Preto tutte le sere un concerto rock in piazza (prima di cena).
Belo Horizonte, capitale di Minas e terza città del paese, è anche una capitale dell’arte contemporanea.
L’Instituto de Arte Contemporânea Inhotim, 50 chilometri a ovest, è il centro d’arte contemporanea più grande del mondo: un percorso fra padiglioni (23), sculture e installazioni immersi in una vegetazione tropicale spettacolare: oltre 4000 specie di piante.
In città, presso il Centro Culturale del Banco del Brasile mi imbatto in un’altra mostra molto interessante, Encruzilhadas da Arte Afro-Brasileira (crocevia di arte afrobrasiliana): la presenza afro nella storia dell’arte in Brasile è uno dei temi di ricerca dei CCBB, che a oggi hanno catalogato su una piattaforma circa 300 artisti, dal XIX secolo ai contemporanei nati negli anni 2000. La mostra è vastissima e affronta diversi temi: l’importanza dell’autoritratto, il collegamento con i diversi movimenti artistici, l’impegno politico e i diritti (è la sessione che colpisce di più: c’è ancora molta strada da fare anche in questo paese) aspetti spirituali e religiosi (i collegamenti Brasile-Africa, che capirò di più a Salvador), la vita quotidiana.
E a sorpresa, mentre la visito, parte una performance che impegna un’attrice-cantante e una musicista: il pubblico è in cerchio nel bel cortile del centro (ma è così a sorpresa che non scendo in tempo)
Os Bruzundangas (quelli di Bruzundanga), primo adattamento teatrale dall’opera di Afonso Henriques de Lima Barreto. >Lima Barreto, afrodiscendente, è stato all’inizio del XX secolo una figura chiave della letteratura brasiliana, famoso soprattutto per la satira amara della cosiddetta prima repubblica (il periodo che va dal 1890 al 1930). Lo spettacolo è una commedia satirica, quasi una rivista, con numeri, canzoni originali e balli. Bruzundanga è un paese immaginario, che assomiglia molto al Brasile, con i suoi problemi sociali, culturali, economici… Scrive la regista e interprete Dani Ornellas “non abbiamo solo voluto immergerci nei personaggi complessi creati da Barreto, ma anche esplorare i temi atemporali della ingiustizia sociale, della corruzione, del pregiudizio”. Lo spettacolo è leggero, ironico e divertente, vuole essere una satira popolare (guardate la locandina) ed è anche molto politico, i riferimenti storici e i collegamenti col passato recente e col presente si intrecciano e entusiasmano il pubblico. Gli attori sono di Rio (dove lo spettacolo ha debuttato) e piuttosto affermati, sono convincenti e affiatati, non sono (ancora) compagnia ma lo saranno presto.
Racconta Dani al pubblico dopo gli applausi che il gruppo si è formato con questo spettacolo, ha lavorato a lungo alla preparazione (anche con letture pubbliche integrali dei testi di Lima Barreto), e i quattro attori e i collaboratori sono così coinvolti e contenti del lavoro comune che hanno deciso di fondare la Bruzun Company! Grazie anche al Ministero della Cultura che ha sostenuto il progetto e al patrocinio del Banco del Brasile. Dani chiede anche al pubblico quanti neri – neri come lei – ci sono in platea: si alzano poche mani, allargare il pubblico è e sarà uno dei loro scopi.
Segue…
Nella seconda puntata impressioni e spettacoli da
San Salvador de Bahia, Recife, Olinda, Fortaleza, Sao Luis de Maranhão, Manaus, Brasilia, Foz do Iguaçu, San Paolo