L’utopia del Terzo Teatro e il suo futuro
Il convegno internazionale Prospettive contemporanee. Terzo Teatro, archivi, regia, Lecce, 4-7 novembre 2024 con l'anteprima di Le nuvole di Amleto dell'Odin Teatret
Per festeggiare i sessant’anni dell’Odin Teatret, l’Università di Lecce ha organizzato e ospitato dal 4 al 7 novembre 2024 il convegno internazionale Prospettive contemporanee. Terzo Teatro, archivi, regia, a cura di Eugenio Barba, Francesco Ceraolo, Franco Perrelli, Julia Varley. In realtà, più che al contemporaneo, l’iniziativa guarda al passato ma soprattutto al futuro.
Il passato è la memoria materiale e storica della compagnia e più in generale del Terzo Teatro, con la loro eredità. La memoria materiale si è sedimentata al LAFLIS, l’archivio di Eugenio Barba e Julia Varley, ospitato dallo scorso anno alla Biblioteca Bernardini: da un lato i fondi archivistici, dall’altro una “memoria vivente”, con installazioni (anche multimediali) e iniziative che hanno l’obiettivo di emozionare e coinvolgere emotivamente i visitatori.
Il link
Oliviero Ponte di Pino, Le case del padre e la memoria del teatro. Nasce a Lecce il LAFLIS della Fondazione Barba Varley
Allargando l’orizzonte, c’è la storia del teatro di gruppo, dagli anni Sessanta a oggi: un patrimonio di spettacoli, ma soprattutto di esperienze e di pratiche da tramandare al futuro, o meglio da utilizzare come repertorio vivente per nuove iniziative e progettualità.
L’addio al Nordisk Teatr Laboratorium e il Premio Ubu alla carriera a Eugenio Barba
Il convegno sancisce anche la definitiva emancipazione di Eugenio Barba e dell’Odin Teatret dal Nordisk Teatr Laboratorium di Holstebro, ovvero la mitica “casa” del gruppo, il centro culturale multidisciplinare fondato da Barba, che per oltre cinquant’anni ha fatto di una cittadina sperduta nella campagna danese una delle capitali teatrali mondiali.
Ad aprire le quattro giornate, la consegna del Premio Ubu alla Carriera 2023 a Eugenio Barba,
maestro di riflessione teorica della scena del secondo Novecento, maestro di creazione pratica, espressiva e spettacolare, maestro di trasmissione della memoria storica e dello studio scientifico della tecnica dell’attore “fuori dal teatro”, maestro in contesti transculturali fra etnie diverse, maestro di coerenze plurali di comunità operanti in ambienti, gruppi, mestieri, progetti e attività dell’editoria, maestro di consapevolezza d’un teatro sempre aperto alla tradizione dell’impossibile.
(dalla motivazione del Premio Ubu alla carriera a Eugenio Barba)
Il link
La motivazione completa del Premio Ubu 2023 a Eugenio Barba
Nell’occasione il Premio Ubu si è concretizzato nel documentario realizzato e donato da Jacopo Quadri e Davide Barletti, a partire una serie di testimonianze dello stesso Eugenio Barba raccolte negli ultimi dieci anni.
Le nuvole di Amleto del nuovo Odin Teatret
Per metabolizzare la cesura e battezzare la nuova formazione dell’Odin, che v ede qualche veterano (Julia Varley, Else Marie Laukvik, Ulrik Skeel e Rina Skeel) affiancare due giovani attori (Jakob Nielsen e Antonia Cioază), Barba ha scelto un testo di Shakespeare. Non è Re Lear, che racconta le vicende dell’anziano sovrano che le figlie estromettono dal proprio dominio, ma Amleto, intrecciato con le vicende biografiche dell’autore.
Hamnet è il nome dell’unico figlio maschio di Shakespeare, morto a undici anni. Hamlet è il figlio di un re morto ammazzato: e il suo spettro gli impone il tragico compito di vendicarlo. In Hamlet’s Clouds un autore che ha perso l’unico figlio maschio racconta del figlio di un re che ha perso il padre, in una rappresentazione insieme sapiente e ingenua.
Cosa dice oggi a noi la vicenda di un padre il cui fantasma appare al figlio e gli lascia il compito di uccidere e vendicarlo? Qual è l’eredità che abbiamo ricevuto dai nostri padri e che trasmetteremo ai nostri figli? Cosa succederebbe se Amleto, come Antigone, affermasse: non sono nato per condividere l’odio, ma l’amore?
Il dubbio rende l’uomo debole dice il principe di Danimarca. Forse in queste domande risiede il mio errore: giudicare il valore e il senso della mia esistenza e del mio agire secondo norme che appartengono alla società, a una causa, a una quantificabile utilità o a uno scopo del teatro.
Siamo tutti influenzati da quelli che ci hanno preceduti e da quello che avviene nel presente. Il teatro, con la sua storia e le sue tecniche è un fiume. Anche senza volerlo, se tu ci entri dentro, ne esci bagnato.
(Eugenio Barba, Il paese della nostalgia, dal programma di sala di Hamlet’s Clouds)
I “resistenti” del teatro di gruppo
Il tema sotteso al convegno leccese è il passaggio del testimone alle nuove generazioni. C’è un patrimonio della memoria, affidato ai “professori” che da sempre accompagnano il percorso dell?Odin. Ma c’è soprattutto l’insieme delle pratiche del teatro di gruppo, rappresentate a Lecce da quattro formazioni storiche (oltre all’Odin, il parigino Théâtre du Soleil, i colombiani della Candelaria e i peruviani Yuyachkani, tutti “resistenti” da oltre mezzo secolo e dunque fondatori di una “tradizione del nuovo”) e da una rappresentanza di operatori più giovani.
Per un gruppo di teatro, il proprio passato può diventare una forza inerte o una tensione che rivitalizza. La saggezza di molte culture pone il passato davanti a noi, come una bussola per orientare il cammino. Il futuro è invece alle spalle, imprevedibile e sorprendente. Un passato in comune è una matassa di fili che a volte diventano incandescenti e rimangono tali per anni. Allora avviene il miracolo di un gruppo che rimane luminoso nonostante l’età imbianchi i capelli dei suoi componenti. Un turbine di nostalgia ci avvolge e abbiamo voglia di rincontrare questo gruppo, che si chiami Théâtre du Soleil, Atalaya, Candelaria, Yuyachkani o Teatro Tascabile.
(Eugenio Barba, Il paese della nostalgia, dal programma di sala di Hamlet’s Clouds)
Per esplorare le prospettive di sopravvivenza e di rilancio del teatro di gruppo, dobbiamo partire dal contesto in cui è nata questa forma creativa, sociale e organizzativa, tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta. Nel 1976, in un festival internazionale, il BITEF di Belgrado, Eugenio Barba lancia il manifesto del Terzo Teatro, che si contrappone sia al teatro commerciale sia al teatro amatoriale, ma si differenzia anche dal teatro pubblico (che si era affermato in Europa nel secondo dopoguerra) e dalla sperimentazione formale dei gruppi d’avanguardia (attivi dagli anni Settanta del Novecento), che pure rispondevano a bisogni analoghi, a cominciare dal sogno del “teatro d’arte” creato da Konstantin Stanislavskij. La risposta del Terzo Teatro all’interrogazione sulla necessità del teatro è diversa da quella di questi altri filoni: nel rapporto con le istituzioni, rivendica una differenza che si concretizza in un’orgogliosa indipendenza; e sul piano della ricerca artistico-antropologica, parte più dall’esperienza umana che dalla riflessione sul linguaggio tipica delle avanguardie novecentesche.
Il Terzo Teatro esplode con le trasformazioni sociali di cui si fa portavoce il movimento del ’68, a partire dall’esigenza di libertà avvertita soprattutto dai più giovani. Il nuovo teatro ne è l’anticipazione, il sintomo e per alcuni aspetti uno dei motori: basti pensare al ruolo profetico di Jerzy Grotowski e del Living Theatre.
Dopo il 1968, la forza erompente di una nuova cultura teatrale con un originale sistema di produzione e una visione trasformativa del mestiere dell’attore. Giovani Marlowe e Shakespeare della nostra epoca si unirono in gruppi sulla base di affinità ideologiche, emotive, estetiche, terapeutiche, rivoluzionarie, religiose, etiche, politiche. Il ripensamento dello spazio teatrale e delle relazioni tra attori e spettatori e la ricerca di nuove applicazioni del mestiere dell’attore in specifici contesti sociali fratturarono l’omogeneità della tradizione teatrale di tutto il pianeta. Fu il big bang di una professione secolare che non corrispondeva più a quella del teatro d’arte e di intrattenimento o all’audacia di un teatro di avanguardia e sperimentazione. Una terza cultura con nuovi modi di produrre si radica nella storia del nostro mestiere. Un Terzo Teatro costituito da giovani spinti verso il teatro da altre necessità.
(Eugenio Barba, Il paese della nostalgia, dal programma di sala di Hamlet’s Clouds)
Ad animare quelle esperienze è un profondo disagio nei confronti della società, insieme politico ed etico. Da un lato quei ragazzi e quelle ragazze interpretano istanze di giustizia e inclusione, anche a partire dal rifiuto della guerra del Vietnam. Dall’altro sottolineano la volontà di rispondere alle esigenze spirituali del nostro tempo attraverso il teatro, evidente nel percorso di Grotowski ma anche negli spettacoli di Eugenio Barba.
Questo implica una una condizione di marginalità, “fuori dalle istituzioni e dalle loro dinamiche” (Barba parla di “via del rifiuto”), con scelte di indipendenza più o meno radicali, innescando dialettiche spesso complesse tra questi irregolari e il sistema. Nella testimonianza dei più anziani, che operano da decenni all’interno di questo contesto, torna spesso con orgoglio il termine “resistenza”, di fronte alle spinte all’omologazione e al pensiero unico.
La tensione utopica
Il disagio si concretizza nella tensione utopica che porta alla creazione dei gruppi. Per Chris Torch, che negli anni Settanta è stato attore del Living Theatre e ora è progettista culturale indipendente, i gruppi sono “microcomunità di persone che si autodeterminano e lavorano insieme, per avere il controllo sulle proprie vite”, senza essere governati dalle regole e dalle convenzioni sociali. Spesso all’interno del gruppo ruoli e funzioni sono intercambiabili e le gerarchie non sono definite, almeno all’inizio – anche se non mancano personalità carismatiche.
La trasmissione delle conoscenze non è lineare. Raimondo Guarino parla di un “sapere da inventare” e di una “molteplicità del tramandato”. Non si tratta di riprodurre un mestiere o di costruire una carriera, concorda Georges Bigot, attore del Théâtre du Soleil. Si attivano percorsi di formazione e soprattutto di autoformazione.
Il modo di produzione, alternativo al teatro tradizionale, privilegia la creazione collettiva. “Costruiamo performance che nascono dentro e per il gruppo, i temi emergono dal gruppo”, spiega Julia Varley. Per Miguel Rubio di Yuyachkani, la creazione collettiva “non è tanto un metodo, uno stile o un’estetica, ma una pratica politica”, basata su cicli di improvvisazioni, riflessioni, discussioni… Lo spettacolo non nasce da un testo pre-confezionato da un drammaturgo (vivo o morto) o dal progetto di un regista, ma dalle necessità che emergono dal gruppo, anche in relazione al contesto sociale e politico in cui agisce. I nuovi attori si identificano con quello che dicono e fanno sulla scena.
Molto spesso il gruppo esce dai teatri (o dalle cantine) per agire nelle strade, nelle piazze, nei mercati, sui sagrati delle chiese: “La situazione politica ci ha obbligato a fare azioni di strada: questa pratica cambia la società, ma cambia anche noi e il nostro metodo di lavoro”, racconta Patricia Ariza della Candelaria. Accade per chi fa un teatro esplicitamente politico in Sudamerica, ma anche con la pratica del baratto dell’Odin Teatret, che è scambio sia tra gli individui sia tra le culture: “l’importante non è quello che si scambia, ma il processo”.
Con il diffondersi dei gruppi, emerge la possibilità di un circuito alternativo, fondato sulla reciprocità e sul riconoscimento tra progetti prima che sulla qualità estetica dei prodotti: si tratta di condividere esperienze, prima che scambiare opere. La realizzazione di uno spettacolo non è una necessità produttiva o economica per sopravvivere nel mercato culturale, ma una possibilità. L’obiettivo è piuttosto trasformare il teatro – gli spettacoli, ma soprattutto le diverse pratiche e i processi creativi – in un bene utile e necessario alla comunità.
Per una cultura teatrale
Questo atteggiamento ha immediate implicazioni sul piano organizzativo: “Quando emerge una necessità, l’organizzazione diventa una messinscena”, per Chris Torch. Per un imprenditore creativo, nel duplice senso del termine, l’arte del management e l’arte della sostenibilità devono coincidere.
A caratterizzare la parabola dei gruppi, a cominciare da formazioni storiche come l’Odin Teatret e il Théâtre du Soleil, è anche l’impegno culturale. La consapevolezza che il teatro sia (o debba essere) una forma d’arte ha portato allo sviluppo di una cultura teatrale che non è fatta solo di spettacoli, ma anche di festival (e dunque di incontri tra artisti e di lavoro con la comunità), di attività formative (laboratori, workshop e altre forme pedagogiche), spesso anche di ricerca (vedi l’ISTA e l’“invenzione” dell’antropologia teatrale, e in generale gli incontri e i convegni come quello di Lecce), con il relativo contorno di pubblicazioni di testi e video. Come nota Luca Vonella di Teatro a Canone, “il teatro cammina su due gambe, la scena e i libri”. E’ anche così che la memoria del teatro può infrangere l’irreversibilità del tempo…
Quella del gruppo teatrale è un’utopia concreta, praticabile: è una storia che parte dalle compagnie della Commedia dell’Arte e si reinventa di continuo. Ma, rispetto ai loro antenati, i gruppi non hanno solo l’obiettivo dell’indipendenza e della sopravvivenza: vogliono anche cambiare la società.
Le prospettive del teatro di gruppo
Ma quali sono oggi le prospettive di questo movimento? Nel suo intervento iniziale, Julia Varley ha rilanciato la proposta di dichiarare il teatro di gruppo “patrimonio immateriale dell’umanità”, sotto l’egida dell’UNESCO. Un primo snodo riguarda – si suppone – l’identificazione delle sue caratteristiche. Ma poi è necessario chiedersi se la forma del teatro di gruppo, con la sua tradizione radicata nel XX secolo, è ancora necessaria. E’ ancora praticabile per chi si affaccia oggi alle scene? E’ ancora attraente per le nuove generazioni?
Marco Luciano (Teatro Nucleo) ricorda la ricognizione del Terzo Teatro, che negli scorsi mesi ha toccato in tre incontri Lecce, Ferrara e Gubbio. Sono stati censiti circa 120 gruppi attivi in Italia, una cifra impressionante: “Ma poi sono arrivati solo pochi giovani, che hanno fatto fatica a pagarsi il viaggio”. Le condizioni economiche e sociali rendono il cammino ancora più impervio.
Oggi, mentre sembra calare l’oscurità a causa delle guerre e della crisi climatica, il contesto sembra diverso dai rivoluzionari e febbrili anni Settanta. Tuttavia restano vivi i temi di fondo che hanno ispirato quel movimento teatrale: il rifiuto dell’omologazione e della massificazione, l’emancipazione dai modi di produzione neocapitalistici, la critica del consumismo culturale, la necessità di uscire dalla prigione dell’individualismo.
Il passaggio del testimone
Per capire le sfide del presente può essere utile ripensare alle sfide che hanno affrontato i maestri. Un primo aspetto riguarda la capacità di resistenza del gruppo di fronte alle spinte centrifughe, fermo restando che, come spettegola Eugenio Barba, alla base delle crisi e degli abbandoni di solito ci sono vecchie coppie che si sfasciano e nuove coppie che si formano. Il nodo è come gestire i conflitti e le tensioni interne restando fedeli alle ragioni fondanti del gruppo, ma anche come rivivificarle: è lo stesso Eugenio Barba a ricordare le “rivoluzioni” alle quali ha periodicamente sottoposto l’Odin, a scadenza più o meno decennale, trasformando ogni volta la natura del patto. L’evoluzione del gruppo è molto spesso garantita e al tempo stesso condizionata da una personalità carismatica: in questi casi, diventa necessario capire se e come è possibile gestire un passaggio di consegne da una generazione all’altra. Anche se oggi l’attenzione si è spostata, anche a causa della pervasività dei bandi: la tendenza non è più quella di creare formazioni stabili, ma creare collaborazioni sulla base di progetti chiusi e aggregazioni temporanee.
All’opposto, il crinale è quello dell’istituzionalizzazione di gruppi nati nell’emarginazione e nell’auto-emarginazione. Ci sono realtà che sono diventate istituzione, ma sono in atto anche meccanismi più complessi. Perché a un certo punto la società inizia a interessarsi ai gruppi, ad aver bisogno di loro, perché le tecniche di cui sono portatori si sono rivelate efficaci, in un’ottica di riattivazione e di coesione sociale: per esempio nelle scuole, nei quartieri, nelle carceri, negli ospedali, nelle aree di conflitto. Così il teatro diventa utile e forse necessario, ma rischia di perdere la propria necessità, di trasformarsi in servizio, in routine, in placebo sociale. L’equilibrio tra la funzione estetica e quella sociale è sempre precario: ma i due versanti devono nutrirsi reciprocamente.
Il contesto in cui viviamo, il buio in cui stiamo sprofondando, tende a logorare, a corrodere, a omologare. Lo spazio dell’utopia, del sogno, del desiderio, è stato colonizzato dalle distopie angoscianti che profetizzano in mondo che verrà (l’unica certezza è che di solito le previsioni mancano il bersaglio).
A dare una traccia per il passaggio del testimone può essere il contagio testimoniato da Georges Bigot: “Ho contribuito a fondare gruppi in Cambogia, nei Paesi Baschi, in Mali, negli Usa…” Accompagnato da una frase Patricia Ariza:
“Ogni spettacolo è una visione del mondo, ogni spettacolo cambia il mondo”.
L’ultima immagine
Le nuvole di Amleto si chiude con un’immagine ambigua, simmetrica e speculare. Le due coppie – i “padri” Claudio e Gertrude e i “figli” Amleto e Ofelia – sonmo azzerate dalla tragedia di Shakespeare e dalla storia. Muoiono restando a guardare le nuvole. Come i pupazzi Totò e Ninetto alla fine del film di Pier Paolo Pasolini.
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