Teatro Comunicazione Politica | Hitler è dentro ciascuno di noi
Una conversazione con Stefano Massini su Mein Kampf
Il nuovo spettacolo di Stefano Massini, con l’impegnativo titolo Mein Kampf, è una rivisitazione del testo fondativo del nazismo. Negli ultimi anni abbiamo visto diversi artisti misurarsi in teatro con il fascismo e il nazismo. Su Ateatro ne ho scritto in diverse occasioni:
Il lato oscuro della storia d’Italia (Da Mussolini (e Matteotti) a Moro passando per Pasolini: gli spettacoli di Massimo Popolizio, Ascanio Celestini e Fabrizio Gifuni), 13 febbraio 2022.
Per un teatro “antifa” (Note sparse su Giacomo del Teatro dei Borgia, Il terzo Reich e Bros. di Romeo Castellucci, Catarina o la beleza de matar fascistas di Thiago Rodriguez, Entre Chien et Loup di Christiane Jatahy, L’Etang di Gisèle Vienne, Mal di Marlene Monteiro Freitas e altri spettacoli), 21 settembre 2022.
Il dionisiaco nell’epoca del politicamente corretto (Peak Mytikas di Jan Fabre, Caridad di Angélica Liddell, Il Terzo Reich e Bros. di Romeo Castellucci), 29 maggio 2023.
Se si torna con tanta insistenza a riflettere su questi temi, forse sta succedendo qualcosa.
La prima cosa che ti chiederei, Stefano, è che cosa significa per te questo interesse per il fascismo e per il nazismo e perché ti ha interessato.
Fondamentalmente tratto un episodio storico straordinario: Mein Kampf è l’unico progetto politico nato dentro un libro. Quindi questa storia ha a che fare con il peso delle parole. Nel 1924 un ragazzo di trent’anni, chiuso in una cella del carcere di Landsberg am Lech, detta la propria autobiografia politica. Non è un fatto irrilevante che utilizzi una delle strutture più antiche dal punto di vista narrativo e più garantite dal punto di vista dell’efficacia sul fruitore: il romanzo di formazione.
In realtà Mein Kampf comprende due testi. La seconda parte venne scritta nel 1926, quando ormai Hitler era un affermato uomo politico, ed è la parte meno interessante, più tecnica. La parte davvero interessante è quella che potremmo chiamare Ur-Mein Kampf, dettato nel 1924 a Rudolf Hess. Hitler si trovava in carcere per il tentato putsch di Monaco, condannato a cinque anni. La pena viene commutata a nove mesi con la condizionale, anche per buona condotta e tenendo conto di quel libro: i magistrati lo riterranno una prova dei sentimenti filotedeschi e quindi lodevoli del detenuto.
Emergono subito due elementi fondamentali. Per cominciare, un movimento politico come il nazionalsocialismo, che avrà un impatto dirompente sull’Europa, nasce da un’autobiografia. Non nasce come il movimento comunista da un Manifesto come quello di Marx e Engels, che è un testo teorico e un appello alla lotta. Non si fonda su una riflessione teorica, come quella di Lenin.
Non si plasma con articoli come quelli che scriveva Mussolini su un giornale come il “Popolo d’Italia” (e infatti il DVX la biografia se la farà scrivere da Margherita Sarfatti nel 1926, con qualche problema). Il nazismo nasce da un’autobiografia. Ma è interessante anche la dimensione orale di questo racconto, perché Hitler non scrive, ma detta il testo a un suo fedele, Rudolf Hess.
Nel suo bellissimo saggio, La comunicazione politica nella società emotiva (Sette Città, 2020), Chiara Moroni spiega che oggi, nella nostra epoca, l’emozione – il feeling – è diventato l’ingrediente fondamentale. Questo sta alla base dell’abuso della parola “empatia”, che oggi sembra diventata l’elemento fondativo di qualunque attività, compresa la carriera politica: oggi nessuno si avvicinerebbe a una campagna elettorale – nemmeno a quella per il proprio quartiere – senza ritenere di avere una dose di empatia.
Per Moroni emerge un elemento trino: esistono il corpo mistico, il corpo mediale e il corpo normalizzato. Il corpo mediale – ovvero l’autobiografia del politico – diventa un elemento imprescindibile per la comunicazione politica.
Hitler arriva al potere tramite un’autobiografia, per la precisione un romanzo di formazione, oltretutto enfatico, barocco, in molti tratti insopportabile. Ho voluto far arrivare in scena anche questo tono logorroico, perché in quelle pagine si ripetono gli stessi concetti mille volte.
Racconta la propria vita, quella che Brecht avrebbe chiamato La resistibile ascesa di Arturo Ui. O forse irresistibile, in quanto messianica, perché intrisa di questo elemento salvifico.
Da questo punto di vista ci sono contributi saggistici fondamentali: studiosi come Walter Langer (Psicanalisi di Hitler. Rapporto segreto del tempo di guerra, Garzanti, 1973) e Robert Waite (The Psychopathic God: Adolph Hitler, Da Capo Press, 1993) sono partiti proprio da Mein Kampf per individuare gli elementi clinici per capire da dove nascesse la patologia di un ragazzo che a vent’anni si riteneva l’unico in grado di vedere “ciò che né Karl Marx né Gesù Cristo avevano visto”. Hitler ha vent’anni, si è trasferito a Vienna. In quel periodo fondamentale, che non a caso occupa una grandissima parte del Mein Kampf, è un giovane pittore che riesce a fare ritratti “solo se la pioggia lo permette”, ma nel frattempo osserva il mondo intorno a sé.
“Solo se la pioggia lo permette”, perché il giovane Hitler era di uno quei pittori che si mettono all’aperto, agli angoli delle strade, nelle piazze o nei giardini pubblici, e fanno all’istante il ritratto o la caricatura ai turisti o ai passanti che glielo chiedono.
Mein Kampf è a tutti gli effetti la biografia di un underdog. Ripete continuamente di essere nato in quello che potremmo chiamare il buco del culo del mondo. Detestava Braunau am Inn, un paesino reo di essere dalla parte austriaca della frontiera con la Germania: un luogo, come dice lui, di gente che potrebbe ma non vuole, vicini un solo passo alla Baviera ma incapaci di percepirne l’attrazione. Sembra un testo di Thomas Bernhard. Infierisce sulla composta nullità di queste vite imbalsamate, su una morbidezza provinciale che detesta. A diciannove anni fugge a Vienna, se ne inebria per alcuni anni ma poi non gli basta più neanche Vienna e si trasferisce a Monaco. E da quello che vede mette insieme un progetto delirante ma estremamente lucido. Percepisce il dissesto della borghesia viennese e piano piano prende forma il suo grande progetto di riforma della società, quello che diventerà un terribile esperimento socio-politico.
Ti vorrei chiedere se la terza persona che sta partecipando a questa nostra conversazione, il volto che compare nella fotografia che adesso è dietro te, è lì per caso.
Thomas Bernhard ci ha parlato come nessun altro della decadenza della borghesia, dei suoi riti, delle liturgie della piccola borghesia che si attacca alle piccole cose, ingordamente alla ricerca di un’identità.
E al nazismo che continuava a serpeggiare in Austria Bernhard ha dedicato pagine memorabili: basti pensare a tesi come insieme terribili e irresistibilmente comici come Piazza degli eroi o Prima della pensione.
Ma dicevi che Mein Kampf è un un testo torrenziale e ripetitivo, come hai detto: ma questo è tipico sia racconti orali, oltre che dei torrenziali e terribili comizi di Hitler.
L’oralità è anche alla base del mio testo. Non ho preso il testo alla lettera, ma ho fatto un lavoro molto lungo, dove ho interpolato la prima parte di Mein Kampf con altri materiali, come i suoi comizi, ma anche i discorsi che teneva in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico nelle università tedesche, dove accadeva qualcosa di molto interessante. Aveva davanti a sé “la meglio gioventù” tedesca e a questi ragazzi teneva conferenze che utilizzavano a livello quasi agiografico la sua autobiografia come modello di riscatto. Lo racconta molto bene Ludolf Herbst, che in Il carisma di Hitler. L’invenzione di un messia tedesco (Feltrinelli, 2011) ripercorre l’autobiografia di un ragazzo che si riscatta dal niente e a un certo punto riesce a parlare, a esprimere il proprio verbo.
Tornando all’oralità, c’è un materiale gigantesco che in Italia conosciamo poco, Le conversazioni a tavola di Hitler (Goriziana, 2010).Tra il 1941 e il 1944 tre dei suoi più stretti sodali, Heinrich Heim, Henry Picker e soprattutto Martin Bormann, registrarono con il suo consenso una serie di conversazioni alla fine di pranzi e cene, in cui davanti al dessert lo interpellavano e quasi lo intervistavano sulle più varie tematiche, per esempio sul fatto che fosse un convinto vegetariano, che non toccava né la carne né l’alcol.
Torniamo a Mein Kampf. Che cosa succede alla biografia di Hitler, quando inizia la sua carriera politica?
Mein Kampf racconta in dettaglio tutta la sua formazione fino all’età di trent’anni, quando comincia ad avere un seguito sempre più grande, prima alla Sterneckerbräu poi in Dacauer Strasse e alla Hofbräuhaus, finché non comincia ad avere delle masse davanti a sé. Da quel momento tutti gli elementi biografici e autobiografici scompaiono, se si fa eccezione per l’amore per il cane e il rapporto con Eva Braun, la donna che lo accompagnò fino all’ultimo. Non appena Hitler diventa Hitler, improvvisamente tutte le informazioni biografiche vengono meno, entra in una specie di zona d’ombra, in cui è il condottiero, una versione aggiornata di quell’assoluto a cavallo che vide Hegel. Diventa una figura semidivina: e di una divinità dobbiamo conoscere i particolari biografici.
Nel frattempo Mein Kampf veniva letto nelle scuole, ne veniva regalata una copia alle coppie che si sposavano: ci sono infiniti imenei tedeschi dove nella foto del matrimonio in bianco e nero c’è la copia di Mein Kampf tra lui e lei.
Il romanzo di formazione è un passaggio cruciale.
L’autobiografia serve solo a diventare qualcuno. E’ un testo fondamentale, però si ferma lì. Anche nelle conversazioni a tavola, quando viene interpellato su come è diventato Adolf Hitler, lui torna sempre sui temi del Mein Kampf con episodi impressionanti, che ho ripreso nel testo dello spettacolo. Per esempio a Vienna, quando era un giovane pittore, la domenica mattina andava di buon’ora nel Burggarten, uno dei parchi più belli di Vienna, per disporsi con il cavalletto in un punto che aveva studiato, là dove il viale alberato fa una piccola salita. Amava il momento – a vent’anni! – in cui a un certo punto poteva alzare gli occhi dal quadro e vedeva ai suoi piedi una quantità incredibile di persone, uomini e donne, e diceva di inebriarsi all’idea che in un determinato momento tutta questa folla si sarebbe alzata all’unisono per fissare lui. Questo apprendistato teatrale – non di un Wilhelm Meister ma di un Adolf Hitler – per me è incredibile.
La teatralità di Hitler è un tema centrale: a un certo punto per essere più efficace nella nella sua comunicazione si fece dare lezioni di recitazione da un attore (l’episodio ha tra l’altro ispirato un film satirico sulla fine del nazismo, Mein Führer La veramente vera verità su Adolf Hitler (Mein Führer – Die wirklich wahrste Wahrheit über Adolf Hitler, 2007, diretto dal regista svizzero Dani Levy). Anche in questo il dittatore nazista fu in anticipo sui tempi.
Nella raccolta di saggi curata dal professor Gianpietro Mazzoleni, Introduzione alla comunicazione politica (Il Mulino, 2021), si spiega come abbia preso forma la comunicazione populista, passando dal partito di massa al partito del leader: si parte proprio dalla personalizzazione, che è nata in quelle pagine. Hitler dice che le masse “sono bambini impauriti, non ti ascoltano parlare, digli solo dov’è il bene, dov’è il male, dov’è il pericolo, dove si possono salvare, non è alla loro testa che devi parlare, non è lì che nasce, è nel petto, nello stomaco, nelle viscere, là dove l’istinto regna incontrastato, la rabbia, l’orgoglio, la cura, lì vorrei sotterrare il mio seme”. Ecco perché per la copertina del libro e per il manifesto dello spettacolo ho scelto un bambino hitleriano.
La comunicazione di Hitler è stata incredibilmente pionieristica. Puntava all’annullamento della nostra corteccia prefrontale, là dove si annida il raziocinio, dove dovrebbe stare il logos, che Platone individua come discrimine fondamentale fra l’oclocrazia e le forme evolute di politica, in cui il saggio, il sapiente esprime un progetto e il logos del cittadino lo recepisce. Ma se saltiamo la corteccia prefrontale e attiviamo invece il cervello rettiliano, andiamo nella zona in cui prende forma la paura. Hitler lavorava su questo.
Al momento della resa della Germania, che pose fine alla Prima Guerra Mondiale, nel novembre del 1918, Hitler è ricoverato in un ospedale militare in Pomerania. Riceve la notizia della resa, nella sua furia si rende conto che ha intorno a sé, in quell’ospedale, i soldati feriti, che adesso erano la parte vinta, gli sconfitti della guerra: “Mi resi conto che c’era una forza straordinaria nella disperazione”. Lo definisce “un combustibile perfetto annidato nel petto di ciascuno”. Questa capitalizzazione della frustrazione è incredibile.
Prima hai detto che questo lavoro è un esperimento. Che provi a inoculare gli anticorpi al populismo nel pubblico che hai di fronte, negli spettatori.
Quando fu inventato il vaccino contro il vaiolo, il siero permetteva di inoculare un virus depotenziato, scatenando una reazione immunitaria all’interno del soggetto che poi, quando fosse stato raggiunto dal vero virus, avrebbe risposto adeguatamente perché il suo sistema immunitario conosceva già il virus.
Io faccio la stessa cosa. In una sala teatrale, davanti a una massa, faccio sentire le parole del Mein Kampf, ma non sono un uomo politico. Sono solo un medium, uno scrittore, cioè uno che lavora e che ha sempre lavorato con le parole del teatro, che prendo sulla mia pelle. Vado su un palco e davanti a quella massa io faccio risuonare quelle parole.
Per certi aspetti anche il mio spettacolo è un esperimento socio-politico. Faccio incontrare una massa – un’ecclesia, perché a teatro noi abbiamo un’ecclesia – con questo testo unico: un libro che è stato a lungo bandito e continua a esserlo in diversi paesi. Ancora oggi in Austria possedere una copia di Mein Kampf è un reato penale. Curiosamente l’Austria è il paese che pochi giorni fa, il 29 settembre 2024, ha visto una maggioranza numerica dare i voti allo FPÖ, un partito di estrema destra.
Da un altro punto di vista però te lo inoculi anche tu, quel virus. Che cosa vuol dire farsi interprete, dare corpo e voce alle parole di Hitler?
Ci siamo sentiti all’indomani del 13 maggio 2024, dopo quello che era successo al Salone del Libro di Torino. Presentavo questo progetto e fui oggetto di un’aggressione prima verbale durata circa un’ora, anzi 50 minuti: l’incontro doveva durare un’ora e un quarto, ma io e Danco Singer, che era con me in quell’occasione, decidemmo di interrompere la nostra conversazione, di fronte alle contumelie di un signore che ci urlava che dovevamo togliere le mani da Hitler e che Hitler aveva capito tutto. Poi c’è stata addirittura un’aggressione fisica…
Quel tizio mi contestava perché non c’era contraddittorio: è incredibile, io faccio sentire le parole di Hitler e quello mi contesta che non c’era contraddittorio. Perché? Perché il Mein Kampf, fatto sentire così com’è, rivela tutti i suoi limiti.
E’ paradossale. Io non ho scritto un testo contro Hitler. In teoria mi si potrebbe accusare di apologia, perché ho preso Mein Kampf e lo rendo oggetto di una produzione del Piccolo Teatro, in cui le parole di Adolf Hitler, quelle delle conversazioni a cena con i suoi sodali, quelle dei discorsi e delle conferenze, e quelle del Mein Kampf, diventano oggetto di uno spettacolo teatrale.
Probabilmente in Germania, dove l’uso o l’esposizione di simboli nazisti, o di materiali affini al nazismo, è semplicemente vietato, questo progetto sarebbe forse stato impossibile.
Questo progetto nasce da una lezione di Luca Ronconi, nel 2001. Facevo il suo assistente insieme a Claudio Longhi, che ora dirige il Piccolo, per Phoenix di Marina Cvetaeva. Ronconi stava lavorando con gli allievi della Scuola sul monologo iniziale del Riccardo III: “Ora l’inverno del scontento…” A un certo punto si rivolse al ragazzo che stava tentando di interpretarlo: “Guarda, ti devi togliere questo lirismo shakespeariano. Quando il pubblico di Shakespeare ascoltava questo monologo, aveva ancora ben presente chi era stato Riccardo III. Era stato un sovrano che aveva comportato morte, distruzione. Aveva fatto uccidere i nipotini, due bambini, chiudendoli nella Torre di Londra. Aveva fatto uccidere suo fratello. Quando sentivano questo monologo, gli spettatori pensavano tutti a un mostro”. E a quel punto se ne esce all’improvviso con una delle sue frasi fulminanti: “Fammelo sentire come se tu fossi Adolf Hitler che fa Mein Kampf.” Questa frase mi colpisce. Mi rivolgo a Ronconi e gli dico: “Beh, sarebbe incredibile portare in scena Mein Kampf”. E lui: “Beh, certo, ma sarebbe vietato”. E però mi è rimasto il bisogno di lavorare su questa provocazione.
Negli anni successivi ho fatto leggere a Ronconi un terzo – o forse neanche un terzo – di quello che è ora il mio lavoro su Mein Kampf. E mi ha detto un’altra cosa che mi ha colpito: “Se un giorno tu dovessi farlo”, ed era chiaramente una provocazione, perché ancora non era possibile farlo, “non lo far fare a un attore, perché altrimenti diventa un istrionismo, e inserisci un ulteriore livello fra il testo e la scena. Se decidi di farlo, fallo tu perché questa è una cosa sulle parole e solo chi ha scritto queste parole può fare quelle parole.”
Prendo anche questa come una provocazione fine a sé stessa, ma continuo a lavorare su quel materiale, finché nel 2016 Lehman Trilogy non viene pubblicato in tedesco. Il mio editore inizia a mandarmi, come fanno gli editori stranieri, i pdf con le pagine dei giornali tedeschi dove comparivano i trafiletti sul mio libro. E tutte le volte che mi mandavano questi pdf, vedevo che accanto al trafiletto sul mio Lehman c’erano degli articoli giganteschi sul vero tema del dibattito culturale e politico di quei giorni in Germania: perché il governo tedesco aveva appena deciso di far tornare Mein Kampf in libreria, ascoltando finalmente la voce dei Bertolt Brecht e dei Primo Levi o più di recente di Liliana Segre, quando sostengono che la censura a Mein Kampf ha portato alla sua mitologizzazione: era diventato un testo intoccabile, proibito, che dunque proprio per questo diventava affascinante.
Solo la conoscenza, solo il reale perimetro di quelle pagine per ciò che sono, può far capire che cosa è Mein Kampf.
Ma le edizioni tedesche sono annotate e commentate, con un apparato che smonta e decostruisce le fake news contenute nel testo.
Ho deciso di fare uno spettacolo feroce, perché non c’è niente di post-hitleriano. E ringrazio il Piccolo Teatro e il Teatro Stabile di Bolzano che mi hanno permesso di fare questa operazione.
Io faccio sentire le parole di Adolf Hitler sulla necessità della selezione dell’umanità, quando dice che l’umanità deve essere selezionata e soltanto i migliori possono sopravvivere, mentre i peggiori – che lui chiama “gli irrilevanti” – devono essere spazzati via. Io faccio sentire come dentro quel testo nasce la banalità del male di cui parla Hannah Arendt nel suo libro su Adolf Eichmann (La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme [1963], Feltrinelli, 2023). Hitler racconta – e te lo dice lui – che un giorno incontrò per strada vicino alla Rothgasse un uomo ebreo che gli si fermò davanti. Cercava cercava qualcosa nella tasca per strada, lui lo fissò e fissando questo tizio che si era trovato per caso davanti a lui arrivò alla teorizzazione che forse erano gli ebrei che proibivano a lui di fare carriera, che gli proibivano di esprimersi.
Se facessi ascoltare le parole di Mein Kampf con le foto di Adolf Hitler con il baffetto e la svastica dietro, con i cancelli di Auschwitz e le immagini di tutto quello che questo ha comportato, è chiaro che le persone reagirebbero dicendo: “Mai e poi mai obbedirei a questo Vangelo: questa per me non è una buona novella, perché ne so le conseguenze, perché vedo Auschwitz, i treni…”
Ma cosa accade se privo quelle parole del baffetto, della svastica, delle immagini di Auschwitz? Cosa accade se le faccio semplicemente risuonare su un palcoscenico, dette da uno come me, che oggi ha 49 anni, senza riferimenti a tutto quello che è venuto dopo? Se tolgo le conseguenze che oggi conosciamo, quelle parole funzionano ancora?
Nel 2016 Mein Kampf è stato ripubblicato con un poderoso apparato critico e tutta una serie di discorsi a contraddizione, che stavano a pie’ di pagina. Ogni volta che Hitler faceva un’affermazione, in fondo alla pagina c’era una analisi che la smontava. Ma questa esegesi contraddittoria, questa pedagogia, che ti dà le parole del male ma subito te le illumina con quello che è venuto dopo, con le sue conseguenze, noi non l’abbiamo.
Pochi giorni fa, il 1° ottobre 2024 a Erie, in Pennsylvania, Donald Trump ha affermato che “per eliminare il problema della criminalità negli Stati Uniti d’America basterebbe una sola ora di autorizzata totale violenza alle forze dell’ordine e all’esercito. Quando parlo di violenza intendo violenza vera, totale, senza limite. Basterebbe quell’ora di violenza per estirpare ogni criminalità dagli Stati Uniti d’America.”
Nel 2015 due ragazzi di Boston videro per la strada un senzatetto che aveva davanti un cartello con cui chiedeva l’elemosina in lingua ispanica. Decisero di tornare quella sera e di aggredirlo, di massacrarlo di botte: quel poveretto si è fatto tre mesi e mezzo di terapia intensiva. I due vennero rintracciati dalle telecamere, identificati e arrestati. Donald Trump non era ancora presidente degli Stati Uniti d’America, era soltanto uno dei candidati alle primarie del Partito Repubblicano. Quando li interrogarono, i due ragazzi si giustificarono: “Noi l’abbiamo pestato di botte e volevamo ucciderlo perché l’ha detto Trump che è candidato per il Partito Repubblicano”. Qualche ora dopo, Trump si trovava nella zona per una manifestazione elettorale e venne avvicinato da un giornalista che gli chiese un commento sul fatto che due persone a Boston avessero detto che a causa delle sue parole avevano ridotto in fin di vita un immigrato. Trump in un primo momento esitò, perché non era informato dell’episodio, ma poi rispose: “Beh, se due dei miei hanno ridotto in fin di vita un ispanico, posso dire soltanto che i miei sostenitori sono gente appassionata”.
Le parole di Trump non avevano la nota a pie’ di pagina, non c’era un’antitesi, una pedagogia correttiva che prende quelle parole e le illumina con la corteccia prefrontale. Quelle parole sono semplicemente rimesse alle masse, alle moltitudini, e parlano da sole.
E allora se faccio parlare Mein Kampf, che è l’origine di tutto questo, devo necessariamente avere un’esegesi contraddittoria? Io voglio far parlare Mein Kampf su un palcoscenico, dichiarando quanto quelle parole siano collegate a ciò che oggi da quelle parole discende.
E’ un paradosso. Mein Kampf è stato scritto un secolo fa, fa parte di un passato ormai lontano, se pensiamo a come è cambiato il mondo. Secondo te per capire quel testo non serve il filtro di quello che è successo dal 1924 a oggi, che in realtà ci aiuterebbe a capire la storia. Secondo te, per sperimentare l’attualità di Mein Kampf è necessario togliere questo filtro e vedere quanto a tutt’oggi quella trappola ancora ci catturi…
A me interessa creare un cortocircuito, una volta, due volte o tre volte, non so quante, in platea, nell’arco di questi 80 minuti filati.
L’unico caveat lo faccio all’inizio. Salgo in scena entrando dalla platea e prima di cominciare io, Stefano Massini – esattamente come nel libro, dove quel brano è in corsivo – racconto la storia di Emil Erich Kastner, uno scrittore di libri per bambini che i nazisti, con Goebbels in prima fila, costrinsero ad assistere al rogo dei libri – compresi i suoi. E’ una figura che abbiamo purtroppo quasi perso, nella storiografia. Per carattere, a differenza di altri intellettuali come Zweig, non riuscì a lasciare la Germania, dove rimase senza più scrivere.
Nello spettacolo parto da una aneddoto che mi fu raccontato dal mio editore tedesco. Un giorno Kastner venne raggiunto in una libreria da un cliente che lo riconobbe e gli disse una frase di circostanza: “Che bello vederla qui, oggi che i libri non si bruciano più”. E Kastner gli rispose in malo modo: “Guardi che è stato proprio un libro a bruciare gli altri libri. E’ stato un libro a causare tutto quello che abbiamo sofferto”.
Torniamo al potere delle parole. Ogni tre parole risuona Massa e potere di Elias Canetti. Stiamo cercando di capire come ha preso forma un’intuizione folgorante: l’intuizione che i nuovi mezzi di comunicazione potevano essere utilizzati. In Il caporale Hitler (Feltrinelli, 1979) Sebastian Haffner racconta che durante la Prima Guerra Mondiale Hitler si interessò al modo in cui gli inglesi avevano iniziato a utilizzare i primi rudimentali mezzi di comunicazione: lo osservò, lo recepì e lo usò.
Oggi c’è il web, all’epoca c’erano i giornali e poi la radio…
Nelle conversazioni a cena Hitler ricorda che dopo la Prima Guerra Mondiale non riusciva a leggere i giornali senza essere ossessivamente colpito dal fatto che i nomi che leggeva su quelle pagine cessavano di essere macchie d’inchiostro e, dice lui, “diventavano entità capaci di impersonare i pensieri, le azioni, le esistenze di milioni di individui che finiranno per dire io la penso come lui, di più, io sono come lui”. Qui prende forma quello che oggi definiamo il fenomeno degli influencer: siamo alla sostituzione di un pensiero critico autonomamente creato con un pensiero incellofanato, precostituito, un pensiero maggioritario perché stampato, perché diffuso.
Oggi parliamo di condivisioni e like su Instagram o su Facebook, ma è lo stesso fenomeno che Hitler teorizzava mentre tutto questo stava cominciando a prendere forma.
Il numero due del regime nazista, dopo il Führer, non era il ministro degli Interni: era il ministro della Propaganda Josef Goebbels.
Ma non si corre il pericolo che qualcuno – magari un quindicenne che sogna di diventare un influencer – ti ascolti e dica che Hitler ha ragione, che quelle parole lo convincono?
Secondo Alan Bullock, autore della prima fondamentale biografia Hitler. Studio sulla tirannide (Mondadori, 1964), abbiamo avuto un enorme problema nel nostro approccio critico: ogni forma di conoscenza frontale di questo materiale veniva contestata, la semplice interlocuzione era tacciabile di apologia.
Un altro diaframma ci ha allontanati da un rapporto critico consapevole: Il grande dittatore e l’infinita quantità di opere, evidentemente molto meno riuscite rispetto al geniale film di Charlie Chaplin, che hanno ridotto Hitler a una farsa. In questo noi italiani siamo maestri, anche perché nella nostra lingua neolatina, così morbida nei suoni, molto diversa rispetto al tedesco, che è una lingua più gutturale, la caricatura di Hitler e dei suoi comizi ci viene fin troppo facile: era quell’omino con i baffetti che gridava, e questo ci ha dato la sensazione che ormai fosse inoffensivo.
Quello che accade ce lo ha spiegato Freud. Cosa fa l’individuo, il soggetto psichico, nei confronti del trauma? Freud spiega che lo evita, lo rimuove e lo reprime. È la nostra prima tentazione, d’istinto.
Davanti al male noi reprimiamo, evitiamo, rimuoviamo. Ma Freud dice anche che quando rimuovi, il trauma non guarisce, ma mette le radici e diventa altro. Freud aggiunge che molto spesso usiamo un’altra forma per illuderci di aver rimosso il male: ironizzare, riderne. Siamo convinti che la risata sia una forma di controllo: ci sentiamo superiori rispetto a ciò di cui ridiamo e dunque lo controlliamo. Così abbiamo trasformato spesso e volentieri Hitler in una farsa, in una caricatura. Anche questo ci ha illusi che fossimo autorizzati a non conoscerlo, proprio perché ne ridevamo. Ma se oggi qualcuno usa quegli argomenti, quei toni, e vince le elezioni, questo si deve anche al fatto che non abbiamo avuto questo rapporto diretto con Hitler e con Mein Kampf.
Abbiamo trasformato anche Mussolini in una macchietta, del resto non era così difficile. Anche per questo i conti con il fascismo non siamo riusciti a farli. Ma c’è anche un’altra prospettiva. In un film che racconta il crollo del regime, La caduta (regia di Oliver Hirschbiegel, 2004), Hitler è impersonato da Bruno Ganz.
Quando uscì il film si accese un feroce dibattito, perché quello straordinario attore aveva interpretato magistralmente il suo personaggio e dunque lo aveva in qualche misura reso “eccessivamente umano” e non l’incarnazione del male assoluto.
Non ti rispondo con le parole di Stefano Massini, ma con quelle di una persona ben più importante di me, Sigmund Freud. Siamo negli anni Trenta e Alfred Einstein gli scrive la famosa lettera dove gli chiede “perché esiste ancora la guerra? Io da uomo di scienza non so spiegarmelo”. Da uomo di scienza, Einstein non riusciva a spiegarsi per quale ragione noi esseri umani, pur sapendo che la guerra da sempre comporta distruzione, catastrofe, rovina, abominio, continuiamo a celebrarla a intervalli regolari come l’unico modo per risolvere i conflitti fra Stati. E ne abbiamo una prova in queste ore.
Noi sappiamo tutti che cosa è la guerra e tuttavia, chiede Einstein a Freud, perché non ci siamo ancora adeguati al fatto che la guerra sia soltanto distruzione? Freud gli risponde dicendo che è costernato di doverlo deludere. Lo studio sull’animo umano, gli spiega Freud, lo ha portato all’evidenza che dentro ogni essere umano, in tutti gli esseri umani, compreso me, compreso lei, compreso Oliviero Ponte di Pino, compreso Stefano Massini, ci sono due forze contrastanti.
La prima è primordiale, antichissima, legata al tempo in cui eravamo dei primati e la nostra corteccia prefrontale – quella che Salvador Luria chiama “il luogo della civilizzazione” – ancora non si era sviluppata. Eravamo ancora degli esseri per i quali mors tua vita mea. Io tutelo solo me e i miei consanguinei, quindi se davanti a me ho la carcassa dell’animale che ho cacciato e arriva qualcun altro che vuole mangiarselo, io e i miei consanguinei mangeremo meno, quindi lo elimino perché è un’insidia, è una minaccia. Aggressione e violenza come tutela per preservare darwinianamente la sopravvivenza del soggetto e consentirgli maggiori chance di sopravvivenza.
E anche per preservare l’identità di gruppo.
Tutto questo sta dentro di noi, ci dice Freud, come un istinto che non puoi sopprimere, antico di migliaia e migliaia di anni. La forza aggressiva, violenta che abbiamo dentro, la reazione minacciosa a tutto ciò che è altro, si chiama Thanatos. Successivamente, e si parla comunque di un percorso molto antico anche se successivo, dentro di noi nasce un’altra forza, Eros. E’ vero che se siamo in tre a mangiare, mangiamo meno. Ma abbiamo scoperto che se a cacciare siamo in quattro, in cinque, abbiamo più probabilità di cacciare una preda più grande: da solo non riuscirei a vincerla, in quattro e cinque ci riusciamo.
In altre parole, la tribù conviene, anche perché la suddivisione dei ruoli è vantaggiosa. Nella tribù ci sarà qualcuno che madre natura ha fatto più robusto di corporatura e mi servirà per difendere la tribù. Qualcun altro è meno robusto, ma molto più bravo a impastare le erbe che servono a curare le ferite di un Marcantonio che resta ferito in guerra. La specializzazione dei ruoli all’interno della tribù ci salva. Da tutto questo discendono il confronto, il dialogo, la bellezza, il Rinascimento, le cattedrali, i libri…
In quella lettera a Einstein, Freud dice che in noi convivono Eros e Thanatos. Abbiamo una parte del cervello che reagisce aggressivamente, la parte più antica, rettiliana, primordiale. Quando qualcuno ci dice che siamo in crisi, in pericolo, che gli altri ci minacciano, e minacciano la nostra identità e il nostro perimetro, la nostra sopravvivenza, i nostri cari, quella parte di noi reagisce. Non possiamo non farlo, perché fa parte della umana. Solo che a quel punto interviene l’altra parte, che invece media e dovrebbe risolvere i conflitti in un altro modo. Freud, in una frase bellissima, dice che dentro ognuno di noi, c’è potenzialmente Mozart e c’è potenzialmente Torquemada. Li abbiamo dentro tutti e due.
Il mio esperimento si fonda su questo. Quando ti trovi di fronte un essere umano, non a un UFO ma a un essere umano come te, che stimola ed evoca in te quella parte distruttiva, ancestrale, primordiale, cavernicola, ti trovi davanti a un bivio. O la butti in caciara e fai i Flintstones, e ti dici che quella parte di te è un ridicolo cartone animato primordiale. Oppure la prendi sul serio e provi a vedere cosa accade dentro di te di fronte a un Hitler umano – non un Hitler in bianco e nero, sgranato, che è già altro rispetto a noi. Cosa accade se lo incontro in una piazza o in una diretta Facebook, e mi dice le parole che diceva lui, intrise di umanità, perché non è un caso che tutto nasca dall’autobiografia di un underdog che ti dice:
“Io sono come te, io sono un frustrato come te, io sono uno che viene da un posto in cui non volevo nascere, io sono uno che è stato costretto a litigare un guanciale dentro l’ostello dei poveri di Vienna, io sono uno che non riusciva ad avere soldi, guadagnava 100 marchi al mese, io sono uno che, di cui nessuno all’ospedale da campo ricordava il cognome, mi chiamavano ragazzo, io ero l’unico di cui nessuno ricordava il cognome, mi chiamavano ragazzo”.
E’ la normalizzazione del corpo di cui parla Clara Moroni. Il politico tende a rendersi corpo mistico e insieme mediale: nella sua autobiografia ti ci puoi ritrovare. Ti faccio vedere che oggi è Natale e ho fatto l’albero di Natale con mia figlia, adesso siamo in estate e ballo sopra il cubo del Papeete con la cubista. Te lo faccio vedere per dirti che mentre ti chiedo di misticizzarmi, ti chiedo anche di destrutturarmi, di demistificarmi, perché sono come te e faccio il barbecue come te. E’ su questa grandissima contraddizione che si regge oggi la narrazione politica.
Per salire in scena, non mi taglio la barba, non mi sono fatto i capelli con il ciuffo, non ho una protesi con un baffettino sotto il naso. Non faccio pagliacciate, il finto Hitler. Voglio mantenere il mio viso, il mio corpo: sono un essere umano che sul palcoscenico dice quelle parole, stimolando, eccitando, evocando, seducendo. Hitler parla di un “corteggiamento erotico delle masse”. Tornano quello che aveva detto Canetti e la lezione di Orwell. Quello che stiamo facendo è un discorso spietato, privo di pietas.
Si tratta di salire sul palco e far sentire un virus depotenziato, perché siamo in teatro, perché siamo al Piccolo, perché c’è Massini, e non è un candidato alle elezioni. Voglio inoculare queste parole da un pulpito umano: homo sum nihil humanum a me alienum puto. Sono parole collegate a Terenzio, stiamo parliamo di teatro, e il teatro è il luogo dell’umanità, ma anche il luogo dove ascoltiamo anche il peggio che crea l’umanità.
Aristotele nella Poetica parla della catarsi come del momento fondamentale della tragedia, in cui l’essere umano si può ritrovare, purificato dal male. La tragedia ti mette davanti alla distruzione, davanti al male, davanti al sangue di Agamennone, davanti alla colpa, a Oreste che uccide la madre. Oreste viene condannato dalle Erinni, le entità sanguinarie che però il logos, la ragione, trasforma in Eumenidi, cioè in entità benevole. Ma questo che cos’è, se non lo spettacolo a teatro, il rito dell’umanità che si mette davanti al peggio di sé e lo trasforma con il logos in una capacità costruttiva? Per Norberto Bobbio soltanto con la ragione possiamo creare l’antitesi al male.
Nel corso della tua carriera di drammaturgo, sei tornato spesso sulla questione ebraica e sulla Shoah, a partire dal tuo primo testo, Processo da Dio, ispirato a Elie Wiesel. Che rapporto c’è tra il tuo interesse per la questione ebraica e la decisione di andare alla radice di tutto questo, confrontandoti con Mein Kampf?
Ero ancora un bambino, avevo quattro o cinque anni. Non vengo da una famiglia ebraica, però successe una cosa che cambiò la vita della mia famiglia. Mio padre faceva un turno di lavoro in un istituto di analisi cliniche e il suo collega, la persona con cui lavorava, che era più anziano di lui, ebbe un attacco di cuore, un infarto. Erano soltanto loro due. Mio padre gli prestò i primi soccorsi in attesa che arrivasse l’ambulanza e gli salvò la vita. Era Renzo Servi, che per me è stato come un secondo padre insieme, ed era uno degli anziani della comunità ebraica di Firenze.
La comunità ebraica di Firenze è di rito sefardita, e tra le tante regole del rito sefardita ce n’è una che dice che se un non ebreo salva la vita a un ebreo, la sua famiglia e la comunità intera sono tenuti ad accogliere quel non ebreo come se fossero dei loro. Così nacque un’amicizia bellissima fra la mia famiglia e quella Renzo Servi. Venimmo accolti dalla comunità ebraica, nella loro famiglia, che era molto numerosa. Io ho conosciuto il teatro grazie a loro, perché sotto la sinagoga di Firenze, che ha un tempio bellissimo, c’era un teatro dove gli anziani della comunità recitavano i test dell’antico repertorio ebraico fiorentino. Erano commedie in una lingua stranissima, molto antica, l’ebraico fiorentino. La moglie di Renzo, Ornella Cassuto, era la maestra nella scuola ebraica parificata della comunità ebraica. Quando arrivò l’età di andare a scuola, siccome in quella scuola insegnavano l’inglese, perché molti ebrei fiorentini venivano da famiglie americane o inglesi, Ornella disse ai miei genitori: “Perché ogni tanto non fate venire Stefano al doposcuola, qui da noi alla scuola ebraica, così impara l’inglese?” Così sono cresciuto con un piede nella cultura occidentale, cattolica, cristiana, e un piede nella cultura ebraica, perché ci andavo spessissimo, anzi ero quasi più spesso lì che non al doposcuola “normale”. E sono cresciuto per tanti anni rispettando e festeggiando le feste nostre della tradizione cristiana, come Natale e Pasqua, e contemporaneamente festeggiavo Hannukah, Purim, Shavuot, Shukot, Tishri, Rosh Hashanah, facevo il Seder di Pesach…
Ho imparato l’ebraico, sono cresciuto con questa meravigliosa cultura e ho conosciuto tante persone fondamentali nella mia formazione, come il rabbino capo della comunità ebraica di Firenze Joseph Levi e ho un rapporto straordinario d’amicizia con Enrico Fink e con tantissimi altri.
Così è nata la mia passione per la cultura ebraica e per la meravigliosa cultura della diaspora. Ho approfondito non soltanto l’ebraismo sefardita, ma anche il suo gemello, o meglio fratello, quello askenazita. I Lehman sono fondamentalmente una storia askenazi.
Via via il mio interesse è cresciuto. La famiglia di Ornella e quella di Renzo portano i segni della Shoah: molti loro parenti strettissimi sono stati deportati e sono morti ad Auschwitz. Ornella mi ha cresciuto raccontandomi di quando lei da bambina venne portata, senza che nessuno dovesse sapere che era ebrea, in una chiesa di campagna fuori Firenze, dove venne affidata a un sacerdote. Durante i bombardamenti, tutta la comunità di questo piccolo paese agricolo terrorizzata dai bombardamenti su Firenze, si radunava in chiesa: tutti cominciarono a pregare e anche Ornella, che era una bambina, si mise a pregare: ma cominciò a pregare in ebraico, e il sacerdote iniziò a darle dei calci, perché lei recitasse l’Ave Maria.
Io sono cresciuto con questi racconti e quindi il tema della Shoah è profondamente presente dentro di me. Il mio primo testo teatrale, quello con cui mi conobbe Franco Quadri, è Processo a Dio, portato in scena per due stagioni da Ottavia Piccolo con la regia di Sergio Fantoni. Questi temi li ho sempre trattati, fanno parte del mio vissuto e del mio sentire, del mio modo di leggere la realtà.
Adesso sento il bisogno di andare al punto di partenza, dal quale tutto questo è disceso. Prima citavo Hannah Arendt: Mein Kampf è proprio l’apoteosi della banalità del male, anche perché le parole di Hitler rivelano tutti i loro limiti. A un certo punto, Hitler dice: “Non ero affatto antisemita, anzi mi arrabbiavo se in mia presenza qualcuno parlava male degli ebrei.” Lo dice lui. “Poi però succede che un giorno mi incontro per strada un tipo che alza gli occhi e mi guarda insistentemente, ben più a lungo di quanto un estraneo fissi un altro estraneo per strada. E mentre guardo questo tipo che chiude i bottoni, cerca qualcosa nella tasca, con il suo grande cappello tipico della sua razza…” Questo accadeva a pochi isolati dalla Rothgasse, una delle strade principali di Vienna. Hitler prosegue: “Cominciai a pensare che forse era vero che tutti gli scrittori sono ebrei, tutti i giornalisti sono ebrei, gli industriali sono ebrei. Ecco chi è che vuol fare di me un impiegato e non armerebbe la mia mano se non di un acquerello.”
A quel punto ti rendi conto che tutto è nato dalla frustrazione di un ragazzo che un giorno incontra per strada un ebreo che gli si ferma davanti. Probabilmente se avesse incontrato un ungherese, magari avevamo milioni di morti ungheresi. Se avesse incontrato un italiano, non essendo gli italiani al vertice della gerarchia dei potenti dell’impero austro-ungarico dell’epoca, magari avrebbe creato un costrutto mentale sugli italiani, considerati – chissà – portatori di un gene mediterraneo che a suo avviso corrompeva il gene puro ariano: i colpevoli eravamo noi, e avremmo avuto sei milioni di morti di italiani dentro i campi di Auschwitz.
Il contratto (Dedalo, 2004) dello storico Giorgio Fabre racconta che all’inizio degli anni Trenta Benito Mussolini utilizzò la traduzione italiana di Mein Kampf per finanziare la carriera politica di Hitler, strapagando i diritti d’autore…
Il tuo Comico e politico. Beppe Grillo e la crisi della democrazia (Cortina, 2014) è un contributo importante sulla destrutturazione della narrazione politica che abbiamo visto anche in Italia. C’è un libro di Konrad Heiden (Vita di Adolfo Hitler. L’epoca dell’irresponsabilità, Leonardo, 1947) che rimanda a una parola molto bella: “responsabile”, che in latino significa “essere idoneo a rispondere”. Nelle nostre democrazie è fondamentale il principio di delega: in occasione delle elezioni, con un voto democraticamente espresso, la maggioranza esprime un governo. Ma non c’è soltanto una maggioranza che esprime un governo: c’è un corpo elettorale che esprime un Parlamento, e all’interno di quel Parlamento c’è una maggioranza che esprime un governo. Oggi abbiamo trasformato la politica in un ulteriore rodeo, accanto ai reality show o ai talent. Non c’è un televoto ma il voto. E così come esprimiamo un televoto per il reality o per il talent, così esprimiamo un voto per chi si candida con gli stessi criteri di empatia e di simpatia. Alla fine di questo grande rodeo, il monte premi non è il contratto discografico oppure la pioggia di coriandoli e stelle filanti in diretta televisiva, ma la guida del paese. “The winner is…” Colui che vince prende le redini del paese. Quello che accade nei reality, dove il secondo classificato ha perso e nessuno se lo ricorda, accade anche in politica, con la differenza che il secondo classificato è la parte critica, la minoranza. E’ l’opposizione che proprio in quanto parte minoritaria ha il dovere di essere il contraltare di chi governa.
Quando intervengo in diretta nel talk show Piazza pulita il giovedì sera, non c’è volta che io non venga sommerso sui social da un delirio di post e di commenti che mi dicono che io debbo tacere perché ho perso. Questo nodo riguarda il fondamento stesso della democrazia: una democrazia che si basa esclusivamente sul principio maggioritario, cioè dove il vincitore prende tutto, non è una democrazia. La democrazia vive del rispetto delle minoranze e della dialettica tra maggioranza e minoranza. Il tema negli ultimi anni è emerso con grandissima forza: tante forze politiche, che sono al loro interno sostanzialmente antidemocratiche, tendono a portare la stessa logica anche sulla scena politica.
Nel momento in cui hai un partito carismatico, padronale, dove la dialettica interna non è ammessa, dove non si fanno congressi, dove non ci sono correnti e posizioni che si confrontano alla ricerca di una mediazione, nel momento in cui arrivi al governo del paese utilizzi lo stesso sistema, lo stesso criterio, lo stesso metodo. Il meccanismo diventa molto pericoloso, perché non consente più conflitti di emergere e la dialettica politica non riesce a costruire la mediazione necessaria.
Il totalitarismo italiano è andato in quella direzione, ha preso quell’atteggiamento. Ma tantissime altre forze tendenzialmente populiste fanno lo stesso in altri paesi. Mein Kampf lo dice espressamente: “La democrazia è un inganno. Perfino nel gioco degli scacchi esiste un solo re e numerose sacrificabili pedine la cui sorte è del tutto irrilevante. La partita continua fino a che il re e lui solo è salvo. La democrazia è una menzogna.”
E’ la strategia che Hitler stesso ha messo in pratica e che il film La caduta rende evidente. Il Führer, nella sua follia, ha sacrificato un intero paese, portando la Germania alla distruzione. Finché non è caduto anche il re.
E anche oggi si è affermato questo principio di delega in qualche misura incondizionata – anche se da noi molto volatile. In Italia ogni due o tre anni arriva un nuovo messia a cui gli italiani si affidano in maniera quasi plebiscitaria: Berlusconi, Grillo e Conte, Salvini, Renzi, Meloni… Poi quando ci accorgiamo che non possono mantenere le loro promesse, che problema c’è? Ne troviamo un altro.
Ma accanto a questa deresponsabilizzazione si avverte una necessità di partecipazione, un desiderio di cittadinanza che si esprime in vari modi: nelle formule degradate del contrasto di rete, ma anche in tante forme di partecipazione civica, prima ancora che politica, all’interno della società civile. Oggi la democrazia sta facendo molta fatica a uscire da questa strettoia: da un lato subiamo meccanismi di comunicazione politica, che portano a questo degrado. Riuscire a ridare forza ai meccanismi di cittadinanza, ai meccanismi democratici che nascono dal basso, diventa sempre più difficile. Ma senza un equilibrio tra le istituzioni, diventa difficile uscire dalla crisi della democrazia che stiamo vivendo.
Mein Kampf è uno spettacolo sulla democrazia. Abbiamo parlato di Elias Canetti, e dovremmo citare anche Max Weber, quando intuì che la realtà non è mai oggettiva, ma è sempre un punto di vista che nella narrazione politica per le masse diventa totale e assoluto. Oggi oltretutto questo punto di vista corre il rischio di essere sempre di più corroborato e nutrito da una realtà posticcia creata con l’intelligenza artificiale, che fabbrica continuamente prove all’apparenza evidenti, indiscutibili, su cui basare questa narrazione. L’orizzonte è sempre più kafkiano: si crea una narrazione posticcia corroborandola con prove posticce e tutto quanto perde ormai ogni affidabilità.
Pochi giorni fa sono andato a trovare Ornella, che ormai è novantenne. Mi diceva: “Tutto quello che ho vissuto e che ho visto con i miei occhi, lo possiamo raccontare sempre meno come testimoni oculari, autentici”. E poi ha aggiunto: “Ma tanto oggi nessuno crede più a niente”.
Io sono un uomo di teatro, e il teatro non è solo il mio primo amore temporale, è anche la mia priorità: resta il luogo in cui più potentemente io riesco a sentire la necessità e anche il primato del mezzo. L’immediatezza del rapporto che si crea fra un corpo fisico, presente hic et nunc davanti a una platea presente hic et nunc, è l’elemento di comunicazione più forte che conosco. Poi ho conosciuto la televisione, che è un sistema mediato: il rapporto con lo spettatore non è solo mediato, è ipermediato, perché dipende dall’inquadratura, dal regista, dal momento in cui un network decide rimandarlo in onda, e da tutta una serie di fattori.
In un’epoca sempre più comoda, sempre più agevole, in cui tutto, dal cinema allo sport, fino al cibo, ci arriva a domicilio sul divano di casa, il teatro continua a essere l’unico rito che ti chiede uno spostamento fisico, una presenza fisica. Ti chiede un costo per aderire a quell’ecclesia. Questo dovrebbe continuare a imporre al teatro, e a chi si occupa di teatro, un timore quasi sacrale nei confronti del linguaggio che usiamo, perché è qualcosa di raro e insostituibile, anche all’interno della nostra società. La polis, e quindi la politica, può prendere forma molto consistentemente in quello che accade in teatro.
Io starò per tre settimane in scena allo Strehler, che non è un teatro piccolo. Le migliaia di spettatori che – spero – assisteranno a questo spettacolo, vivranno sulla loro pelle un’esperienza e un esperimento che non è soltanto estetico, visivo, culturale, linguistico, ma è anche e soprattutto politico, sociopolitico, e di questo vado fiero.
Avranno di fronte a sé un Massini molto diverso da quello che conoscono e da quello che si possono aspettare.
Venticinque anni fa facevo l’assistente di Luca Ronconi al Piccolo Teatro. Aveva scelto il mio curriculum fra tanti, mi fece un colloquio e venni scelto come assistente: ero giovanissimo, in quel periodo in cui Ronconi faceva Lolita, I gemelli veneziani, Phoenix, e soprattutto Infinities, che ha cambiato profondamente il mio modo di leggere la sintassi del teatro e la parola del teatro dentro uno spazio. Molto spesso venivo incaricato di leggere le battute degli attori che non c’erano: Ronconi ha sempre sostenuto, insieme a Franco Quadri, che io dovessi prendermi la responsabilità di dire in prima persona le parole dei miei testi che affidavo gli attori. Ma ero bloccato: per un lungo periodo, a causa di un problema legato all’ansia, alle pressioni, io non avrei potuto mai cantare con il mio corpo fisico su un palcoscenico.
Non avevo mai dato ascolto a quella indicazione del mio maestro (dopo Orazio Costa, Massimo Castri e Patrice Chéreau, che avevo incontrato a ventiquattro anni, quando facevo l’assistente nei teatri d’opera), fino alla sua morte nel 2015. Dopo Ronconi, a chi potevo affidare i miei testi? Non sentivo più un rapporto di fiducia con un regista: a chi dare quei testi così complessi? La drammaturgia di Lehman Trilogy, Mein Kampf, ma anche Anna Politkovskakja e Manhattan Project rappresentano il mio modo di credere in una parola che sia drammatica senza essere necessariamente drammatizzata. Vengo dal magistero di Ronconi: la parola totale, e dunque la drammatizzazione di qualunque testo, e Calderón de la Barca aggiornato per cui il grande teatro del mondo riguarda anche la teatralizzazione di testi di ogni tipo senza necessariamente renderli drammatici ma mantenendoli come sono. Per me è stato un maestro insostituibile per la sua capacità di lettura dei testi, soprattutto in collegamento all’ipertesto, a ciò che gli stava intorno, al contesto, a come le parole rimbalzavano nella società. Ronconi diceva sempre che il teatro è un percorso di conoscenza: intendeva dire che il teatro è latinamente “informazione”, ovvero immettere forme, griglie, nuovi schemi di lettura per quello che accade fuori dal teatro.
Scrivo in modo strano, quasi saggistico. Nelle librerie non sanno in quale scaffale mettere i miei testi, se nella saggistica, nella poesia o nel teatro. Quando Lehman diventò un romanzo per Mondadori e venne candidato a diversi premi letterari, dal Campiello al Mondello, cominciarono a chiedere presentarlo e mi trovai costretto a farlo, perché non potevo mandare gli attori. La prima volta fu un trauma incredibile, fui obbligato a metterci la faccia. Ma scoprii anche che quello che mi dicevano Ronconi e Quadri, e quello che mi disse anche Dario Fo, aveva un senso: se parlavo io, riuscivo a dire delle cose e le persone mi seguivano .
Poi per un caso ho trovato la televisione: la prima volta ci sono stato per sostituire un ospite che all’ultimo si era ammalato. Era la sera dell’insediamento di Donald Trump, in diretta televisiva sulla 7. Lilli Gruber mi chiese di andare ospite a Otto e mezzo, funzionai e cominciarono a chiamarmi. Corrado Formigli ebbe l’idea di affidarmi uno spazio settimanale e da lì le cose si sono messe in fila.
Se si esclude Ottavia Piccolo, con la quale mantengo un sodalizio profondo e vitale, ho scoperto che posso io stesso chiudere il cerchio.
Mi ricordo che una volta, brutalmente, un allievo gli chiese: “Maestro, alla fine che cos’è il buon teatro?” E Ronconi: “Pensa a uno che sia venuto a vedere uno spettacolo qui allo Strehler e che finito lo spettacolo, sulla soglia del teatro, appena dopo aver visto lo spettacolo, venga colto da un infarto e muoia lì. Le ultime due ore che ha passato a teatro gli hanno dato delle forme in più per capire che cos’è stare al mondo?” Questa provocazione evidentemente sferzante sulle ultime due ore di vita di uno spettatore colto da un infarto sulla porta del teatro mi è sempre rimasta addosso. Fare Mein Kampf e raccontare l’umanità pericolosissima di Adolf Hitler, a rischio di apologia, è qualcosa che oggi per me ha senso fare.
Hai raccontato come tu abbia preso posto sulla scena con modalità che stanno tra la narrazione, la saggistica e la lirica. Hai fatto uno spettacolo, Storie, con Paolo Jannacci al pianoforte e Daniele Moretto alla tromba, in cui esplori e teorizzi le forme della narrazione. Dici: “Le storie si nascondono ovunque soprattutto oggi, nella proliferazione dei mezzi di comunicazione, in cui la bulimia del narrare a tutti i costi si traduce in valanghe di sequenze inutili. (…) Proviamo a farci strada nell’officina del racconto, laddove prende forma il viaggio antico dell’evocare, quel sistema di metafore e rimandi che Borges definiva incanto, magia, anatomia incredibile del reale”. In questo caso esci dalla forma della narrazione teatrale.
All’inizio dello spettacolo tra i numi tutelari di questa operazione, insieme a Joseph Roth, Stefan Zweig e Thomas Mann, cito Bertolt Brecht. Lo cito all’inizio, e sono felice di farlo al Piccolo Teatro, perché questo è uno spettacolo in cui non ho voluto nessun segno naturalistico.
E non racconti nemmeno che una bella mattina Hitler si sveglia nella sua cella e cominci a narrare quello che gli accade. Usi proprio le sue parole.
In Mein Kampf Hitler parla in prima persona: “dissi… andai… feci… pensai…”. Lo incastono all’interno di una narrazione, attraverso l’episodio di Kastner che racconto all’inizio, quando sono ancora Stefano Massini, e con cui concludo lo spettacolo. Non c’è immedesimazione ma un’appropriazione delle parole di Hitler dentro un corpo che rimane il mio. Quindi è una sorta di ventriloquia delle parole tratte da quel testo maledetto, da un testo pericoloso che riguarda tutti, e in primo luogo lo Hitler che è in me. Torniamo al Freud di cui parlavamo prima, sul Thanatos che è dentro ciascuno di noi.
Se possiamo chiudere con una battuta, possiamo dire che il performativo è politico?
Inevitabilmente. Hai ricordato che Adolf Hitler si fece dare lezioni di recitazione. Se il politico è diventato un leader carismatico, è iniziato in quegli anni. Mussolini recitava, Hitler recitava, e a suo modo, anche se diversamente, recitava pure Stalin. Diversi grandi dittatori hanno emulato Hitler. Mussolini, sulla base del successo di Mein Kampf in Germania, decise insieme a Giovanni Gentile di tentare il Mein Kampf del fascismo italiano e iniziò a scrivere la famosa voce fascismo dell’Enciclopedia Italiana, che però non ha raggiunto quell’obiettivo. Ci hanno provato, in una diversa latitudine politica e geografica perfino i cinesi, con il Libretto rosso di Mao Zedong che tutti i cinesi dovevano possedere (anche se non era scritto da Mao, ma era una collazione delle sue massime redatta dai suoi collaboratori). Anche il Libretto verde di Gheddafi era un’emulazione del Mein Kampf.
Grazie, Stefano. Ci vediamo in teatro.
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