A teatro nessuno è straniero | Un coro di 21 donne per dire no alla guerra e alla violenza

Mothers. A Song for a Wartime di Marta Górnicka al Teatro Studio Melato per il Festival Internazionale Presente Indicativo

Pubblicato il 30/08/2024 / di / ateatro n. 194 | A teatro nessuno è straniero

Sabato 18 maggio 2024, in occasione del Festival Internazionale Presente Indicativo | Milano Porta Europa partecipiamo allo spettacolo Mothers. A song for a wartime nella suggestiva galleria del Teatro Studio Melato. Approdare al festival è l’occasione per incontrare “un’Europa intesa come orizzonte culturale”, che si estende al di là dei confini fisici e politici che tradizionalmente la definiscono. In scena un coro di donne e di madri ucraine, bielorusse, polacche, che cerca una voce comune per trovare un antidoto di luce contro la violenza della guerra.
Si tratta dell’ultimo appuntamento milanese del progetto “A teatro nessuno è straniero” per la stagione 2023-24 che ha visto un nutrito gruppo di persone provenienti da diversi continenti e accomunate dallo studio della lingua italiana, partecipare alla proposta teatrale della città per elaborarla e raccontarla con contributi individuali e collettivi sugli spettacoli.

La presentazione dello spettacolo

L’appuntamento è alla scuola di italiano della Comunità di Sant’Egidio per una presentazione dello spettacolo a cura di Olha Radibaba e di Liudmyla Volkova, due studentesse della Classe di Cultura e Cittadinanza di origine ucraina.
Lo spettacolo vede coinvolte in scena 21 donne ucraine, polacche e bielorusse di età compresa tra i 10 e i 72 anni. Donne che con il loro figli sono sopravvissute alla guerra, donne rifugiate in Polonia, testimoni di violenze e bombardamenti.
Olha e Liudmyla si sono preparate sui contenuti dello spettacolo e hanno approfondito alcuni elementi relativi alla drammaturgia e al linguaggio della performance.
Presentano il progetto a partire dalle parole della regista Marta Górnicka.
È una regista teatrale, autrice, cantante, che nella sua produzione artistica riscopre la forma corale. Di origine polacca si è laureata presso la Facoltà di regia teatrale dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Aleksander Zelwerowicz di Varsavia. Ha studiato alla Scuola di Musica Frederic Chopin di Varsavia e all’Università di Varsavia.
Nel 2009, in collaborazione con l’Istituto Teatrale di Varsavia, ha fondato Chór Kobiet (Il Coro delle Donne), un coro tragico moderno, scrivendo i libretti e dirigendo i successivi spettacoli della compagnia. Il suo lavoro è stato accompagnato dall’idea di “recuperare/creare la voce della donna” come forma più repressa dal palcoscenico occidentale – e di utilizzare questo gesto per riconquistare lo spazio per le donne e il coro in teatro.

Il coro come forma artistica e politica

Il coro, che Marta fa nascere come unico protagonista delle sue performance, è sempre sia uno strumento critico per esaminare i moderni meccanismi di controllo, esclusione e violenza, sia un veicolo di comunità. Nelle sue opere, Górnicka sonda spesso il rapporto tra individuo e società, sperimenta nuove forme di voci collettive. Sviluppa pratiche nel campo del carattere politico del corpo, della voce e del linguaggio.
Gli spettacoli di Górnicka (This Is The Chorus Speaking, Magnificat, Requiemachine, M(other) Courage, Hymn To Love) sono stati rappresentati in tutto il mondo in più di sessanta festival teatrali e di regia in Grecia, Francia, Germania, Giappone, Ucraina, Svizzera, India, Belgio, Repubblica Ceca, Irlanda, Austria, Bosnia ed Erzegovina, Paesi Bassi, Svizzera, Inghilterra, Italia, Russia, Cile, Spagna e altri paesi.
Anche lo spettacolo che vedremo al Piccolo Teatro si basa su questa ricerca. Noi assistiamo alla seconda delle due repliche italiane dello spettacolo.
Dice la regista: “Il nostro spettacolo parla di donne e di guerra. Di meccanismi di difesa e di responsabilità. Parla della nostra reazione alla guerra in Europa. Parla dei rituali di violenza bellica contro le donne e i civili che sono immutabili.”

Mothers

Olha ci racconta che al centro dello spettacolo ci sono le esperienze delle 21 “madri” che hanno vissuto sulla loro pelle e con il loro cuore la violenza dell’attuale guerra in Ucraina.

Sappiamo che lo spettacolo è scritto a partire dalle testimonianze delle donne sfuggite alle persecuzioni e delle donne che le hanno accolte nelle case polacche. Sappiamo che nello spettacolo si mescolano filastrocche ucraine, canti tradizionali, incantesimi e dichiarazioni politiche. Lo spettacolo si apre con una shchedrivka (Ukr. щедрівка) – una canzone tradizionale ucraina, un augurio di felicità e rinascita. Queste canzoni risalgono all’epoca precristiana e probabilmente hanno migliaia di anni. Il rituale di cantare una shchedrivka veniva eseguito solo dalle donne o da donne e bambini. Era sempre rivolto a una persona in particolare. La gente credeva nel potere della canzone, confidando che le sue parole e gli auguri si sarebbero sicuramente avverati. Oggi questi auguri cantati sono rivolti a tutte le persone, per un nuovo periodo di abbondanza, per tutta la vita.

Ascoltiamo una parte della canzone tradizionale per cui Olha ha preparato anche una traduzione in italiano per il gruppo.

Generosa, generosa, piccola generosa,
È arrivata una rondine,
Ha cominciato a cinguettare,
Ha chiamato il padrone di casa:
“Vieni fuori, vieni fuori, padrone,
Guarda il recinto del bestiame,
Le pecore hanno partorito,
E gli agnelli sono nati.” […]

Olha e Liudmyla ci raccontano di questa canzone rituale nelle loro esperienze personali e familiari che scopriamo cambiano da regione a regione e da città a città, abbracciando delle varianti. Quello che non cambia è il valore benaugurale di questo canto.
Citando ancora Marta Górnicka: “Il libretto di Mothers e lo spettacolo per il tempo della guerra, inizieranno con una canzone, che è un vecchio rituale, una canzone – un augurio di prosperità, vita e rinascita. Si tratta di trovare insieme ciò che è vivo tra le macerie. In un incontro, nel coro.”
Liudmyla coglie l’occasione per raccontare altri dettagli della cultura e del folclore del suo paese. Ci mostra immagini che la ritraggono impegnata in balli tradizionali, ma anche impegnata nell’apprendere come suonare la bandura, strumento tradizionale ucraino. Liudmyla riporta l’attenzione sulla musica e su uno strumento di cui ritroveremo la storia anche nello spettacolo: una delle donne ucraine rifugiate a Varsavia ha portato con sé, fuggendo dalla guerra, proprio una bandura per salvare la sua musica. Questo strumento è per lei un simbolo del potere della voce e del potere delle donne.

Dopo lo spettacolo: l’incontro con la regista e alcune attrici

Dopo lo spettacolo, con la regista e il cast di Mothers

L’incontro con Marta Górnicka e alcune delle attrici della compagnia si tiene nel foyer del Teatro Studio Melato, alla presenza di un nutrito gruppo di spettatrici e spettatori, tra cui spicca anche la nostra comunità teatrale. L’incontro inizia con una presentazione generale delle persone presenti all’incontro e del progetto nelle parole della regista.
Spiega Górnicka: “Per questo progetto ho aperto una call e molte persone hanno risposto. Nei laboratori abbiamo parlato e pianto molto. Ci siamo incontrate per moltissimo tempo. Ho passato ore con ognuna di queste persone e ho prolungato il processo di scelta del cast. A un certo punto del processo ho sentito che non ero più in grado di scegliere, di fare il mio lavoro. Oggi sono felice di averlo fatto. Orgogliosa e felice di lavorare con queste donne e del coraggio che le contraddistingue.”
Si apre lo spazio alle domande. Il primo a intervenire è Danni Gonzalez con una domanda puntuale su un’immagine dello spettacolo che lo ha colpito particolarmente: “Perché la bambina”, la giovanissima interprete che abbiamo visto prima sul palco e ora siede davanti a noi, “si nasconde sotto la bandiera?”

Mothers: l’incontro con la compagnia nel foyer del Teatro Studio Melato

“Perché non vogliamo che lei senta la violenza, le parole di violenza a cui sono sottoposte le donne ucraine. Vogliamo proteggerla. Proteggere i suoi occhi e i suoi pensieri di futuro”, risponde la regista.
Liudmyla prende la parola per ringraziare le interpreti e per condivere i complimenti di tutto il gruppo. Mentre parla, commossa, passa dall’italiano, all’inglese all’ucraino. Al punto che buona parte di noi e del pubblico si perde le sue parole, compresa la traduttrice dall’inglese all’italiano, ma cogliamo l’intimità che si crea tra la nostra portavoce e buona parte delle attrici presenti. La potenza della voce che parla la propria lingua madre si manifesta anche qui, fuori dal palco e dalla performance, senza intermediazione.
Poi Liudmyla torna all’italiano per chiedere perché nella performance hanno deciso di partire proprio da una shchedrivka.

Mothers

Marta risponde che voleva cominciare lo spettacolo con qualcosa che non avesse nulla a che fare con la guerra, anzi, voleva proprio partire da un materiale condiviso che parlasse di vita e alla vita. Lavorando con un etnomusicologo, ha scoperto shchedrivka, e ha scoperto che ci sono molte canzoni con diverse varianti, che si prestano a molteplici interpretazioni, proprio come ci avevano fatto spiegato Olha e Liudmyla. Tutte queste canzoni rituali sono connesse con gli uccelli che si risvegliano, che tornano a volare in cielo dopo l’inverno e sanciscono l’arrivo della primavera. Nel rito tradizionale donne e bambine e bambini portano questa canzone alle persone sole, anziane, escluse. Nei villaggi si credeva che queste canzoni avessero una funzione magica, che potessero cambiare in meglio la realtà, trasformandola. Hanno scelto di iniziare lo spettacolo con questo canto per altri due motivi. Il primo è tecnico: la struttura primaria del canto costituisce una struttura ideale per il lavoro sul coro. Il secondo è sociale: questa canzone, nella sua struttura primaria, la conoscono tutte le famiglie ucraine. Aggiunge una delle attrici: “È una tradizione collettiva che si ripete cantando. Mentre la cantiamo, immaginiamo le nostre famiglie con noi, le famiglie da cui veniamo sono dietro di noi e noi siamo con loro”.
Nel corso dello spettacolo, le testimonianze delle donne in scena si compongono con altri materiali, che la regista definisce “di luce”, lontani dai contenuti della guerra. Tra tutti questi materiali viene ricordata dalla più giovane delle interpreti – la bambina a cui era rivolta la domanda di Danni – una poesia di pace che tradizionalmente viene recitata quando le persone litigano. La poesia si conclude con un gesto di riconciliazione, un movimento con il mignolo della mano e un bacio. “Questa poesia”, ci dice Polina, “la conosco da quando ho tre anni e tutti, bambine e bambini, la conoscono”.

Mothers

Liudmyla riprende la parola per aggiungere un commento personale: “Volevo chiamare il vostro gruppo Donne Coraggiose!”. Prosegue con una domanda concordata dal gruppo nel momento di preparazione allo spettacolo e all’incontro: “Da quanto tempo lavorate insieme?”
Risponde una delle attrici in ucraino e viene tradotta da una collega in inglese e poi l’interprete che ci riporta le sue parole (il gioco della lingua continua): “Abbiamo lavorato insieme per un anno. Da dicembre 2022. Lo spettacolo ha debuttato a Varsavia a fine ottobre del 2023. Tanto del lavoro per la produzione dello spettacolo si è concentrato in estate. Abbiamo lavorato per un’intera estate. Molte di noi con l’avvento della guerra non avevano più potuto avere dei piani sui nostri calendari. Il piano delle prove ci ha ridato la terra sotto i piedi. Le prove sono state terapeutiche e lo spettacolo è il nostro modo di dire la nostra verità a voce alta. Qui sul palco, oggi, e su tutti i palchi dove abbiamo fatto lo spettacolo abbiamo imbracciato le nostre armi. Le nostre voci e le nostre parole sono le armi che abbiamo per dirvi anche di non lasciarci sole, per ricordarvi che siete anche voi tutte persone coinvolte.”

Il gruppo e sullo sfondo Lanfranco Li Cauli e Claudio Longhi

Il gruppo e sullo sfondo Lanfranco Li Cauli e Claudio Longhi

Davanti a questo appello, con cui si chiude l’incontro pubblico, dopo un momento sentito e condiviso di silenzio, carico della relazione che si è creata tra i nostri mondi, le nostre mani ringraziano con un applauso commosso questo gruppo di donne coraggiose per la loro presenza qui a Milano oggi, nonostante tutto.
C’è ancora la foto di rito con la compagnia, a cui il nostro gruppo è particolarmente legato, e per l’occasione sono con noi anche il direttore del Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa Claudio Longhi e parte del suo staff, tra cui Andrea Zaru che ha fatto da mediatore per questo incontro e per quello sull’Albergo dei poveri, sempre al Piccolo Teatro: lo ringraziamo di cuore.

L’esperienza dello spettacolo nelle parole del gruppo

Mentre si discute di Mothers

Il 26 maggio si è tenuto il laboratorio di confronto e scrittura intorno allo spettacolo.
Il gruppo, formato da Olha, Liudmyla, Silvana, Tzvetan, Marisol, Salah, Annamaria, ha raccolto le risposte ad alcune domande pensate per orientare la riflessione.
Liudmyla si è fatta poi portavoce del testo collettivo.

Se doveste descrivere con una o più immagini il coro delle donne dello spettacolo, che immagine sarebbe?

Mothers

Prima di tutto: immaginiamo un triangolo con le 21 donne, con una bambina di dieci anni al vertice. Per noi è stata una sorpresa vedere una bambina così piccola tra tutte le donne. Donne coraggiose, extracoraggiose. Il popolo è unito. Urlo delle anime. Poi il momento del caos. Paura. Coraggio. Orgoglio. La testa alzata. Disperazioni. L’incertezza e la speranza nel futuro. Tutti i corpi sono rigidi e precisi nei movimenti. Poi, è scoppiata una bomba dalla loro voce.

Che cosa avete scoperto dai racconti personali delle donne coinvolte?

Una forza contro la violenza. Qualsiasi violenza, fisica, morale, psicologica. Poi, abbiamo scoperto le professioni delle donne e io, ho scoperto una mia quasi compaesana di una città vicino a Zaporizhzhya, Melitopol. In questo momento questa donna lavora in radio a Varsavia. Per me nello spettacolo c’era questa piccola sorpresa, non lo sapevo ed è stato molto piacevole.

Lo spettacolo vi ha fatto ricordare un canto/canzone popolare del vostro Paese di origine che legate a un’esperienza personale e/o a un’esperienza collettiva di denuncia e di lotta? Se sì, qual è e di cosa parla?

Una canzone argentina. Quattro righe. Io recito. Che si chiama Non piangere, per me Argentina. La canzone è scritta sulle parole di un discorso della moglie del presidente Perón, Evita Perón. Un discorso sui diritti dei lavoratori e delle donne, una canzone di lotta sociale. Poi, dalla Bulgaria c’è una canzone che si chiama Koledari, anche questa è una canzone rituale e benaugurale. E posso dire anche che è una canzone più vicina al popolo nostro ucraino, perché da noi si chiama Koliadka. Sono come parenti, diciamo. Canzoni parenti di popoli parenti. Sono tante tante le canzoni popolari che hanno un senso di lotta e di amore per la vita.

Durante l’incontro con la compagnia una delle interpreti ha dichiarato che lo spettacolo è un’arma, un’arma per denunciare la violenza della guerra. Come commentate questa sua dichiarazione?

La voce di queste donne diventa il meccanismo di difesa contro la guerra, un mezzo di informazione per denunciare la guerra in tutta l’Europa, perché questo gruppo fa il viaggio informativo e teatrale in tutti i paesi dell’Europa, come Spagna, Germania, Francia, Olanda e tutta, tutta l’Europa. La sentiamo come una dichiarazione di coraggio e volontà di abbattere l’apatia e l’indifferenza. Lo spettacolo è l’occasione di portare la testimonianza di chi ha vissuto in prima persona l’orrore della guerra, come hanno fatto anche i nostri nonni e bisnonni nella Seconda Guerra mondiale, e che, come le donne dello spettacolo, sono vissuti in una guerra reale che ancora ora non è finita.

Che reazioni ha provocato in voi lo spettacolo? Che cosa vi ha fatto vedere/conoscere che non sapevate?

L’angoscia e i brividi. Lo spettacolo ci mostra l’impotenza e la rabbia di queste donne per fermare la guerra, ma anche e soprattutto il coraggio di restare attaccate al desiderio di vita.

Al termine della condivisione di Liudmyla, Annamaria chiede la parola per aggiungere una cosa per lei importante. Riporta alla mente di tutto il gruppo l’invito che ci è stato fatto da una delle interpreti a fine spettacolo.

Se ben ricordiamo, lei ci ha anche richiamato, ha detto: “Da oggi che avete partecipato a questo spettacolo, non potete più uscire dal teatro, così come dire, con un’aria solamente di commento.” Non possiamo uscire da spettatori degli eventi della storia, perché siamo molto molto coinvolti e dobbiamo scegliere anche noi cosa fare di quest’arma della voce. Questa per me è stata… È stata una bomba che è entrata nel mio cuore, lo dico sinceramente, perché una cosa è vedere la televisione e leggere il giornale, altra cosa è sentire che queste donne ti stanno dicendo: “Sei con me?”

Ancora una volta, in maniera sempre più consapevole dall’inizio di questo percorso di formazione alla visione, ecco che il calore dell’emozione, una volta condivisa, si trasforma in una riflessione lucida e in una domanda attiva che cerca risposta nell’impegno civile di ognuno e di ognuna di noi che abbiamo partecipato all’esperienza. La cosa rivoluzionaria, a mio avviso, è che tanto in teatro, quanto in questa classe mondo che abbiamo creato, a questa domanda così necessaria e complessa possiamo trovare delle risposte mettendo in atto azioni comuni per richiedere “pace” insieme e a gran voce. Anche noi pubblico possiamo essere un coro che cerca una voce comune per trovare un antidoto di luce contro la violenza della guerra.

Mothers

L’esperienza continua…

All’esperienza milanese si sarebbe dovuta aggiungere una trasferta a Genova, per godere delle atmosfere del Suq Festival diretto da Carla Peirolero.
Purtroppo, uno sciopero dei treni molto partecipato non ci ha permesso di allontanarci da Milano come avremo voluto, tuttavia abbiamo assaporato da lontano il bazar sul Porto Antico, l’aria di festa e il clima conviviale di dialogo tra le culture, durante un incontro online dedicato proprio a noi e al racconto/bilancio del nostro progetto.
Online abbiamo conosciuto anche il marionettista Rašid Nicolić, artista di origini rom che proprio in quella giornata di spettacolo ha presentato il suo The Gipsy Marionettist all’interno del festival.
Anche a Genova da 26 edizioni al Suq Festival “nessuno è straniero”: lo abbiamo sentito nei saluti in lingue diverse che la città e il festival ci hanno dedicato. L’esperienza di visione a Genova e l’incontro con le marionette di Rašid sono solo rimandati, mentre le nostre riflessioni sui temi della partecipazione e del rinnovamento del teatro a partire dal suo pubblico continuano.