TourFest 2024 | Danzare come atto filosofico
La Biennale Danza diretta da Wayne McGregor: Still life di Alan Lucien Øyen, Behind the South di Sankofa Danzafro, Tangent di Shiro Takatani
Quarto anno di direzione artistica della Biennale Danza di Wayne McGregor, da poco confermato nel suo incarico. Ricco il cartellone, con più di ottanta eventi in diciassette giorni, con varie nuove commissioni, sette prime assolute, due prime europee, dodici prime italiane.
La danza come atto filosofico di comunicazione
Ambizioso il programma, che parte dalla volontà di esplorare la natura stessa dell’esperienza umana interrogandosi, nell’epoca dell’intelligenza artificiale e della accelerazione tecnologica, su “dove abbia sede la nostra umanità e come accedervi attraverso un legame più profondo con il nostro essere corpo”. Di qui il titolo di questa XVIII edizione: We Humans, e la risposta di McGregor: noi umani siamo movimento: la danza è dentro e fuori di noi, nelle emozioni e nei gesti, il movimento accompagna e supplisce alle parole, ogni comunicazione è per l’ottanta per cento fisica.
Così gli spettacoli invitati si potrebbero forse definire delle riflessioni pratiche intorno a questi temi, dato che, con le parole di McGregor, tutti gli artisti
adottano il mezzo della danza come atto filosofico di comunicazione, mettendo alla prova i fondamenti della nostra conoscenza, sfidando le nostre nozioni di realtà ed espandendo la comprensione della nostra esistenza.
Still life di Alan Lucien Øyen
Il Butoh come immagine del nostro tempo, come cifra di un’umanità che ha perso il contatto con la natura, che vive in una sospensione grottesca circondata da una realtà virtuale. Vita immobile, appunto, anche se noi traduciamo Still Life con “natura morta”. Parte da questa urgenza il nuovo lavoro di Alan Lucien Øyen, tra i più versatili artisti norvegesi, scrittore, regista e coreografo in residenza all’Opera e Balletto nazionale norvegese, ma acclamato all’Opéra National de Paris, dove nel 2022 ha aperto la stagione di danza all’Opéra Garnier, come sul palco di Wuppertal, dove è stato uno dei primi artisti dopo la morte di Pina Bausch a creare un’opera completa per il Tanztheater. Il commovente duo in prima italiana alle Tese dell’Arsenale di Venezia integra stilemi della danza contemporanea occidentale con elementi del Butoh per dire la “morte vivente” cui ci stiamo adattando, ma anche per indicare una via d’uscita nel ritrovato rapporto con il mondo vivente che ci circonda. Che vuol dire anzitutto ritrovare un rapporto con noi stessi e con l’altro. Scrive Øyen:
La natura sta morendo e nel frattempo noi siamo paralizzati, bloccati nelle nostre vite immobili: viviamo ma continuiamo a morire. Dalle finestre delle nostre stanzette, scrutiamo la vita atrofizzati dall’eco costante dei nostri desideri, mentre milioni di dati vengono rielaborati e ci vengono rivenduti come pubblicità di vite che avremmo voluto vivere: connessi, disconnessi.
Davanti a un paesaggio dipinto, i due straordinari, affiatati danzatori, Daniel Proietto e Mirai Moriyama, si cercano, si ascoltano, si sostengono, mentre recitano un testo composto dallo stesso coreografo, accompagnati da un coro di voci. Still Life è una meditazione sulla distanza sempre crescente tra il mondo e le persone che lo abitano, con scene di impronta cinematografica e soluzioni di impatto emotivo. Come il vivente non umano che appare mascherato e danzante fra il fumo, o come il mare argenteo ottenuto con lo stesso materiale delle coperte di emergenza che poco prima era stato usato per coprire corpi a terra con eloquente richiamo al soccorso degli immigrati: i passi e i respiri dei due performer vengono amplificati in un delicato tessuto sonoro.
Ma lo spettacolo è anche un tentativo di svelare, attraverso i corpi e il loro linguaggio denudato, una presenza vera, offerta senza difese e infingimenti, senza quella costante preoccupazione dell’opinione altrui che ci costringe alla costruzione di una immagine di noi, di una narrazione della nostra vita attraverso la quale «riscriviamo la nostra vita quotidiana sotto forma di aneddoti e racconti per l’apprezzamento del branco: gli altri esseri umani.» Si vede la ricerca di sincerità dei danzatori, che evidentemente traspare in scena solo come risultato di una lunga pratica di ascolto reciproco. Un esercizio di empatia per sentire l’esistenza nella fragilità, nella caduta, per saper portare lo sguardo su «un fiore che cresce in una pozzanghera». Scatti, balzi trattenuti, scomposizioni di figure, lento lasciarsi andare di un corpo all’altro seguendo gli impulsi nel loro sorgere ma anche nel loro scemare. Una pratica dell’abbandono che raggiunge punte di toccante efficacia anche grazie alle musiche ipnotiche di Henrik Skram e al potente lighting design di Martin Flack.
Behind the South di Sankofa Danzafro
Per la prima volta in Italia, la compagnia afro-colombiana Sankofa Danzafro ha presentato a Venezia in prima europea Behind The South: Dances for Manuel. La scansione in cinque grandi quadri riprende la struttura del romanzo Changó, El Gran Puta di Manuel Zapata Olivella cui si ispira per la linea drammaturgica. Lo spettacolo è anche un omaggio al romanziere colombiano, il cantore della negritud. Medico, scrittore, antropologo, militante in difesa dei diritti delle minoranze, Zapata Olivella ha narrato cinquecento anni di esilio del popolo africano in America Latina, di schiavitù e discriminazione, attraverso figure storiche e mitologiche, come il re degli orichas (gli ancestrali avi africani), signore del fuoco, della guerra e della danza. Come nell’opera di Zapata Olivella, lo spettacolo si sviluppa in un tempo mitico, esplorando il ricco patrimonio della comunità afro-colombiana ma affrontando nel contempo le questioni sociali del presente. Presagi, nascite miracolose, ribellione al dolore per la deportazione di massa, sforzo di mantenere un legame con la madrepatria africana.
Sulle percussioni hip-hop di Juan José Luna Coha, Gregg Anderson Hudson Mitchell e Feliciano Blandón Salas, si sviluppano danze potenti ed evocative, colorate e magnetiche, a metà fra il rituale, l’aneddotico e l’astrazione. La tragedia della schiavitù è richiamata in una scena tutta costruita su piccoli spostamenti rapidi da un piede all’altro, movimenti come quelli degli schiavi nelle piantagioni che, per sostenere la pena e la fatica, danzavano quello che sarebbe diventato il merengue. I danzatori hanno tutti il volto imprigionato da una maschera a rete. Ma in altri quadri prevale l’istinto di vita. Una danzatrice incede visibilmente gravida. Un lungo cordone ombelicale la collega a un altro danzatore. Tamburi e corpi sussultano, è una danza degli spasmi e delle contrazioni. Il parto si compie, il neonato viene portato in processione, mentre il corpo del danzatore continua a essere scosso da fremiti, scuote ritmicamente i muscoli pettorali. Nascita e rinascita: in un’altra scena, una danzatrice vestita di rosso cade ripetutamente al suolo e ogni volta scatta in piedi con una energia nuova, riprendendo la sua danza scatenata. Ruota la sua veste bianca, invece, il personaggio che incarna Yemaja, che nella mitologia yoruba è la dea delle acque e protettrice delle partorienti. Ha strati di gonne luminose che si riconcorrono come onde del mare e i capelli con lunghe treccine blu che ricamano spruzzi marini nell’aria ad ogni movimento del capo.
Sankofa Danzafro è stata fondata nel 1997 dal coreografo Rafael Palacios, ex allievo di Germaine Acogny e Irène Tassembédo, per diffondere la cultura afro-colombiana e combattere il processo di appropriazione culturale che ha penalizzato le minoranze etniche. «Sankofa è una parola in lingua ghanese che significa “ritorno alle origini”» spiega Palacios.
È anche un concetto filosofico che invita a conoscere il passato per comprendere il presente e avanzare verso il futuro. Il mio lavoro come coreografo con la mia compagnia in Colombia inizia da qui. Ho sempre danzato, fin dalla tenera età. Ho sempre pensato che danzando potessi ritrovare le mie radici africane, conoscere e comprendere la nostra storia.
Rafael Palacios è un attivista per mezzo della danza. Con i suoi danzatori e musicisti crea spettacoli che raccontano la storia dal punto di vista degli oppressi. «La danza mi ha dato il coraggio di essere nero senza provare quella sensazione di inferiorità che il modello coloniale ha provato a imporre a ognuno di noi», scrive il coreografo. «Nel suo contenuto politico, Behind the South racconta la tragica storia della Diaspora Africana per plasmare un presente più consapevole e un futuro luminoso, perché come recita il motto della compagnia: “danziamo per essere ascoltati, non visti”». Nessun esotismo, dunque, in questa danza che diventa un atto di resistenza comunitaria, celebrazione della forza vitale del popolo africano e della sua sopravvivenza nel continente americano grazie all’uso del corpo danzante e della musica.
Tangent di Shiro Takatani
Un messaggio che arriva dagli umani due miliardi di anni nel futuro per informarci che la razza umana è sull’orlo dell’estinzione. È la vicenda narrata in Last and First Man, il film del 2020 di Jóhann Jóhannsson al quale si è ispirato Shiro Takatani per il suo Tangent. In scena al Teatro Malibran in prima nazionale, il nuovo lavoro del poliedrico artista giapponese si potrebbe definire, come già il precedente ST/LL (2015), una riflessione sulla percezione del tempo, attraverso una drammaturgia delle forme che si è fatta ancor più essenziale e un intento comunicativo più urgente. Siamo al confine tra arti visive e performative, tra ordinario e straordinario.
Lo spazio scenico diventa un luogo astratto nel quale trovano interrelazione arte, scienza e tecnologia. Se in ST/LL i quattro performer costruivano riconoscibili segmenti narrativi, sia pure in un disegno geometrico che li conteneva e li trascendeva, in Tangent la sola Miyu Hosoi in scena, nerovestita e sempre misurata, smette ogni preoccupazione “interpretativa” per porsi al puro servizio della performance nel suo insieme, superando la dimensione rappresentativa antropocentrica. L’umano è solo uno degli elementi attraverso i quali prende forma una esperienza percettiva che accoglie la poesia nel disastro, fa apparire la fragilità della vita delle cose, l’anima dell’inorganico. Non possono non venire in mente le parole di Roland Barthes (L’impero dei segni, 1970) a proposito degli haiku:
L’arte occidentale trasforma l’“impressione” in descrizione. Lo haiku non descrive mai: la sua arte è anti-descrittiva, nella misura in cui ogni stadio della cosa è immediatamente, caparbiamente, vittoriosamente trasformato in una fragile essenza d’apparizione: istante letteralmente “intrattenibile”, in cui la cosa, pur non essendo già altro che linguaggio, diventa parola, passa da un linguaggio ad un altro, e si costituisce come il ricordo di questo futuro, per ciò stesso anteriore.
Tangent nasce per celebrare i quarant’anni di Dumb Type, il collettivo artistico divenuto celebre negli anni Ottanta per le sue sperimentazioni con la tecnologia più d’avanguardia. Le musiche di Ryuichi Sakamoto propongono l’intero ultimo album del compositore scomparso lo scorso anno, dal titolo 12. Le luci sono firmate da Yukiko Yoshimoto. I settanta minuti della performance aprono per gli spettatori possibili prospettive altre sul pianeta. Sul piano scenico bianco, fortemente inclinato verso la platea e cosparso di sassi altrettanto bianchi, la performer spazza il terreno con una scopa di saggina. C’è una scala aperta sulla sinistra e un tavolo rettangolare sul fondo che diventa il piano di lavoro per l’artista: vi riversa manciate di sassolini, vi apre fogli, scritte e disegni, mentre una videocamera riprende dall’alto e proietta sul fondo l’opera materica in continua trasformazione. Si calano dall’alto oggetti geometrici, a loro volta ripresi e proiettati con le rispettive ombre a creare stupori di forme e colori. È il primo di quattro quadri assai diversi fra loro ma coerenti per linguaggio e intenzione. Nel secondo una straordinaria pittura di luce colora lo schermo con impulsi psichedelici che provengono da un dispositivo azionato dalla stessa Miyu Hosoi. Nel terzo una sfera appesa alla graticcia ruota come un astro, come un occhio, come una palla da demolizione mentre sul fondo scorrono immagini accelerate di aree urbane e “naturali”; la performer sistema i sassi per terra all’interno della circonferenza disegnata dalla sfera. Nel quarto scendono dall’alto quattro lastre metalliche su cui la donna, salendo sulla scala, traccia dei segni che risuonano, mentre una luce percorre la struttura ad arco che sovrasta la scena.
Perché il linguaggio di Shiro Takatani, lo si è capito, è essenzialmente sinestetico e cinetico. Gli oggetti si muovono, sono presenze autonome dall’uomo, fluttuano nello spazio, i tavoli si trasformano, anche gli altoparlanti sferici ruotano automaticamente, le luci sembrano riprodurre le traiettorie del sole, e ogni azione si espande nella dimensione sonora, riecheggiano le lastre, si propagano i gesti della mano sui sassolini. Tramonti e albe si susseguono allontanando lo spettatore in una riflessione sul presente a partire da un ipotetico futuro, mentre soli artificiali attraversano la scena e il tempo sembra risucchiare l’uomo in un universo che non gli appartiene. Spiega Takatani:
Volevamo immaginare questi momenti. Quando il sole tramonta e noi non siamo altro che piccoli esseri umani ritti su un grande globo. È allora che abbiamo paura della natura.
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