Come superare la barriera dell’indifferenza dei programmatori teatrali?
La prefazione al saggio di Elena Lamberti La distribuzione degli spettacoli dal vivo. Un percorso di curatela
Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo la Prefazione di Oliviero Ponte di Pino a Elena Lamberti, La distribuzione degli spettacoli dal vivo. Un percorso di curatela, Titivillus, 2024.
Che nel sistema teatrale italiano ci fosse un problema, era evidente da tempo. Dopo la riforma del FUS determinata dal Decreto Ministeriale del 1° luglio 2014, era facile prevedere un aggravamento:
“l’enfasi sulla produzione (…) attraverso elevati requisiti e parametri quantitativi ha indotto a scelte che sembrano difficilmente sostenibili”, portando a un sistema distributivo “ingolfato dall’offerta” (Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino, Oltre il Decreto. Buone pratiche tra teatro e politica, FrancoAngeli, Milano, 2016, pp. 149 e 157).
Se l’offerta cresce e la domanda stagna, il mercato si intasa.
Il sostegno alla produzione caratterizza fin dalle origini, negli anni Venti, l’intervento pubblico alla cultura e soprattutto allo spettacolo dal vivo. E’ sempre mancata in Italia una politica organica a sostegno della domanda, nella fiducia che un aumento dell’offerta avrebbe automaticamente allargato il pubblico. Questo non è avvenuto, nemmeno con il nuovo FUS. Nel 2012 gli italiani che andavano a teatro almeno una volta all’anno erano il 20,2%. Nel 2019 erano il 20,3%, con minime oscillazioni nell’intervallo. Poi è arrivata la pandemia, che con la chiusura dei teatri nel 2020 ha portato a un misero 15,7% (Dati ISTAT).
A restringere il collo di bottiglia del mercato teatrale ha ulteriormente contribuito un’altra indicazione, sempre inserita nel DM, con l’obiettivo di favorire una reale stabilità nelle aree urbane. Ai Teatri Nazionali e ai Teatri di Rilevante Interesse Culturale si è chiesto di incrementare le repliche delle proprie produzioni nella Città e nella Regione d’origine, restringendo dunque lo spazio per le ospitalità. Va aggiunto che le realtà consolidate del settore della stabilità (a cominciare da Teatri Nazionali e TRIC) occupano buona parte del mercato con scambi e coproduzioni: la scelta dei programmatori non dipende dunque dal mercato o dal giudizio critico, ma da cartelli tra produttori che controllano la circolazione di una quota rilevante di spettacoli.
Era altresì facile prevedere che le nuove direttive FUS corressero il rischio di
“cancellare una tradizione basata da secoli sull’itineranza delle compagnie. (…) La molteplicità e la ricchezza delle imprese di produzione è il presupposto necessario a un teatro indipendente caratterizzato dalla diversità dei percorsi e delle modalità di partecipazione: un obiettivo coerente con i presupposti del finanziamento pubblico” (p. 157).
Abbiamo visto in questi anni accelerarsi il declino, fin quasi alla scomparsa, delle tradizionali compagnie di giro all’italiana, che hanno costituito per secoli l’ossatura del nostro sistema, anche nella loro capacità di dialogo con il pubblico. Di quel retaggio, nel 2024 restano sulla breccia due magnifici novantenni come Glauco Mauri e Umberto Orsini, e poco altro. Per la proposta più commerciale il mercato attinge a sottoprodotti cinematografici, televisivi, giornalistici o alle nuove stelle del web…
In teoria i quattro livelli della stabilità (Teatri Nazionali, TRIC, Centri di Ricerca, Residenze) dovrebbero garantire un ampio sbocco alla produzione. Ma senza un adeguato sostegno all’offerta (e senza includere organicamente le Residenze nel sistema teatrale) restano solo le buone intenzioni.
A ingolfare ulteriormente il mercato ha contribuito la pandemia, che ha chiuso i teatri al pubblico per due stagioni, lasciando però alle compagnie la possibilità di provare nuovi spettacoli, aumentando ancora la massa delle proposte.
In parallelo si sono moltiplicate le piccole compagnie indipendenti, spesso attive nell’area dell’innovazione. Spesso non basano la loro sostenibilità sulla vendita degli spettacoli ma su attività collaterali, come la formazione e i laboratori o le varie forme di teatro sociale. Queste realtà producono ogni anno centinaia e centinaia di novità e cercano disperatamente un “addetto alla distribuzione”, in grado di piazzare il loro imperdibile capolavoro.
La conseguenze di questi meccanismi sono diverse e non riguardano solo la circuitazione. Spettacoli allestiti frettolosamente e spesso senza autentica necessità, ma solo per rispondere agli imperativi dell’algoritmo. Tournée sempre più brevi, dove molti spettacoli totalizzano meno di dieci repliche, con conseguenze negative sia sul mercato del lavoro (sempre più attori e tecnici, ma sempre più precari e sottopagati) sia sulla qualità professionale degli attori e delle attrici (che tradizionalmente affinavano la loro arte e si scambiavano i segreti del mestiere nel corso dei mesi di tournée). Assenza di un repertorio, sia per le singole compagnie (salvo rari casi) sia per un sistema che sforna e brucia novità a getto continuo. Un insopportabile aumento della pressione dei produttori indipendenti, che inondano i teatri con centinaia di proposte, progetti, video… e poi si lamentano perché (quasi) nessuno risponde e nessuno li compra.
L’alluvione di proposte inonda i teatri che funzionano davvero (perché ce ne sono molti, anche lontano dalle grandi città, grazie ad attente politiche di coinvolgimento del pubblico). Come ha scritto sui social Paola Manfredi, che dirige il Teatro Periferico a Cassano Valcuvia,
“dopo aver ricevuto la terza telefonata di richiesta di inserimento nella stagione teatrale e la decima mail (ed è cosi tutti i giorni fino a luglio), dichiaro per l’ennesima volta che in questo paese non si può solo produrre spettacoli, ci vuole qualcuno che li programmi. Il che vuol dire occuparsi di studiare il pubblico, di creare reti sul territorio, di lavorare sulla sostenibilità ecc. ecc…”
Per esaminare questa mole di richieste, per poi rispondere negativamente nella stragrande maggioranza dei casi, un teatro dovrebbe pagare (almeno) una persona a tempo pieno. Difficilmente una piccola realtà indipendente può sostenere un impegno così gravoso e ahimè inutile.
A essere travolti dalla pressione delle compagnie, oltre ai teatri, sono anche i festival aperti all’innovazione, che da anni si assumono il “rischio culturale”, la scommessa che i programmatori dell’area della stabilità si concedono sempre più di rado: vista la quantità e la qualità delle proposte che ricevono, preferiscono non rischiare su qualche novità, meglio andare sul sicuro…
Per non parlare dei Circuiti Teatrali, snodo strategico del sistema, che avrebbero il compito di sostenere la distribuzione nei territori: non hanno la forza e le risorse per accogliere e distribuire tutto il “prodotto”, e inoltre devono coprirsi le spalle sul fronte del mercato, per soddisfare le richieste sia dell’algoritmo sia dei Comuni dove si trovano i teatri che “riforniscono”.
Resta la valvola di sfogo di bandi, concorsi, accompagnamenti, residenze, su cui si riversa la fame di chi vuole accedere a un mercato asfittico, soprattutto la categoria ormai metafisica degli “under”.
Emblematico il caso di Milano. E’ l’unica città italiana ad avere un sistema teatrale degno di questo nome (dopo il tracollo di Roma). E’ la piazza dove tutti devono passare (“the place to be”), ma dove bisogna restare il meno possibile perché ogni replica è un costo. Con tre multisale attive (Piccolo, Parenti, Elfo-Puccini) e decine di altri spazi che programmano a getto continuo, in un carosello isterico di debutti, le teniture degli spettacoli ospitati sono quasi sempre inferiori alla settimana. Il marketing non può funzionare e il passaparola non s’innesca, in una livella dove lo spettacolo scadente vale quanto quello di elevato valore artistico e/o commerciale: tre-cinque repliche per un pubblico (soprattutto) di addetti ai lavori e di “spettatori professionisti”.
La frustrazione dei produttori (e dei venditori) di spettacoli incontra la rassegnazione dei programmatori, anche i più bravi e volonterosi.
Ma come superare la barriera dell’indifferenza? Si possono esplorare varie strategie.
# Smettere di fare spettacoli inutili.
# Trovare nuovi pubblici, fuori dal giro di addetti ai lavori, abbonati, spettatori professionisti, soprattutto tra le fasce dei cittadini esclusi dalla partecipazione culturale, lavorando sull’accessibilità.
# Fare man bassa di bandi e residenze, corrompendo le giurie ove possibile e necessario.
# Diventare di moda. Ogni estate c’è uno spettacolo che fa l’infilata dei festival di tendenza. Il giovane drammaturgo emergente viene conteso dai teatri più prestigiosi e ne illumina le stagioni. Se poi lo spettacolo e la compagnia vengono a nausea e scompaiono dai radar, pazienza: è in arrivo un altro giovane talento da lanciare.
# Impossessarsi di un teatro e praticare una feroce ma efficace pratica di scambi, imponendo le proprie mediocri produzioni in tutto il paese.
# Farsi nominare Ministro dello Spettacolo e riformare radicalmente il FUS (aka FNSV aka FIS) ribattezzandolo FUSO (Fondo Unico Spettacoli Opportuni), scoraggiando l’iperproduzione,e sostenendo l’offerta.
# Istituire selettivi Albi Professionali nel settore dello Spettacolo, imponendo per ogni allestimento la presenza in locandina di un/una Regista Professionista Patentato/a, di un/una Drammaturgo/a Professionista Patentato/a, di uno/una Scenografo/a Professionista Patentato/a, di un/una Costumista Professionista Patentato/a, di almeno 4 Performer Professionisti/e Patentati/e, e limitandone l’attività a un massimo di due spettacoli all’anno. Se la misura non ottiene l’effetto sperato, introdurre ulteriori Albi Professionali per Tecnici/Tecniche, Organizzatori/Organizzatrici, Uffici Stampa, Uffici Marketing…
# Imporre l’uso del Visto di Censura per ogni pubblico spettacolo, e farlo rilasciare da una commissione di Grandi Inquisitori che applica criteri severissimi in tempi assai lunghi, grazie e una burocrazia bizantina.
# Prevedere per ogni nuovo allestimento un minimo di 45 giorni di prove pagate per tutta la compagnia, tecnici compresi, rendendo così inutile la tanto attesa riforma del welfare dello spettacolo, visto che i pochi fortunati raggiungeranno facilmente il minimo delle giornate lavorative annuali necessarie per ottenere la pensione.
# Adottare la “Strategia oceano blu” teorizzata da W. Chan Kim e Renée Mauborgne (Strategia oceano blu. Vincere senza competere, Rizzoli, 2015), che ha portato al successo il Cirque du Soleil. Grazie a un prodotto innovativo, aprire uno spazio di mercato incontestato e illimitato, dove non esiste (ancora) concorrenza. Al tradizionale modello organizzativo, fondato sulla competizione spietata e sulla tradizione, si sostituisce un modello basato sull’innovazione e sull’espansione del mercato.
# Convincere Elena Lamberti a diventare “curatrice di compagnia”, istituire l’Albo per Curatori/Curatrici Professionali di Compagnia, ben sapendo che Elena Lamberti è l’unica in grado di superare la ghigliottina dell’Esame di Abilitazione.
Se tutte queste strategie ti paiono impraticabili e/o eticamente ripugnanti, hai un’alternativa facile ed efficace. Leggiti il libro di Elena Lamberti, che oltre alla sua esperienza ruba i consigli di molti qualificati professionisti, e ruba i saggi e creativi insegnamenti contenuti in queste pagine. Perché è bene che tu lo sappia: nella cura, nell’organizzazione, nella progettazione e nella distribuzione, serve una dose massiccia di creatività.
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