Tra bianco e nero, l’ultima Biennale Teatro diretta da ricci/forte

Gli spettacoli di Miet Warlop, Amir Reza Koohestani e Gob Squad

Pubblicato il 08/07/2024 / di / ateatro n. 197 | TourFest 2024

«Che i riflettori continuino a irradiare i palcoscenici, il sipario si alzi su nuove mirabolanti narrazioni, gli applausi risuonino ancora a lungo e la fiammanza per questa Cattedrale metafisica che è il Teatro arda instancabilmente in tutti noi.»

Così Gianni Forte sigilla la sua (e di Stefano Ricci) direzione del settore teatro della Biennale, dopo un quadriennio che termina nella “coabitazione” con il nuovo Presidente dell’ente veneziano, Pietrangelo Buttafuoco.
Niger et Albus è la dicotomia che informa questa 52^ edizione del festival, ma i curatori assicurano, con il consueto stile immaginifico, che «non si configurerà come pensiero dicotomico ma illustrerà l’indecifrabile caos del coraggio, la mutevolezza difesa a oltranza, un rigoroso mazzo di tarocchi con il quale pronosticare un futuro possibile».
Bianco e nero, dunque, che vuol dire anche luce e buio, bene e male, yin e yang, passato e futuro, spirito e materia. Ci può stare tutto e il contrario di tutto nella formula che cerca la complementarietà e la fluidità in un campo di indagine esperienziale – quello del teatro – affrancato dalla logica binaria.
Ma aldilà dei toni futuristici («Niger et Albus è lo sforzo dello strappo, la rivoluzione, la schiena dritta dinamitarda contro il deserto culturale accondiscendente») e degli afflati messianici («una dualità che stravolge smantellando i falsi idoli», «la promessa di una nuova luce che si fa strada»), che si leggono nel catalogo del festival, emergono dagli spettacoli in calendario la spiccata sensibilità ai temi della condivisione e l’attenzione rivolta alle voci fuori dal coro.

After All Springville di Miet Warlop

After All Springville di Miet Warlop – ph. Reinout Hiel

Ibrida, scanzonata, surreale è la scena di After All Springville dell’artista belga Miet Warlop, già ospite della Biennale del 2019 diretta da Antonio Latella. Il lavoro, nato nel 2021 ma per la prima volta in Italia, riprende e sviluppa le idee di una performance del 2009 (Springville) e dell’installazione Amusement Park del 2017.
Da una finestra della casa di cartone al centro dello spazio scenico un uomo vola fuori come catapultato, atterrando di pancia su un sacco di spazzatura che attutisce il colpo. La reazione di esilarante sorpresa degli spettatori è il segnale della loro immediata sintonizzazione con il tono dello spettacolo, che forse è la rappresentazione di una fantasia dello stralunato personaggio. Gli altri performer sono innestati (letteralmente) in oggetti incongrui (un tavolo rotondo, un quadro elettrico, un grande scatolone), da cui fuoriescono solo le loro gambe, garantendo movimenti e relazioni fra gli elementi in campo.
In una scena povera, senza parole, governato dalla logica onirica e costruito su dinamiche da cartone animato, lo spettacolo sviluppa con leggerezza e ironia le prossemiche impossibili dei corpi/oggetti, che sembrano cercare affetto e condivisione, provano a incontrarsi, si mettono in posa per una foto di gruppo. Queste figure spurie sono tuttavia destinate a raggiungere il loro punto di crisi: il tavolo viene imbandito ma il vaso di fiori scivola rovinosamente a terra; il quadro elettrico ha un corto circuito e sta per incendiarsi; il tubo di cartone che fuoriesce dallo scatolone come occhio/antenna/proboscide viene strappato via.
Anche i due attori, uno sulle spalle dell’altro, vestiti di un’unica tuta da ginnastica a formare un solo corpo altissimo, subiscono una trasformazione inquietante, diventando un lungo pantalone senza braccia e senza testa che si dimena intorno alla casa. La quale infine si apre in due lasciando fuoriuscire svariati tubi di plastica che, mentre si gonfiano meccanicamente, si srotolano invadendo l’intera scena fino ai piedi degli spettatori.
Siamo abituati a pensare al teatro d’oggetti come a una declinazione del teatro di figura, dove degli umani animano oggetti spesso di piccole dimensioni. Qui invece gli oggetti sono più grandi e ingombranti degli umani, che anzi ne vengono fagocitati, inglobati. Apparentemente siamo di fronte a un nonsense, ma come sempre la poetica del surreale è ricca di implicazioni. Per esempio, i performer si muovono quasi senza possibilità di vedersi, dunque su partiture precise, nelle quali anche i disastri sono calcolati: come possiamo formare una comunità, sembra chiederci Miet Warlop, se non ci vediamo mai realmente?

Blind Runner di Amir Reza Koohestani

Blind Runner di Amir Reza Koohestani, Mehr Theatre Group – ph. Benjamin Krieg

Blind Runner è il titolo del toccante lavoro del regista iraniano Amir Reza Koohestani con il suo ensemble, il Mehr Theatre Group di Teheran (già visto a Milano in Triennale qualche mnese fa). La corsa diventa metafora del desiderio (e delle pratiche) di libertà dopo la repressione del Movimento Verde da parte del regime degli ayatollah. Una storia di resistenza, rivolta, sfida, sacrificio, testimonianza. Una storia che ha il respiro della tragedia.
Ci sono cinque ore tra l’ultimo treno che la sera percorre il tunnel sotto la Manica e il primo del mattino. 27 chilometri che una giovane atleta, diventata cieca per un colpo d’arma da fuoco durante una manifestazione in Iran, si allena a percorrere di corsa per arrivare in Inghilterra e chiedere asilo politico. Il suo destino si intreccia con quello di altri due personaggi, una coppia di maratoneti che viveva la corsa come una promessa di libertà e ora è separata dal carcere: lei, giornalista, è stata incarcerata per un post sui social. Nell’ora d’aria corre per resistere al disfacimento fisico e mentale. Durante le visite del marito, i dialoghi fra i due, che si muovono fra vicende private e storia pubblica, diventano sempre più distaccati. I toni freddi dello spazio scenico fanno percepire la distanza. L’impasse provocata dall’evidente crisi del loro rapporto viene superata da un gesto di generosità della prigioniera, che chiede all’uomo di andare a Parigi, di allenare la giovane non vedente alla corsa lungo il tunnel della Manica e farle da guida in questa impresa disperata. Una sorta di processo di traslazione da una donna all’altra dell’impulso alla conquista della libertà.
Il lavoro è liberamente ispirato alla morte di Mahsa Amini, la ragazza arrestata e uccisa nel 2022 dalla polizia morale iraniana per aver indossato l’hijab in modo sbagliato, e all’incarcerazione della giornalista Niloofar Hamedi che per prima denunciò il fatto. Il bellissimo testo è reso in scena nella musicalità della lingua persiana da Ainaz Azarhoush e Mohammad Reza Hosseinzadeh. Uno di fronte all’altra, i loro volti doppiati in video sullo sfondo, rimangono sempre distanti, facendo sentire il desiderio e l’impossibilità di toccarsi, il palpito interiore soffocato dalla paura, l’incombere dei controlli, la vita offesa.

Creation (Pictures for Dorian) di Gob Squad

Il collettivo Gob Squad, Leone d’argento di questa edizione, parte dal triangolo presente nel Dorian Gray di Oscar Wilde (Basil il pittore, Lord Henry lo spettatore, Dorian il soggetto artistico) per proporre una riflessione sui meccanismi del fare teatro. Meccanismi che per il gruppo di artisti anglo-tedeschi sembrano rispondere alle quattro R di Rischio, Regole, Ritmo e Realtà. Creation (Pictures for Dorian) ha portato sul palco veneziano tre attori della compagnia – Berit Stumpf, Johanna Freiburg e Bastian Trost – affiancano sei attori dai 18 ai 75 anni Alessandro Bressanello, Guido Laurjni, Manuel Nakhil, Margherita Piantini, Pierandrea Rosato e Yoko Yamada – reclutati in loco.
I tre gruppi di età diverse sono portatori di esperienze di vita e di scena differenti. Con i più giovani e con i più anziani si confrontano i membri di Gob Squad, che hanno girato il mondo per quasi trent’anni e ora affrontano gli interrogativi della mezza età. E lo fanno in scena, guardando oltre lo specchio della vanità e offrendo al pubblico la propria presenza, frammenti di storie reali, svelando debolezze e ambizioni, ponendo domande sulla bellezza, l’invecchiamento, la moralità, il potere. Gli attori ospiti vengono invitati a rivivere sensazioni, a condividere ricordi, a confessare paure e desideri (per esempio come immaginano il futuro, il ricordo della prima volta che sono andati in scena, il rapporto con il loro aspetto fisico), non necessariamente attraverso le parole, ma anche con gestualità, posture, volteggi, mimiche assimilate nel corso delle rispettive pratiche performative. Le loro risposte corporee vengono inquadrate in grandi cornici che a volte ruotano su se stesse per offrire le figure al pubblico a 360 gradi mentre l’attore di turno del Gob Squad sembra rispecchiarsi nell’immagine in movimento.
Lo sguardo dello spettatore è parte in gioco in questa declinazione di teatro post-drammatico che a tratti diventa ripetitiva e a tratti si fa impietosa nella richiesta agli attori di mettere a nudo il proprio vissuto artistico e personale, e perfino il proprio corpo, come fa Johanna Freiburg. Una telecamera cattura elementi dell’azione scenica e li proietta sul fondo. Inquietante – e inutilmente violento – il processo di invecchiamento accelerato fatto subire, per mezzo di una potente lampada, al mazzo di fiori disposti con cura all’inizio dello spettacolo, come un esercizio di ikebana, e inquadrati alla fine nel loro appassimento innaturale. Nel suo romanzo, Wilde affermava che «l’arte rispecchia lo spettatore, non la vita». Chissà cosa mostreranno di noi quei fiori recisi e straziati.




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