Con Giovanna Marini | I colori della voce
Intervista a Patrizia Rotonda
Clara Gebbia intervista per ateatro alcuni artiste e artisti che, a partire dal mondo musicale di Giovanna Marini, hanno sviluppato una loro personale ricerca e identità artistica.
Un omaggio a Giovanna e uno sguardo sul futuro, per vedere ancora una volta come i canti di tradizione orale, indagati e trasmutati, possano nutrire la musica di oggi.
Quando hai incontrato Giovanna Marini e che ruolo ha avuto nella tua formazione?
Nel 1985 mi sono iscritta alla Scuola Popolare di Musica di Testaccio al corso di canto jazz, e ad altri laboratori di musica di insieme.
Tra i vari laboratori ho cominciato a frequentare anche Modi del Canto Contadino con Giovanna Marini, dove è nata la nostra conoscenza e una collaborazione che è andata avanti per oltre trent’anni consecutivi. La mia conoscenza con Giovanna è quindi di lunga data. Giovanna mi ha ispirato e ha contribuito alla mia formazione.
Sono sempre stata attratta dai ‘colori della voce’, dai timbri, cioè dalle diverse espressività che la voce può assumere nel canto.
Credo che questo sia dovuto a diversi fattori: il primo si ricollega a quando studiavo canto. Nel momento in cui ho realizzato che quei vocalizzi, per me così poco naturali e artefatti, distanti dal suono che avrei voluto, cominciavano a essere funzionali. Non solo miglioravano l’aspetto tecnico della voce, ma mi offrivano la possibilità di giocare con i suoni: anche quei suoni “brutti” potevano assolvere alla loro funzione espressiva.
L’altra ragione credo risieda proprio nella frequentazione di Modi del canto contadino, dove Giovanna ci faceva ascoltare voci decisamente diverse dai canoni dei cantanti commerciali o dei cantanti di musica accademica: voci spontanee, con suoni talvolta aspri, talvolta aperti, talvolta rotondi, spesso dissonanti… tutto ciò che certamente non passava per radio e tantomeno dei corsi accademici di musica. Erano voci ‘altre’, che al tempo mi apparivano come ‘vocalità estreme’.
Frequentando sia jazz sia i Modi del canto contadino, si può dire che io abbia cominciato ad assemblare una palette di ‘colori vocali’ fantastici che ho poi coltivato e continuato a indagare.
Che tipo di insegnante è stata Giovanna?
Giovanna è stata una Maestra, che trasmetteva le sue conoscenze musicali, così come fa un vero artista. Le sue lezioni sono sempre state piuttosto estrose, non didascaliche. Per apprendere e assimilare bisognava starle accanto, osservare e studiare. Per usare una sua espressione, l’apprendimento avveniva in modo omeopatico e per osmosi. E non solo frequentando tutti i martedì dell’anno il suo corso, ma facendo concerti, prove e i ‘viaggi della memoria’, in cui andavamo a seguire le processioni e incontrare i cantori durante la Pasqua.
Il suo insegnamento non si limitava a trasmettere canti, ma per me riguardava anche il modo in cui questi venivano restituiti. Una modalità distante dalla drammatizzazione del folk.
Quali sono state le tue esperienze lavorative con lei?
Ho avuto la grande fortuna di condividere con Giovanna diverse esperienze lavorative, interpretare moltissime delle sue cantate, non solo con il Quartetto Nuovo, l’ultima formazione di quartetto messa insieme da Giovanna, con il quale abbiamo interpretato diverse delle sue Cantate, ma anche agli esordi.
Ho eseguito musica per il teatro, per esempio in due opere dell’Orestiade con le musiche scritte da Giovanna e la regia di Elio De Capitani e prodotte dal Teatro dell’Elfo. Ho cantato La Ballata dell’eroe con la messinscena della coreografa Ornella D’Agostino e la conduzione musicale di Antonella Talamonti. Uno spettacolo multidisciplinare con una produzione francese.
Poi, con le poesie di Montale messe in musica da Giovanna, abbiamo fatto Spesso il male di vivere ho incontrato diretto da Xavier Rebut. Ed ero in scena come cantante e ho preparato il ‘Coro Favorito’ nello spettacolo Sono Pasolini – Jo i soj, con la mise-en-place di Enrico Frattaroli, con una produzione del Teatro di Roma. Sono stata sua assistente per qualche anno al Corso di Modi del Canto Contadino alla Scuola Popolare di Musica di Testaccio, mi son presa cura del coro Il canto necessario di Monteporzio Catone, dirigendolo insieme a Giovanna. Oltre ai tantissimi concerti con il Coro dei Modi contadini e altri con Il canto Necessario.
Mi sono nutrita per tanto tempo di questa musica e questo sapere ha inevitabilmente influenzato la mia visione e il mio approccio nei confronti della musica e in particolar modo del canto di tradizione orale.
Parlaci delle tue esperienze di artista, di come hai elaborato questa conoscenza della tradizione musicale.
Ho avuto modo di collaborare con diversi musicisti e di esplorare generi musicali molto vari, anche se ultimamente è sempre più come se tornassi verso ‘casa’, cioè verso la musica tradizionale.
Con il gruppo Novadì c’era una vera commistione tra la tradizione e la musica colta. Brani della tradizione o di nuova composizione, arrangiati in modo cameristico con strumenti antichi come la viola da gamba (F. Cardosa) e l’organetto (F. Benigni), affiancati da uno strumento classico come il clarinetto (P. Rocca) e la mia voce che interagiva talvolta aspra e altre con morbide melodie.
Ho lavorato in teatro sia con la prosa che con il teatro danza e con artisti di arte contemporanea come Marzia Migliora o William Kentridge: in Triumphs and Laments, a partire da una sua opera di circa 500 metri sul Lungotevere, si è creato un grande evento con musica di Philip Miller e Thuthuka Sibisi con centinaia di comparse, due orchestre, due cori e quattro cantanti solisti. Anche in questo caso ho inserito un canto tradizionale, al quale ho modificato le parole, che apriva la performance.
Nella musica contemporanea ho partecipato a diversi festival di ‘Nuova Consonanza’, associazione di musica contemporanea, dove ho interpretato come ‘voce sperimentale’ Rappresentazione ed esercizio, l’opera di Domenico Guaccero diretta da Bruno de Franceschi (37°). In un altro festival, l’opera di Giovanni Guaccero Le isole felici (45° festival).
Ho lavorato con David Riondino in Paesaggi dopo la battaglia, Mauro Pagani nel Cd e tour Creuza de mä, I Gang in Una volta per sempre , gli Andhira in Sotto il vento e le vele. E con tanti altri musicisti di jazz e altri linguaggi.
Lavoro anche con la musica d’improvvisazione non convenzionale, improvvisazione radicale e non idiomatica.
Trovo interessante il fatto che molte persone che hanno a che fare con i canti tradizionali hanno in qualche modo un’apertura anche verso la musica d’improvvisazione e credo che accada perché in effetti la musica tradizionale nasce dall’improvvisazione poetica dei cantori. Anche se ovviamente è tutt’altro tipo di improvvisazione, c’è un senso di estemporaneità che coinvolgeva in qualche modo anche il mondo sonoro di Giovanna, perché lei lo ricercava. In effetti Giovanna nelle sue prime composizioni ha collaborato con molti musicisti improvvisatori che inseriva nelle sue opere. In seguito ha mantenuto solo piccoli dettagli di estemporaneità che potessero offrire alle rappresentazioni un aspetto di spontaneità, per esempio inserendo brani che non erano in scaletta o facendo appositamente poche prove.
Come si è sviluppata la tua ricerca personale sulla voce e sui timbri vocali a partire da questa influenza?
Dagli anni Novanta sono anche insegnante di canto e ho esportato la mia attenzione per i timbri anche sul piano pedagogico. Sul piano tecnico, cerco di portare l’allievo verso una consapevolezza fisica, attraverso un allenamento mirato, visto che il nostro strumento è il corpo. Lavorando con diverse qualità vocali, non solo si amplia l’elasticità ma si comprende maggiormente il tipo di lavoro tecnico. Questa consapevolezza non fa che ampliare la creatività sonora che sarà a disposizione per l’interpretazione musicale.
Insegno alla Scuola Popolare di Musica di Testaccio, sia nei corsi di canto individuali, sia nel Laboratorio di Vocalità nella Musica di Tradizione Orale in cui inseriamo, oltre a brani della tradizione, anche alcuni brani bandistici che fanno sempre parte della tradizione di cultura popolare e ci danno modo di lavorare sul suono.
Oltre a insegnare alla scuola di Testaccio a Roma, tengo seminari di tecnica vocale di repertorio della tradizione orale. Per esempio a Parigi ho partecipato ultimamente a Tryptique, un’interessante manifestazione con tre direttori e un coro variabile che eseguiva i tre diversi repertori.
In questi anni, non ho appreso soltanto i canti, ma anche le usanze, i rituali, le tradizioni, le funzioni che compongono quella che potremmo definire cultura popolare delle comunità rurali. Un modello sociale che riconosco come fondamento del nostro patrimonio. Molto distante dalla cultura urbana, se mai potessimo porle in contraddizione.
Nelle mie performance il gesto riguarda l’aspetto rituale del canto. Per esempio nella performance site specific Scongiuro con Giulia Crispiani, partendo da una lettera d’amore, abbiamo esplorato il lamento, il dolore, la magia, cambiando sguardo per ogni luogo in cui l’abbiamo portato, che esploravamo sempre saldamente ancorate al gesto rituale.
Con il Trio a modo con Michele Manca e Flaviana Rossi, proponiamo canti di tradizione da me rielaborati, ma la scelta non riguarda solo la musica o il testo. Spesso ha a che fare con le storie della gente o le usanze sociali.
Questo aspetto mi accompagna sempre in tutti i miei processi e atti creativi, sia nella composizione, sia nelle creazioni di performance o quando lavoro per artisti di arte contemporanea.
E’ come se avessi un bagaglio e una grande valigia dalla quale attingere per la costruzione di un pensiero creativo.
Cosa contraddistingue le tue composizioni?
I miei brani sono spesso molto aderenti ai modi della tradizione ma con aspetti ritmici o armonici che aprono ad altri fronti. Ultimamente uso spesso il dialetto, anche con dialetti inventati perché non ho un dialetto mio, e sento questo fatto come una mancanza.
Sono nata al sud da genitori irpini, anche se non abbiamo mai parlato dialetto in casa, perché vivendo a Roma pensavano fosse più giusto per la nostra formazione. Mi viene da pensare a Gramsci, che in una delle sue lettere – se non sbaglio alla sorella – diceva di essersi pentito di aver impedito alla figlia di parlare il sardo, perché aveva capito che il dialetto è importantissimo per la creatività e per l’identità, oltre al fatto che i dialetti molto spesso riescono ad essere più specifici e poetici della lingua italiana.
Per questo Gramsci, così come Pasolini, Calvino e altri intellettuali, pensavano fosse giusta una convivenza tra lingua e dialetto, ed erano convinti del fatto che il dialetto potesse in qualche modo alimentare ed arricchire la lingua italiana.
Per concludere, parlaci dei tuoi progetti per il futuro.
Sto riformulando un gruppo per produrre le mie creazioni sullo stile di un mio vecchio gruppo Alabastra, in cui convivevano vari stili.
Proseguirò con i miei seminari che amo fare, soprattutto quando sono finalizzati a delle performance. Ora sono in partenza, Le Bouyssou a La Maison des Enfants du Quercy per un seminario residenziale di MultiVocale che unisce la tecnica vocale ai canti polivocali della tradizione italiana.
Ho altri progetti in itinere di cui non posso parlare per questioni scaramantiche e altre idee che non possono essere rivelate perché, come diceva Giovanna, “se hai un’idea non parlarne finché non viene realizzata”.
Infine, spero sempre in nuove e proficue collaborazioni: è auesto il vero nutrimento della nostra attività creativa.
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