L’impossibile scena della memoria di Luca Ronconi

Che cosa è successo al convegno di studi “Ho sempre preferito non lasciare traccia" (Roma, 21-23 maggio 2024)

Pubblicato il 12/06/2024 / di / ateatro n. 198

Esplorare e ricostruire la memoria di Luca Ronconi e del suo teatro significa provare a sciogliere due nodi difficilmente estricabili.
Il primo riguarda la carriera di un artista che programmaticamente non voleva lasciare memoria del suo lavoro e della sua biografia. A questo allude il titolo del convegno di studi “Ho sempre preferito non lasciare traccia” (Roma, 21-23 maggio 2024, a cura di Roberta Carlotto, Marta Marchetti e Oliviero Ponte di Pino), organizzato dal Dipartimento di Lettere e Culture Moderne dell’Università La Sapienza di Roma e dal Centro Teatrale Santacristina.

“Ho sempre preferito non lasciare traccia”: Marta Marchetti, Roberta Carlotto, Giovanna Giubbini, Oliviero Ponte di Pino (Ara Pacis, 21 maggio 2024)

Salvare gli artisti o gli spettacoli?

Ronconi ha spesso ripetuto che lo spettacolo vive solo nella memoria dello spettatore. In un’inchiesta pubblicata nella decima edizione del Patalogo (l’annuario diretto da Franco Quadri, che resta un insuperato “teatro della memoria”), il regista poneva alcune questioni che riverberano la natura profonda e inafferrabile dell’evento spettacolare. Come ha ricordato nel suo intervento al convegno Renata Molinari, Ronconi premetteva che

in questi dieci anni, mi pare, si è data più attenzione alle persone che alle cose che fanno, meno allo spettacolo che all’attore o all’artista.
(il Patalogo 10. Annuario 1987 dello spettacolo, a cura di Franco Quadri, Ubulibri, Milano, 1987, p. 271)

Poi si chiedeva provocatoriamente perché le opere (o gli artisti) vanno salvati:

Perché rappresentano questi dieci anni oppure perché non li rappresentano? Perché anticipano i prossimi o perché cercano di stabilire un legame con i precedenti? (…) E poi, in cosa li salvi? Non sono film, non esiste una biblioteca degli spettacoli finiti, o forse solo nella memoria di qualcuno… Allora forse meglio salvare la memoria degli spettacoli, visto che gli spettacoli non si possono salvare.

E concludeva con un altro interrogativo:

A chi permettere di conservare la memoria? Chi può permettersi di ricordare?

Questi temi sono riemersi più volte nel corso del convegno, sia esplicitamente sia implicitamente, per esempio quando Livia Cavaglieri, Arianna Morganti e Donatella Orecchia hanno fatto ascoltare alcune testimonianze di attori, tecnici e soprattutto spettatori più o meno eccellenti sul Ronconi “romano”, raccolte nell’ambio di Ormete | oralità memoria teatro, ambizioso progetto di storia orale del teatro italiano contemporaneo.
Centrale in questo costruzione di una memoria viva sono proprio le testimonianze dirette dei collaboratori di Ronconi: attori e attrici, scenografi e scenografe, autori e drammaturghi, il reparto tecnico… Vedi per esempio le dieci videointerviste Essere attori. Al lavoro con Luca Ronconi, realizzate dal Centro Teatrale Santacristina con la regia di Jacopo Quadri. A questo intreccio di voci si possono aggiungere la preziosa intervista allo stesso regista raccolta da Ariella Beddini nel 2009 e, in queste giornate romane, le testimonianze di Manuela Mandracchia e Sandra Toffolatti.

E’ d’obbligo l’incertezza

Ronconi era di quei registi che non seguono tutte le repliche dei loro spettacoli. Li abbandonava dopo la prima – o meglio, dopo la prova generale. Per lui il tempo vivo del teatro era quello delle prove, in costante e qualche volta furioso dialogo con attori e tecnici, in una bulimia creativa che lo ha portato a creare una quantità di opere, con una quantità di suggestioni che qualunque studioso fatica a padroneggiare.
Come se non bastasse, Ronconi – che sembrava vivere quasi solo sul palcoscenico, inanellando una collezione ininterrotta di messinscene – è stato assai reticente anche sulla propria vicenda famigliare e personale. Introducendo Prove di autobiografia, frutto delle conversazioni con Maria Grazia Gregori commissionate da Franco Quadri per Ubulibri (ma il volume è stato pubblicato solo dopo la morte del protagonista e dell’editore), Giovanni Agosti rileva che, “data la natura del personaggio, è d’obbligo l’incertezza”. Anche perché di alcuni episodi chiave della sua vita lo stesso Ronconi ha dato versioni contrastanti (una storia familiare che Agosti ha iniziato a sdipanare).
La documentazione e la memoria – anche quella degli archivi – hanno inevitabili buchi e lacune, e poi equivoci, falsi e manipolazioni. Sono le trappole con cui si deve misurare ogni ricercatore. Questa complessità si riverbera e si amplifica di fronte a una personalità sfaccettata ed elusiva come quella di Luca Ronconi.

L’Archivio Luca Ronconi

Però, nonostante questo atteggiamento, l’Archivio Ronconi esiste ed è ricco di documenti preziosi. Raccoglie le carte che il regista aveva conservato nella sua abitazione a Santacristina, sulla collina umbra, con materiali personali e di lavoro, comprese due copie dattiloscritte e annotate di Prove di autobiografia (a cura di Giovanni Agosti, Feltrinelli, Milano, 2019) e la commedia Guerra ed estate, che è stata da poco ripubblicata (sempre a cura di Giovanni Agosti, Feltrinelli, Milano, 2024, collazionando il testo con la versione usciva su “Filmcritica” nell’agosto 1959). Lo stesso Agosti ha concluso il convegno romano proprio illustrando la pièce e inserendola nel suo contesto storico e culturale, con alcuni inserti del copione letti da Manuela Mandracchia e Sandra Toffolatti.

“Ho sempre preferito non lasciare traccia”: Sandra Toffolatti, Manuela Mandracchia, Giovanni Agosti (Teatro Ateneo, 23 maggio 2024)

Ronconi diceva “Non voglio lasciare traccia”. Però, come ha titolato il suo intervento Rossella Santolamazza della Sovrintendenza Archivistica e Bibliografica dell’Umbria, “A Roberta [Carlotto] lascio il mio archivio”. Attualmente l’Archivio Ronconi e Santacristina, dopo essere stato riordinato da Rossella Santolamazza con sapienza e coinvolgimento emotivo, è in deposito presso l’Archivio Storico delle Arti Contemporanee della Biennale a Venezia.

Fare rete tra le memorie

Nell’Archivio Ronconi ci sono scarse tracce dei suoi spettacoli, che vanno cercate altrove, sedimentate nell’arco di una carriera che ha attraversato diverse istituzioni, dalla Biennale di Venezia al Laboratorio di Prato, e poi i teatri che ha diretto, gli Stabili di Torino e Roma e il Piccolo di Milano, a cui vanno aggiunti i teatri lirici e i festival con cui ha collaborato, in Italia e all’estero. Agli archivi delle istituzioni vanno poi aggiunti quelli dei suoi collaboratori (alcuni di questi fondi sono già stati accolti alla Biennale).

Per una storia degli archivi teatrali

Il pubblico dell’Orlando Furioso a Parigi (Archives Nationales)

Oltretutto va tenuto conto che anche gli archivi teatrali hanno una storia, come ha riassunto Giovanna Giubbini nel suo intervento introduttivo. Fino ai primi del Novecento nel nostro paese coincide quasi del tutto con gli archivi dei teatri comunali e civici (e sociali), conservati di norma negli archivi dei Comuni (e rispondono ai loro criteri di catalogazione e conservazione). Poi, a partire soprattutto dagli anni Settanta, hanno iniziato a sedimentarsi gli archivi di istituzioni come i teatri stabili, i festival, le compagnie…
Grazie a queste carte, diventa possibile ricostruire l’economia dello spettacolo, anche se molte realtà tendono ancora a sottovalutare l’importanza della memoria organizzativa e amministrativa, che è invece fondamentale (non a caso nel corso delle tre giornate sono ricorsi in più occasioni i nomi di Paolo Redaelli e di Nunzi Josefi, figure indispensabili per rendere realizzabile l’irealizzabile). Lo ha reso evidente Erica Magris, che ha recuperato negli archivi parigini l’appunto con il numero dei biglietti venduti alle repliche dell’Orlando furioso alle Halles, alla vigilia della loro distruzione: testimonianza di uno straordinario successo, con un pubblico soprattutto di studenti, che portò a programmare alcune repliche aggiuntive.

“Ho sempre preferito non lasciare traccia”: Anna Peyron, Rosaria Ruffini, Oliviero Ponte di Pino, Ilaria Lepore, Erica Magris (Teatro Ateneo, 22 maggio 2024)

A queste tipologie si sono poi aggiunti gli archivi personali di registi, attori, critici, studiosi, che hanno caratteristiche ancora diverse. Non tutti questi fondi personali sono ugualmente ordinati e accessibili. Nel nostro paese la cultura delle memoria e degli archivi teatrali fatica ad affermarsi. Riuscire a far dialogare tra loro questi materiali non è semplice. Inutile ricordare che manca in Italia un censimento degli archivi dello spettacolo dal vivo, utile per ricercatori e operatori, anche se è in corso un tentativo di costruire una piattaforma online (di questa mappatura degli archivi dello spettacolo, nell’ambito del PNRR PE5 “Changes”, se ne occupa tra gli altri la ricercatrice Ilaria Lepore). In Italia un modello di archivio teatrale resta il Centro Studi dello Stabile torinese, di cui ha parlato la direttrice Anna Peyron.

La multidisciplinarietà

Le complessità non sono finite. Un aspetto cruciale, sottolineato anche da Giovanni Agosti, è che per capire Ronconi è necessaria una dimensione multidisciplinare, visto per esempio lo stretto rapporto con le arti visive, con la musica e con la moda (da Walter Albini a Brunello Cucinelli, che nel 2008 lo chiamò a inaugurare il suo teatro a Corciano con Nel bosco degli spiriti). Ugualmente interessante l’intreccio con il cinema e il video, a partire dall’esperimento di Lolita sceneggiatura (ricostruito nell’intervento di Emiliano Morreale) e dall’invenzione multimediale del Viaggio a Reims rossiniano allestito a Pesaro e alla Scala (debitore magari di Andy Warhol’s Last Love dello Squat Theatre). Senza dimenticare, in questa prospettiva, le incursioni televisive, con l’Orlando e non solo. E naturalmente la musica, come ha fatto intuire la testimonianza di Cesare Mazzonis sulle inventive regie liriche (a partire da quelle realizzate insieme a Firenze).
La prospettiva multidisciplinare è peraltro connaturata agli archivi dello spettacolo dal vivo, che si differenziano dagli archivi bibliografici (dove predominano “le carte”) per la presenza di bozzetti (scene e costumi), locandine, manifesti e cartoline per la comunicazione, fotografie e sempre più spesso materiale video, con i problemi di conservazione evidenziati per esempio dal filmato di Utopia, ormai popolato solo di vaghe ombre e fantasmi (sollevando il tema della labilità dei supporti elettronici). Per non parlare di costumi, oggetti di scena o elementi scenografici, e poi maschere, burattini e marionette…
E’ una varietà di materiali d’uso e oggetti spesso polimaterici, che impongono l’interlocuzione con altri ambiti disciplinari. Non devono solo essere preservati (nella logica museale e archivistica), ma possono (e a volte devono) essere riutilizzati per riprese e nuovi allestimenti. Il loro valore sta anche nel loro valore d’uso, continuando a utilizzarli e farli vivere. Non mancano a volte, in queste Wunderkammer, materiali improbabili, oggetti legati a vincoli di appartenenza, come per Ronconi i vari Premi Ubu collezionati nel corso di una carriera straordinaria (o per Giorgio Strehler un paio di pantaloni…).

Archivi e collezioni

La questione può porsi in maniera ancora più radicale, se si imbocca la pista indicata da Mario Lupano, che ha descritto provocatoriamente gli archivi come “luoghi dove confermare idee preconcette”, senza che la ricerca si apra alle sorprese. Lupano ha parlato anche di “scarti non archiviabili” (materiali che sfuggono alla logica della conservazione e alle regole della catalogazione) e della distinzione tra l’archivio e la collezione, che è “il luogo dove si mostra, magari con una molteplicità di punti di vista, e non c’è niente da dimostrare”. La collezione era peraltro un concetto che affascinava pure Ronconi.
Lupano ha inoltre evidenziato la processualità non lineare della costruzione della memoria: spesso i testi e i bozzetti di uno spettacolo vengono “fissati” dopo il debutto dello spettacolo (vedi i disegni delle scenografie di Uberto Bertacca per l’Orlando teatrale), per costruire documentazione e consentire eventuali riallestimenti.

Ma perché bisogna studiare Ronconi?

La regia è il grande rimosso degli studi teatrali italiani. I volumi di riferimento restano sul piano generale Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi di Claudio Meldolesi (Sansoni, 1984) e su Ronconi Il rito perduto di Franco Quadri (Einaudi, 1974). Il mondo accademico ha preferito occuparsi d’altro, evitando di misurarsi con il nodo della regia. Non lo ha fatto quando la regia critica era il modello dominante, e non lo ha fatto dopo, quando sembra un arnese del passato. Nemmeno Strehler è stato degnamente studiato e storicizzato, mentre di altri straordinari registi made in Italy (Aldo Trionfo o Giancarlo Cobelli, per esempio) si è persa la memoria.
Forse gli studiosi si sono fatti intimidire dalla quantità di materiale, dalla capacità di misurarsi teatralmente con poemi (Orlando furioso), romanzi (Pasticciaccio, su cui si è soffermato Piermario Vescovo, e Fratelli Karamazov), saggi scientifici (Infinities o Lo specchio del diavolo), epistolari, per quel suo mix di assoluta coerenza e di rifiuto di fissare un metodo.
Magari a intimorire è stato il mix di tradizione e modernità della sua parabola, che affonda le radici nel Novecento di Luchino Visconti e Orazio Costa, che è cresciuto con la generazione dei Gassman, dei Mastroianni, dei Volontè, dei Pani, delle Gravina, degli Orsini (il mondo rievocato dai ricordi giovanili di Gianfranco Capitta), e poi ha lanciato generazioni di allievi, da Luca Zingaretti a Massimo Popolizio e Galatea Ranzi, fino ai giovanissimi dei Sei personaggi allestiti a Santacristina. E’ uno dei crinali su cui si muove Ronconi, tra tradizione e sperimentazione.

Il repertorio

Anche considerando l’attenzione ronconiana al tema del repertorio, che ha allargato con la reinvenzione dei classici, con la riscoperta di testi dimenticati e l’apertura alla nuova drammaturgia, fino ai Lehman Brothers di Stefano Massini – ben vengano studi che approfondiscono spettacoli forse minori, ma indispensabili per ricostruire un percorso artistico ricco di svolte, come Fedra (a cui si è applicato Marco Beltrame), gli allestimenti al Burgtheater di Vienna, Die Bakchen e Die Vögel (su cui si è applicata Sonia Bellavia) o le altalenanti fortune francesi (rivisitate da Erica Magris).

“Ho sempre preferito non lasciare traccia”: Rossella Santolamazza, Sonia Bellavia, Marco Beltrame (Ara Pacis, 21 maggio 2024)

A partire dalla centralità della parola – o meglio, dalla straordinaria capacità di lettura dei testi, in tutta la loro potenzialità di significati diventa cruciale la riflessione sul lavoro con gli attori, esplorata dall’intervento di Claudio Longhi, su vari versanti: il rapporto con la lingua italiana (secondo lui costruita per mentire, vista la mobilità della sintassi italiana, rispetto per esempio alla razionalità del francese o alla rigida architettura del tedesco), o con la follia (come lente d’ingrandimento per comprendere il linguaggio “normale”). Ma Longhi ha anche ricordato la passione di Ronconi per i fumetti, che utilizzava spesso per dare indicazioni agli artisti, a partire da cortocircuito tra parola e immagine. In quarto focus indetificato da Longhi è la chiacchiera, in quanvo luogo in cui il pensiero si fa parola, nel costante andirivieni tra la ricerca di un senso e la sua espressione. In questa prospettiva si inserisce anche l’attezione e quasi l’ossessione pedagogica di Ronconi, testimoniata da Mauro Avogadro, che è stato a lungo suo collaboratore: il “non metodo” di Ronconi – basato sull’indagine meticolosa del testo e dei suoi possibili orizzonti di significato in illuminanti prove a tavolino – era lo stesso, salvo i tempi più dilatati nel lavoro con i giivani allievi rispetto ai professionisti.

Contro il pubblico?

Dall’intervento di Mauro Avogadro emerge un’ulteriore prospettiva. Perché questa vocazione pedagogica ha investito anche il pubblico. In un’esperienza seminale come La torre, allestiva a Prato, Avogadro era Anton, un personaggio che aveva anche il compito di indirizzare e educare lo sguardo degli spettatori, in un allestimento dove la prospettiva, la direzione e la profondità della visione venivano costantemente sperimentate. Una delle ragioni che spinse un artista cresciuto fuori (e anche contro) le istituzioni, ad accettare la direzione di un teatro pubblico a Torino nel 1989, fu probabilmente anche la possibilità di fondare una scuola di teatro.
Ronconi è stato spesso accusato di fare spettacoli “contro il pubblico”. Ma, come ha ricordato Renata Molinari, lo faceva soltanto perché cercava di rivolgersi a un pubblico migliore.

Chi fa teatro è sempre un po’ “contro il pubblico”. Se c’è identità ovviamene non c’è comunicazione. Quando il pubblico si riconosce troppo in quello che vede potrà porsi un’identificazione, sostitutiva della comunicazione, che invece è necessaria nei fenomeni autenticamente culturali, dove l’attrito è indispensabile.
(Luca Ronconi, A proposito di istituzioni; in il Patalogo 17. Annuario ’94 dello spettacolo, a cura di Franco Quadri, Ubulibri, Milano, 1994)

A ispirare le sue scelte è stata la consapevolezza della triangolazione tra teatro, istituzioni e pubblico, con una visione “politica” del ruolo della cultura.

Il teatro e la città

Non a caso un basso continuo che ha attraversato numerose relazioni e testimonianze è il rapporto tra il teatro e la città. Le più significative esperienze istituzionali di Ronconi hanno tenuto conto del rapporto con la città. Sull’invasione di spazi fuori dai teatri nella “Biennale-laboratorio” del 1974-76 ha riflettuto Rosaria Ruffini, parlando di disorientamento e di “sovvertimento degli spazi”. Il Laboratorio di Prato nasce anche da una riflessione sulla città, affidata soprattutto a Gae Aulenti (e con qualche equivoco e incomprensione, va aggiunto). A Torino, Roma e Milano è sempre stato consapevole delle specificità delle città, e dei loro pubblici. Magari con intuizioni clamorose, come in un progetto mai realizzato: mettere in scena il “Corriere della Sera”, dalla prima pagina ai necrologi, dallo sport alla pubblicità, alle quotazioni di Borsa. Non in un teatro, ma dentro la metropolitana milanese, di notte, in orario di chiusura al pubblico”.
Il tema della città può diventare materia poetica. Ecco uno “spettacolo-piazza” come l’Orlando furioso (lo documenta anche l’intervista su piazza Maggiore a Bologna, realizzata dalla RAI nel 1972) o uno “spettacolo-strada” come Utopia.

Centrale è la capacità di “colmare lo spazio”, nell’espressione di Angelo Ferro, uno dei tecnici con cui ha lavorato Ronconi, da cui discende la necessità di “spazializzare il suono, restituendo la profondità e i movimenti degli attori”, come ha raccontato Hubert Westkemper, il suo sound designer per trent’anni, anche per alcuni “spettacoli impossibili”, da Ignorabimus agli Ultimi giorni dell’umanità (con 16 radiomicrofoni per 60 attori), dal Prometeo al Panico. Anche sul versante tecnico, quella di Ronconi è stata una continua sfida ad allargare le possibilità del teatro, spingendo anche le tecnologie oltre il loro limite.

La scena come laboratorio della conoscenza

Luca Ronconi si è formato nel secolo delle avanguardie, che però – era questa la sua opinione – hanno finito per concentrarsi sul linguaggio e non sulla funzione dell’arte e della cultura. Aveva le radici nella tradizione teatrale, ma ha continuato a innovarla.
La sua “mente teatrale” (nella formula di Ferdinando Taviani rievocata da Piermario Vescovo) e dunque progettuale ha creato spettacoli memorabili, in percorso animato da una costante tensione utopica, anche nell’invenzione di spazi teatrali temporaneamente liberi, come i laboratori della Biennale, di Prato e di Santacristina. Questa visionarietà ha portato ad alcuni allestimenti impossibili, ma anche a una serie di progetti mai realizzati, ancora da studiare anche come incubatori di altre esperienze. Il genio si esprime e si forma anche nei fallimenti, nei passi falsi, nei vicoli ciechi, dai quali sa trarre utili lezioni.
Soprattutto la sua figura intellettuale ha travalicato i limiti del teatro, per la sua visione della scena come spazio di conoscenza privilegiato di sé e della realtà: un luogo dove studiare e creare assieme, nella pratica, facendo e rifacendo, ovvero incarnando le parole nel corpo e nello spazio.
In questo senso le giornate romane hanno indicato una serie di piste e di indicazioni di lavoro, cercando di delineare il contesto storico e culturale di un’impressionante parabola creativa. Dovrebbe essere l’inizio di un laboratorio aperto di ricerca creativa, in un passaggio di testimone ai ricercatori più giovani.
E resta da indagare l’ossessione profonda che attraversa tutta l’opera di Ronconi, che forse non è altro che una caleidoscopica esplorazione della morte, nella varietà delle sue forme, da parte di uno spirito laico e sempre curioso.




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