Le parole del teatro: verità scenica | L’incontro Giulia Alonzo e Oliviero Ponte di Pino con gli spettatori dell’ITC Teatro

E il 16 maggio 2024 il Teatro dell'Argine festeggia i suoi trent'anni

Pubblicato il 11/05/2024 / di / ateatro n. 195

I trent’anni del Teatro dell’Argine

Il Teatro dell’Argine compie trent’anni e vuole condividere questo momento di festa con le persone che lo hanno accompagnato dal 1994 ad oggi con un momento di festa, alla vigilia del suo trentesimo compleanno!
Da tutto il gruppo di Ateatro, auguri di cuore a tutto lo staff e agli spettatori dell’ITC Teatro! La collaborazione con l’Argine ha avuto un momento fondamentale con l’edizione 2010 delle Buone Pratiche del teatro, sul tema Teatro pubblico, teatro commerciale, teatro indipendente, con la partecipazione straordinaria di Alessandro Bergonzoni.

La progettualità condivisa prosegue ora con diversi progetti, tra cui gli incontri Spettacolo, spettatori e no dedicati alle Parole del teatro. Per l’occasione qui sotto pubblichiamo la testimonianza dell’incontro del 4 febbraio 20023 con gli spettatori dell’Argine dedicato a verità scenica.

Il programma

dalle 20.30 alle 22.00 – cena a buffet
presso il Parco della Resistenza | area verde adiacente alla Sala Paradiso del Circolo Arci
a cura di Arci San Lazzaro

un momento conviviale per stare insieme mangiando e sorseggiando un bicchiere di vino in mezzo al parco.

dalle 22.00 alle 23.30 – balli e chiacchiere
presso la Sala 77 del Circolo Arci San Lazzaro
a cura di LaGiùMa

Musica, chiacchiere e danze per proseguire insieme la festa, in attesa della mezzanotte!

dalle 23.30 alle 00.00 – aspettiamo insieme la mezzanotte!
a cura di un ospite speciale a sorpresa

Inizia il countdown per aspettare il 17 maggio, giorno in cui il Teatro dell’Argine compie 30 anni!

00.00 brindisi, taglio della torta e scatto ricordo
30 anni suonati! Brindiamo insieme all’inizio di questo nuovo decennio! Spumante e torta per tutti e per tutte con immancabile foto ricordo!

dalle 00.30 all’1.30 dj set
a cura di LaGiùMa

In occasione di grandi eventi, non c’è infrasettimanale che tenga!

Ingresso gratuito fino a esaurimento posti con prenotazione obbligatoria.
Tutti i partecipanti e le partecipanti riceveranno un contrassegno speciale all’arrivo.

30 anni di Teatro dell’Argine!
Giovedì 16 maggio 2024, a partire dalle 20.30
Presso Parco della Resistenza, San Lazzaro di Savena
ingresso da Via Bellaria 7, area verde adiacente alla Sala Paradiso del Circolo Arci

Per prenotare CENA + FESTA con musica e taglio della torta (dalle 20.30) clicca qui e inserisci il codice OSPITI
prenotazione obbligatoria entro lunedì 13 maggio alle ore 13.00

Per prenotare FESTA con musica e taglio della torta (dalle 22.00) clicca qui
prenotazione obbligatoria entro lunedì 13 maggio alle ore 13.00

Visita il sito di Teatro dell’Argine qui

Spettacolo, spettatori e no | Verità scenica

a cura di Giulia Alonzo e Oliviero Ponte di Pino

A volte quello che vediamo sulla scena – pur sapendo benissimo che è finzione – ci sembra vero. Ma perché? E perché sembra vero agli attori, che si calano in un personaggio spesso così diverso da loro? E’ la domanda che si faceva Amleto davanti ai comici giunti a Elsinore:

“Che cos’è Ecuba per lui, o lui per Ecuba, perch’egli possa piangere così?”

Charles Hunt, The Play Scene in Hamlet (1868)

Per il terzo incontro del ciclo dedicato alle parole del teatro, gli spettatori dell’ITC Teatro hanno deciso di inverrogarsi su un problema che si pone chi frequenta il teatro, dopo il primo momento di meraviglia per la magia di quello che accade sulla scena – le sontuose scenografie, gli effetti di meraviglia, la sensazione di far parte di una comunità, e magari la magneficenza dei velluti e degli ori di un’antica sala all’italiana…
Insomma, perché ci credo, anche se so che è finto? E perché di fronte a certi spettacoli avverto una fastidiosa sensazione di inautenticità, e dunque di inutilità?
La “verità scenica” è un concetto sfuggente, con molti risvolti, e nel tendone dell’ITC il 4 febbraio 2023 la discussione si accende subito.
Per uno degli spettatori del Teatro dell’Argine, di fronte ai protagonisti di Risveglio di primavera, visto una settimana prima all’ITC Teatro, questo “effetto di verità” si è manifestato ancor prima dell’inizio dello spettacolo:

“Ho visto questi ragazzi che passeggiavano in maniera molto potente e leggera sul palcoscenico. Quel loro aspettare il pubblico già in scena è una testimonianza di verità.”

Una semplice camminata può creare un effetto di verità.

Frank Wedekind, Risveglio di primavera, regia di Gabriele Vacis (2023) (ph. Andrea Macchia)

La sospensione dell’incredulità

Quando assistiamo a uno spettacolo, mentre leggiamo un libro, se vediamo un film, ci emozioniamo anche se sappiamo che quello che accade di fronte a noi è finto.

“Credo che a teatro ci sia un patto tra chi è in scena e il pubblico. Se vado a vedere Amleto, so di non essere in Danimarca, però arrivo a stringere questo patto con chi mi sa raccontare questa storia, per cui io ci credo ugualmente che siamo in Danimarca. Senza quel transfert il teatro non ha senso. Senza il patto cade la struttura del teatro.”

Questo fenomeno paradossale viene definito “sospensione dell’incredulità”. Ma come avviene? E ci sono meccanismi che favoriscono questa sospensione? Ed è sempre giusto abbandonarsi al piacere della finzione, calarsi in un mondo immaginario dove i problemi reali vengono spesso distorti o cancellati?

L’aspetto performativo

Parlando dei giovani attori di PEM, una spettatrice nota:

“Mi ha colpito la loro presenza sulla scena. C’era un grandissimo ascolto, una sorta di coreografia, stavano sul palcoscenico in maniera consapevole.”

In questo caso l’ascolto, e dunque la relazione tra gli attori, l’attenzione dei corpi e degli sguardi, era “vera”, era un rapporto reale.

2011 Grimmless © Angelo Maggio

Ricci/Fort/e, Grimmless, 2011 © Angelo Maggio

“A proposito di spettacoli che mi hanno turbato, ci sono quelli di Ricci/Forte, perché c’è troppa roba dentro: violenza, sesso, molto forti…”

Anche se affronta temi delicati, Risveglio di primavera non ha certo la violenza di alcuni spettacoli di Ricci/Forte. Ma perché i performer di Ricci/Forte o quelli di Jan Fabre ci portano in un momento di verità? Perché nelle loro azioni c’è un tale sforzo mentale e un tale lavoro fisico che le rende vere. Per esempio, nel Potere della follia teatrale, Jan Fabre fa correre per 40 minuti gli attori intorno al palcoscenico. Dopo una mezz’ora di corsa, la loro fatica è vera, come sono veri il sudore, il respiro affannato, i muscoli che si appesantiscono.
Di conseguenza, l’emozione che portano in scena gli attori, semplicemente essendo sé stessi, vivendo organicamente lo spazio in cui sono e le relazioni che li collegano, può assumere una grandissima forza.

“Ho riconosciuto la verità in questi ragazzi così giovani nel rappresentare sé stessi anche perché mi hanno fatto tornare indietro nel tempo e nella mia vita: sono stati teneri, commoventi, bravi… Seppur il tono di voce fosse soft, era al tempo stesso reale e vero. Mi sono immersa e ho provato molta nostalgia.”

La verità dei corpi scenici

Negli ultimi anni abbiamo incontrato diverse esperienze teatrali che coinvolgono persone – o meglio comunità – che vivono una situazione di disagio: Giuliano Scabia, che ha lavorato nel manicomio di Trieste con Franco Basaglia, e tutti coloro che nelle carceri, o con i malati di Alzheimer…
Quando queste persone arrivano sulla scena, portano con sé un vissuto, che si è sedimentato nei loro corpi, nella loro energia, nel modo di gestire e di occupare lo spazio. Tutto questo ha una verità – un’energia, una naturalezza – che l’attore fatica a raggiungere, perché deve fingere. Ci può arrivare, ma fa molta fatica.
L’attore che segue il metodo dell’Actor’s Studio, e quindi cerca l’immedesimazione, quando deve fare il malato di mente va a vedere i malati mente, per capire come si muovono, come parlano, eccetera. E cerca di rifarlo. Ma quando vedi il vero malato, ha una potenza e un’organicità che difficilmente un attore riesce a raggiungere.
Micaela Casalboni ricorda un aneddoto che ha per protagonista Anton Cechov, che cercava attori per interpretare la parte di alcuni contadini. Dopo aver visto alcuni candidati, trovò una contadina vera e spiegò “come questa signora aveva azzerato completamente gli attori”. A partire da questo episodio, Gerardo Guccini ha coniato la formula “corpi scenici”: corpi che hanno una loro verità.

La prigione della Compagnia della Fortezza, regia di Armando Punzo (1994) (foto di Maurizio Buscarino)

Un altro modo di usare la fisicità degli artisti per raggiungere una verità scenica è quello che ha usato in diverse occasioni Romeo Castellucci. Ha portato in scena per esempio un attore senza le braccia o due attrici anoressiche, perché doveva costruire quell’immagine. Quei corpi diventano icone che hanno un valore simbolico, inserite nella logica dello spettacolo.

Societas Raffaello Sanzio, Orestea (1995): Apollo

Sono modi diversi per cercare una verità scenica attraverso i corpi.

“Dobbiamo anche distinguere il cinema dal teatro. Il teatro accade in presenza e, come diceva Giuliano Scabia, è finzione. Quindi accetto che sia una finzione, ma nel momento in cui ho accettato e tu mi fai vedere che è finzione, come spettatore mi arrabbio… Una volta mi sono dimenticata di essere spettatrice quando vidi Comedians, in teatro, mi sono dimenticata di essere spettatrice.”

Anche se in Comedians era tutto chiaramente finzione. Quindi la verità scenica è quando ti dimentichi di essere spettatrice.

“Infatti non parliamo di verità, ma di verità scenica, perché fa parte di quel patto.”

Andrè Antoine, La Terre di Émile Zola, Théâtre Libre (1900)

Un primo accorgimento per ottenere questo effetto consiste nel rendere credibile la finzione, diminuendo la distanza tra la realtà e la replica scenica. Alla fine dell’Ottocento, nell’epoca del naturalismo, il regista André Antoine sistemava sulla scena del suo Théâtre Libre a Parigi dei veri quarti di bue.

“Ho sentito un regista del Teatro dell’Argine dire che secondo lui la verità non aumenta con tutti questi orpelli in scena: bastano gli attori e la loro bravura.”

Angelica Liddell, nella sua performance Caridad (2023), che parlava di corride, ha appeso una gigantesca carcassa di bue sopra la scena. Ma una sanguinante carcassa era apparsa anche in Liebestod (2021).

Angelica Liddell, Liebestod (ph. Christophe Raynaud de Lage)

Ronconi per Ignorabimus chiese a Margherita Palli di costruire un vero muro, con i mattoni perché questo dava ovviamente alla recitazione una forza diversa rispetto al fondalino…

Ignorabimus

Luca Ronconi, Ignorabimus

Sono rimaste leggendarie le esigenze di un regista come Luchino Visconti, che pretendeva per scene e costumi oggetti e abiti autentici, persino per dettagli che non erano visibili al pubblico: si dice che andasse a prendere i sesterzi in prestito al museo, per rendere tutto più vero. Portare dentro la finzione elementi veri ne aumenta l’effetto di verità.

“I suoni, la musica, le cicale? Come nel Gabbiano di Cechov, con le cicale vere…”

Anche l’aspetto sonoro può essere utile. Anche se Cechov alla lunga era irritato da tutti gli effetti sonori delle regie di Stamnislavskij.

I paradossi degli attori

Dopo il prologo muto, sulla scena dell’ITC i giovani interpreti di Risveglio di primavera hanno iniziato a parlare. Frank Wedekind ha scritto il testo alla fine dell’Ottocento, ma è stato rappresentato per la prima volta all’inizio del Novecento, con un grandissimo scandalo perché racconta le difficoltà di un gruppo di adolescenti in una società repressiva. La scoperta della sessualità da parte di un gruppo di ragazzi e ragazze è un passaggio sempre attuale. A portare in scena Risveglio di primavera è PEM-Potenziali Evocati Multimediali, ragazzi da poco diplomati alla Scuola del Teatro Stabile di Torino, dove Vacis era docente. Quindi sono poco più grandi dei protagonisti della vicenda.

“Per quanto riguarda la recitazione mi ha colpito questa pseudo-spontaneità. Il testo l’avevano imparato a memoria, ma era recitato con una spontaneità quasi colloquiale, in modo molto affabile e diretto. Poi mi colpisce sempre molto questa giovinezza, questa omogeneità di età, così acerbo ma così bello.”

In questo caso, si tratta di interpreti che hanno caratteristiche fisiche simili (o compatibili) con quelle dei personaggi che interpretano. Molti registi – soprattutto al cinema – lavorano in questo modo; nel casting cercano attori e attrici che incarnino l’immagine che se ne erano fatti nella progettazione della regia.
Ma oltre alla verità esteriore, alla somiglianza fisica tra attore e personaggio, c’è anche una verità dei sentimenti. Noi crediamo alla verità dei sentimenti di quel personaggio: l’amore, l’ira, la rabbia, la tristezza… Ma perché condividiamo le sue emozioni?
Denis Diderot, uno dei due padri dell’Encyclopédie, ha intitolato il suo saggio – scritto tra il 1770 e il 1780, ma pubblicato solo nel 1830 – Paradosso sull’attore. Va a teatro, guarda gli attori e le attrici sulla scema e si chiede: “Ma perché credo a quello che fanno in scena, ai sentimenti che dichiarano di provare?” Il problema non è più, come nel caso della recita dei comici dell’Amleto, se l’interprete crede ai sentimenti di Priamo e Ecuba, ma perché gli crede il pubblico.
Diderot trova due ipotesi. Quando Micaela sale in scena e interpreta una scena di gelosia, vive davvero le emozioni del suo personaggio, la sua gelosia: per questo diventa vera e io le credo. A muoverla è dunque la sua interiorità. Oppure Micaela non prova quel sentimento, ma ha appreso i codici gestuali che corrispondono al comportamento di una donna gelosa (o all’idea che noi ce ne siamo fatte) e li esegue con precisione, a prescindere da quello che sente. In questo senso è solo una macchina che produce segni, una marionetta che esegue una partitura gestuale precisa ed efficace.
Il primo approccio è stato esplorato da Konstantin Stanislavskij, con il metodo della “riviviscenza”: per interpretare credibilmente l’emozione del personaggio, dovrò cercare nella mia memoria delle emozioni il più possibile analoghe, riattivarle e in questo modo riviverle sulla scena. E’ un approccio che spinge dunque l’attore a scavare nella propria intimità, in quello che è anche un percorso di autoanalisi e autoconoscenza.
Il secondo approccio è invece quello che venne teorizzato nelle scuole di teatro italiane a metà Ottocento, all’epoca dei trionfi dei grandi attori della tradizione italiana. Lo codificò Alamanno Morelli, attore e insegnante dell’Accademia dei Filodrammatici di Milano, in un breviario fantastico intitolato Prontuario delle pose sceniche. Ogni sentimento può essere rappresentato da una precisa postura, da un gesto, da un’azione.

Da Antonio Morocchesi, Lezioni di declamazione e d’arte teatrale, Tipografia all’insegna di Dante, Firenze, 1832

E’ una specie di stenografia delle emozioni:

Accidia, Sonnolenza — Stirare le braccia in varie parti, torcendo il capo ed il collo e sbadigliando.

Afflizione — Braccia piegale , mani con dita intrecciate, appoggiate al petto, o alla spalla sinistra , al collo, alla bocca, alla fronte, t

Agitazione — Stropicciarsi le mani, stenderle con indecisione e senza oggetto ora su una cosa, ora sull’altra.

In questa prospettiva, l’attore è una specie di robot che con il suo corpo e i suoi gesti costruisce una serie di segni. Ovviamente nessun attore utilizza alla lettera questi metodi…
Micaela Casalboni spiega che per lei, come attrice, ci sono tre elementi molto importanti.

La luce intorno di Nicola Bonazzi con Micaela Casalboni (2021)

1) Un percorso di conoscenza. Lo strumento di un attore è il proprio corpo: il respiro, la voce, il modo di muoversi e camminare… Dunque devi conoscere lo strumento, che non è solo la voce in corpo, ma anche l’emotività, i tic..
2) L’acquisizione delle pratiche, il mestiere. Io non credo al talento, o meglio non credo che basti il talento per diventare dei grandi attori. Credo nel duro lavoro, perché è lavoro. Esistono metodi, pratiche ed esercizi per allenare il corpo e la parte emotiva, e farla riconoscere in scena: ci sono persone che quando piangono non sembra che stiano piangendo e se in scena piangono in quel modo nessuno si riconosce in quel gesto. Si tratta dunque di saper mediare, per trovare un compromesso tra il mio modo di piangere e un modo di piangere universalmente riconosciuto da chi guarda.
3) L’attore deve avere il coraggio di mettersi a nudo, di spogliarsi per mettere tutto quello che ha dentro il suo lavoro. Non ha diritto di tenerselo per sé. Questo non vuol dire raccontare i fatti propri, ma pescare da quell’area profonda che la conoscenza ha aiutato a individuare e donarlo al pubblico. Però guai se è l’attore a emozionarsi, perché questo può portare a una chiusura del pubblico.

Alla fine della sua vita Konstantin Stanislavskij iniziò a ragionare in un altro modo sul rapporto tra corpo ed emozione. Se un’emozione provoca una reazione fisica, un gesto, allora può essere vero anche il contrario. I gesti che facciamo, le posture che assumiamo influiscono il nostro stato d’animo, lo plasmano. Quindi un attore o un’attrice, per arrivare a evocare e trasmettere un’emozione, può lavorare sul gesto, sulla postura. Lungo questo percorso è possibile arrivare a un’altra zona di verità. Spingendosi ancora oltre, so può arrivare a un’esperienza che ricorda la trance, una dimensione altra della percezione.
In questo senso, il lavoro di Jerzy Grotowski con gli attori del Teatr Laboratorium, a partire da un intenso lavoro fisico (il training) potrebbe essere considerato uno sviluppo dell’intuizione di Stanislavskij.

Apocalypsis cum Figuris a San Giacomo in Paludo, 1975

Chi dice “Io”

Il realismo, con la sua attenzione al dettaglio, e la fatica che trasfigura i performer, non sono gli unici strumenti che permettono di arrivare alla verità scenica. Ce ne sono anche altri, usati assai spesso sul palcoscenico. Perché Risveglio di primavera non è affatto uno spettacolo realista, non c’è una scena cinematografica dove si vedono le casette, i giardinetti, la scuole dei ragazzi. Lo spazio è vuoto, i luoghi dove si svolge l’azione ce li dobbiamo immaginare.

“Non ci sono costumi, non ci sono praticamente effetti sonori o musica, solo rumori, poche luci. Sembra un palco nudo. E mi colpisce che una scena stilizzata come questa sembri vera. E alcune scene colpiscano di più che se fossimo stati al cinema a vedere uno stupro. C’è un patto nel senso, che l’attore dev’essere più vero del vero, perché altrimenti io non ci credo. E la verità non è il realismo.”

Oltretutto la vicenda ha una cornice, con un narratore che fa da tramite e ci cala nella storia. In teoria questo filtro dovrebbe allontanare dalla verità scenica: ma la realtà scenica e la verità scenica non necessariamente coincidono.
Lo stesso accade anche quando un performer sale sul palcoscenico e dice “Io…”

Oscar De Summa, L’ultima eredità (2021)

“Oscar De Summa porta in scena uno spettacolo che parla di sé e della propria vita a proposito della scomparsa del padre. La verità è dichiarata, anche se magari romanzata, distorta, fantasiosa, però lo spettacolo nasce da una verità.”

Anche in Risveglio di primavera gli attori raccontano qualcosa di sé, parlando in prima persona: portano in scena dei frammenti della loro esistenza, forse ricordi veri, forse sono solo invenzioni…
E’ il grande tema dell’autobiografia e dell’autofinzione: molti artisti visivi, narratori e performer partono dalla loro vita, dalle loro esperienze: ma non possiamo sapere se quello che ci viene raccontato è vero o no. O meglio, ci viene il dubbio che non sia vero, perché sappiamo che anche noi, quando ci raccontiamo, dimentichiamo un episodio, abbelliamo un particolare, inventiamo una frase a effetto…

Franco Branciaroli è Medea regia di Luca Ronconi

Ma ci sono anche registi che hanno lavorato in maniera opposta. Per esempio un regista come Luca Ronconi insisteva sul fatto che per creare il personaggio un attore dovesse diventare altro da sé e dunque ha chiesto per esempio a quattro attrici di interpretare quattro maturi docenti universitari (in Ignorabimus) o a Franco Branciaroli di calarsi nei panni di Medea. E’ la ricerca di un altro tipo di verità, più obliqua e forse proprio per questo più teatrale.
Un esempio è l’Hamlet con la regia di Antonio Latella, dove il protagonista era interpretato da un’attrice, Federica Rosellini (ma ci sono precedenti famosi, a cominciare da Sarah Bernardt).

Federica Rosellini in Hamlet (2020), regia di Antonio Latella (Foto © Masiar Pasquali)

“A me incuriosisce molto vedere l’attore scisso dal personaggio, mi viene voglia di vedere spettacoli così, soprattutto per i giochi giovane-vecchio o maschile-femminile, proprio perché mi piace vedere quanto è credibile quel personaggio. E’ anche un modo per vedere le trovate del regista.”

“Invece, per quanto riguarda l’attore maschio che fa la parte di una donna, io sono selettiva: dev’essere bravo. Faccio fatica a digerirlo, ma se è bravo mi stupisco.”

Molti spettatori che hanno visto l’Amleto al femminile di Latella, all’inizio fanno caso che in realtà Amleto è un maschio, ma poi non ci pensano più.

“E’ un passaggio successivo. Questa ricerca del maschile o del femminile nell’altro genere diventa appunto una ricerca e quindi in quanto tale diventa interessante. Poi un altro spettacolo dove ho percepito la verità era uno spettacolo di Giuliano Scabia che portava in scena un gruppo di ex malati di mente, che erano veramente quella cosa lì: e ha funzionato, è stato bellissimo, però forse è un’altra cosa rispetto al teatro…”

In alcuni dei movimenti più significativi della storia del teatro, le donne non potevano salire in scena. Nell’antica Grecia o nella Londra elisabettiana, ma anche in varie tradizioni come il No e il Kabuki giapponesi, uomini o ragazzi dovevano interpretare tutte le parti femminili.

Katsukawa Shun’ei, L’attore Nakamura Noshio II nei panni della cortigiana Okaru (1795)

La questione è tornata di attualità, perché oggi sono attivi diversi movimenti che sostengono per esempio che la parte di un trans deve essere interpretata solo da un trans, o quella di un nero solo da un nero (evitando assolutamente il black face, ovvero l’attore bianco che si trucca il volto di nero, in un travestimento ritenuto oltraggioso). Si tratta di evitare l’appropriazione culturale. Il maschio bianco che si appropria di un ruolo e di un’esperienza che non gli appartengono (e per di più ruba il lavoro a colleghi che hanno più competenze di lui).
Da un lato ci si chiede come sia possibile a un attore incarnare un’esperienza che gli è estranea, dall’altro c’è la consapevolezza che il teatro è proprio questo, “diventare altro”, dare corpo e voce a esperienze che ci sono estranee, lontane geograficamente, storicamente, culturalmente. O magari diventare addirittura animale, pianta, pietra…

Il teatro documentario

C’è anche un’altra strada, che l’arte conosce da secoli.

“Parlare di cose vere, come fa il teatro di narrazione. Per esempio il Vajont di Paolini.”

E’ quello che viene anche chiamato “teatro documentario” o “teatro di documentazione”. Un teatro che mostra la realtà. O meglio, ci aiuta a scoprire aspetti della realtà che non conoscevamo, dimenticati, rimossi, censurati. Che cosa c’è di più vero della realtà? Ma verrebbe anche d chiedersi: perché abbiamo bisogno della finzione per conoscere la realtà?
Spesso autori e registi, per dare maggiore forza al racconto, utilizzano e mostrano documenti, come la foto della diga o il telegiornale dell’epoca. L’obiettivo del teatro documentario è portare in scena la verità, anche se si può barare, come su qualunque altra cosa.

La rottura della quarta parete

E poi?

“Mangiare.”

Sono molti gli spettacoli dove si condivide il cibo, dove riemerge una dimensione rituale. Nutrirsi è un fatto vero. Nel Teatro da mangiare del Teatro delle Ariette, che è autofiction, ci sentiamo raccontare la storia della compagnia mentre Stefano, Paola e Maurizio preparano le tagliatelle e alla fine del racconto gli spettatori mangiano intorno al grande avolo-scena. La condivisione del cibo accompagna alla chiacchierata finale con i commensali e gli attori.

Teatro delle Ariette, Teatro da mangiare

Anche la presenza sulla scena di animali e di bambini, con l’imprevedibilità dei loro comportamenti, può creare effetti di verità scenica.

“Uscire dal teatro, scegliere altre location.”

Altro momento molto interessante dello spettacolo di sabato scorso è stato quando i ragazzi in scena parlavano con i ragazzi in platea: quel tipo di comunicazione ha toccato molto spesso il punto di vista dello spettatore e quel momento lì per noi che non eravamo né i ragazzi in scena né ragazzi in platea è stato un momento di grande verità molto potente. In questo caso si tratta di abbattere la quarta parete, di uscire dallo spazio protetto della scena.
E quando si esce dai teatri? Se lo spettacolo porta in giro per la città o in un bosco, tutto quello che avviene lì attorno è vero. Il paesaggio, ma anche le altre presenze umane o animali.

Rimuni Protokoll, Remote Milano

La comunità

Frank Wedekind, Risveglio di primavera, regia di Gabriele Vacis (2023) (ph. Andrea Macchia)

“Istantanea sentimentale è l’espressione che mi ha accompagnato per tutto lo spettacolo. è come se ci fosse una differenza tra un filmato che racconta una storia dall’inizio alla fine con tutti passaggi logici, e ti isola un momento particolare e ti fa vedere la verità di quel momento, la verità sentimentale di quello stato d’animo, di quel vissuto che non ha bisogno di una rappresentazione. Non ho bisogno di sapere se la ragazza è stata stuprata, non importa, ma importa quel vissuto che viene rappresentato in un attimo. Come il contrasto con la mamma, che oggi non sarà più sulla lunghezza della gonna, ma è il contrasto che è eterno.”

Stiamo parlando della scena in cui la giovane protagonista Verna, alla quale non è stato spiegato come si fabbricano i bambini, viene stuprata da un suo coetaneo. In quella scena, oltre al “colpevole”, un ragazzo che ne sa quanto lei di come si fanno i bambini, Verna viene simbolicamente stuprata anche da tutti gli altri maschi del gruppo. Nel testo di Wedekind questo stupro del branco non c’è, ma è un modo per dire che la violenza che ha subito quella ragazza è quella a cui possono essere sottoposte altre persone in una società patriarcale. E’ una scena che ha un forte valore simbolico e ideologico. Perché appare sentimentale?

“Perché inquadra uno stato d’animo, un sentimento che invece di essere raccontato a parole è vissuto nei corpi e racchiuso in un’immagine.”

L’atto di un singolo diventa un atto corale e sociale. Il teatro ha la potenza di trasformare un’azione in un simbolo per farla diventare un fatto sociale. Un altro livello di verità scenica che non riguarda più un individuo, ma la collettività.

Il link
Oliviero Ponte di Pino, Livelli di realtà




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