Quando le statue stanno ad ascoltare
Meredith Monk e John Hollenbeck in Duet Behavior 2024 al Teatro Olimpico di Vicenza percussioni
Quando calano le luci – non il buio: al Teatro Olimpico di Vicenza tutti si vedono sempre, spettacolo a sé stessi, da cinquecento anni – ed entra questa indianina con le trecce, ottantadue anni (qualcuno ci cascò quando Meredith Monk, newyorchese doc, mezzo secolo fa si presentò alla Biennale di Ronconi come “ebrea Inca”), viene da chiedersi: chissà quanto ci metterà, così piccola e fragile, a fare i 17 metri – la metà del frons scenae – che la separano dal microfono.
Il tempo di un’ovazione, è subito la risposta: che battezza così questo “prologo” del LXXVII Ciclo degli Spettacoli Classici nel Teatro Olimpico di Vicenza – “Coro”, il tema scelto quest’anno dai nuovi ispirati direttori artistici Marco Martinelli ed Ermanna Montanari.
Con buona pace delle severe statue degli accademici olimpici, Valmarana Calderari Orgiano Loschi, sponsor del primo teatro coperto al mondo, marmotogati ad aeternum da Palladio (ah, gli architetti…), e di Ercole e di tutte le sue sovrastanti interminabili fatiche, la Creatura omaggia la lingua madre del pubblico con un prammatico “Grazie mille” – la ‘l’ arrotata, come solo gli americani e i veneziani di Castello – e qualche parola nella sua, di lingua. Poi con imperiosa naturalezza da quel piccolo corpo per sempre bambino sgorgano i suoni del mondo. L’inizio del concerto sembra lasciarsi decidere dalla festa (unica replica italiana), dall’orgasmo degli astanti, dal monumento, dall’imbarazzo delle statue per la prima volta straniere a casa loro: ma non è anche questo un modo di rendere omaggio all’unicità del Teatro Olimpico? Una volta tanto, lasciare che taccia?
Per la cronaca, (si) succedono così composizioni vecchie – Wa-lie-oh e Insect Descending (da Songs from the Hill, 1975-1976), Click Song #1 (da Light Songs, 1988 seguita da un’aggiunta strumentale), Madwoman’s Vision (da Book of Days, 1988), Little Breath Motor 2 (2000) – e più recenti, in corpo a corpo con ostinate epifanie di testo – Happy Woman (da Cellular Songs, 2017), Simple Sorrow (2020), Harp and Bow (1968/2020); fino a una preghiera laica, un antimanifesto inusitato per esplicitezza, May the Dark Ignorance of Sentient Beings Be Dispelled (2022), cofirmato con John Hollenbeck e indirizzato agli dei della fenomenologia: quelli che non esistono.
John, coppola in testa, la accompagna da una postazione fantascientifica, una macchina dei suoni frutto di un assemblaggio di batteria, xilofono e percussioni worldwide incoronato di microfoni, dall’apparenza impressionante, inversamente proporzionale alla delicatezza delle sonorità che produce. Avesse le luci di ingombro, somiglierebbe a una raffineria, che però produce suoni. Duet behavior 2024, si intitola del resto, lo spettacolo.
Meredith così si racconta, credo, ripercorrendo mezzo secolo di esplorazioni di tutto ciò che la voce non può non essere: da quando i suoni erano per lei cose, gesti, sillabario tanto educativo quanto irriproducibile di una antonomastica Education of the Girlchild; a quando quegli stessi suoni-cose le sono ri-suonati ambiente, landscape, nell’inconsapevole narcisistico “rumore” degli insetti, così beffardamente simile al brulicare umano; o privata segreta stralunata profezia, differenza dentro, imparagonabile e dunque più vera (quella che qualcuno ancora chiama pazzia); o infine trait d’union, “ghiandola pineale” fra anima e corpo, nell’ascolto del respiro, che nella sua musicalità oggettiva, nella sua qualità di ritmo (destino) consente l’approdo all’unica possibile accettazione di sé (“savoir qu’il y a pour l’âme une issue corporelle, permet de rejoindre cette âme en sens inverse; et d’en retrouver l’être, par des sortes de mathématiques analogies”; sarebbe davvero piaciuto ad Artaud).
Quanto alle composizioni più recenti – del periodo della consacrazione del mondo musicale, della collaborazione con Hollenbeck – ma sì, a questo punto anche la parola diventa occasione di suono: tanto meglio, paradossalmente, quando è affermazione secca, finanche ideologica, slogan, vox clamans in deserto; perché allora la sua unica “verità” possibile riemerge da un altrove che non ha più niente a che fare (non l’ha mai avuto) con la sintassi e con la volontà che la pronuncia e ci si illude. Come in Beckett, alla fine:
Vladimiro Allora andiamo?
Estragone Andiamo.
Non si muovono.
Così “I’m a happy woman”, io sono una donna felice, ha senso solo (perché) in un semplice portamento musicale, in una minimale ripetizione, si sciolgono come i capelli di una treccia tutte le sfumature dei suoi possibili, contrari compresi: lei è “felice” (“onesta”, “bugiarda”, “morente”…) solo se in ognuno di questi attributi ci sono già – da sempre – tutti gli altri; e tutte le altre che li pronunciano. Insomma solo quando il dire si fa teatro.
È così che ogni canzone – non si può fare a meno di chiamarla così, ma pensando più a come lo direbbe Francesco d’Assisi piuttosto che Giuseppe di Busseto – si fa drammaturgia prima delle (o senza, chissenefrega) parole; azione e non dizione, atto e non detto (infine: nondetto).
Più la ascolto, e più mi pare che Meredith sia stata, sia ancora per il canto quello che Pina Bausch rappresenta per la danza: la pioniera di una liminalità – epocale, nel piccolo mondo antico dei teatranti, ma forse non solo – che non significa contestazione dei generi, romanticume sinestesico, neoformalismo, ricerca di una “seconda natura”; ma proprio di una prima natura, semplice, unica, della necessità del quotidiano, di una poesia del banale, e con questo, in fondo, dell’unico possibile sentimento di dignità nell’essere al mondo: “le théâtre n’est pas cette parade scénique où l’on développe virtuellement et symboliquement un mythe mais ce creuset de feu et de viande vraie où anatomiquement, par piétinement d’os, de membres et de syllabes, se refont les corps, et se présente physiquement et au naturel l’acte mythique de faire un corps”, direbbe sempre Artaud, pour en finir avec le jugement de Dieu.
Non riesco a non riandare agli Ex Cantieri Navali della Giudecca, quell’ottobre del 1975, quando in quella fantastica edizione ronconiana della Biennale, fra il Living di ritorno dall’esilio, il primo Odin e l’ultimo Grotowski, e poi Scabia angelo/diavolo, Serban Chaikin Mnouchkine Brook Wilson e tutto il mondo teatrale, tra l’Eredità di Caino e L’Age d’Or, vedevamo in quei suoni danzati il ritorno a una qualche rifiutata/cercata Casa del padre (che sia anche per quello che Meredith aveva chiamato The House la sua compagnia?).
Non riesco neanche a dare peso alla standing ovation finale; mi ci unisco meccanicamente,
Continuano a suonarmi in testa “fratello sole, sorella luna”: penso alla musica che avrebbe dovuto accompagnare una religione della fratellanza, anziché quella del paternalismo.
Chissà se Francesco sapeva di essere un minimalista.
Duet Behavior 2024
Meredith Monk voce, pianoforte, arpa ebraica, scacciapensieri
John Hollenbeck percussioni
Eli Walker sound designer
Teatro Olimpico di Vicenza
1 maggio 2024 (prima nazionale, serata unica)
77° Ciclo di Spettacoli Classici al Teatro Olimpico di Vicenza
(direzione artistica di Ermanna Montanari e Marco Martinelli)
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