I teatri diventano “monumento nazionale”. Evviva?
La proposta di legge "Dichiarazione di monumento nazionale di teatri italiani" torna in Parlamento il 3 aprile 2024
Decine, forse centinaia di teatri storici in tutta Italia stanno per diventare “monumento nazionale”. Il mondo dello spettacolo dal vivo dovrebbe esultare, perché finalmente si riconosce che i teatri “rivestono un valore testimoniale o esprimono un collegamento identitario o civico di significato distintivo eccezionale”, come recita l’articolo 10 del Codice dei Beni Culturali. Si dovrebbe pensare che, a partire da questo riconoscimento, possa finalmente crescere l’investimento pubblico nel settore.
Invece nell’ambiente tutto tace, mentre in Parlamento se ne discute con toni accesi, e se ne riparlerà il 3 aprile 2024. Il dibattito parlamentare ruota intorno alla proposta di legge presentata alla Commissione Cultura della Camera da Fratelli d’Italia, che intende dichiarare monumenti nazionali alcuni teatri storici e ottocenteschi italiani.
Nelle scorse settimane, molte testate locali hanno salutato con grande soddisfazione l’inserimento nella prestigiosa lista del teatro della loro città, suscitando l’irritazione degli esclusi.
Secondo l’art. 1 della proposta di legge A.C. “Dichiarazione di monumento nazionale di teatri italiani”, che deriva dal testo unificato di varie proposte di legge (C. 982 Vinci, C. 1214 Foti, C. 1347 Giovine, C. 1584 sen. Zanettin, approvata dal Senato, e C. 1639 Amorese e C. 1685 Loizzo, C. 1677 Messina, C. 1754 Andreuzza) il riconoscimento doveva andare a 46 teatri:
il Teatro lirico «Giuseppe Verdi» di Trieste;
il Teatro «Gaetano Donizetti» di Bergamo;
il Teatro Grande di Brescia;
il Teatro Sociale di Como;
il Teatro alla Scala di Milano;
il Teatro Regio di Torino;
il Teatro municipale di Casale Monferrato (Alessandria);
il Teatro Carlo Felice di Genova;
il Teatro comunale «Mario Del Monaco» di Treviso;
il Teatro La Fenice e il Teatro Malibran di Venezia;
il Teatro «Carlo Goldoni» di Venezia;
il Teatro Olimpico di Vicenza;
il Teatro comunale di Bologna;
il Teatro municipale di Piacenza;
il Teatro Regio di Parma;
il Teatro Farnese di Parma;
il Teatro municipale «Romolo Valli» di Reggio Emilia;
il Teatro Petrarca di Arezzo;
il Teatro Signorelli di Cortona;
il Teatro del Maggio musicale fiorentino di Firenze;
il Teatro Verdi di Firenze;
il Teatro comunale del Giglio di Lucca;
il Teatro Guglielmi di Massa;
il Teatro dei Rassicurati di Montecarlo (Lucca);
il Teatro Verdi di Pisa;
il Teatro Manzoni di Pistoia;
il Teatro dei Rinnovati di Siena;
il Teatro «Ventidio Basso» di Ascoli Piceno;
lo Sferisterio di Macerata;
il Teatro Morlacchi di Perugia;
il Teatro «Caio Melisso» di Spoleto;
il Teatro comunale «Nazzareno De Angelis» dell’Aquila;
il Teatro D’Annunzio di Latina;
il Teatro Flavio Vespasiano di Rieti;
il Teatro Argentina di Roma;
il Teatro Valle di Roma;
il Teatro dell’Unione di Viterbo;
il Teatro di San Carlo di Napoli;
il Teatro municipale «Giuseppe Verdi» di Salerno;
il Teatro Petruzzelli di Bari;
il Teatro comunale «Niccolò Piccinni» di Bari;
il Teatro Politeama di Catanzaro;
il Teatro comunale «Alfonso Rendano» di Cosenza;
il Teatro comunale «Francesco Cilea» di Reggio Calabria;
il Teatro Massimo «Vincenzo Bellini» di Catania;
il Teatro Massimo di Palermo.
Non sorprende che il 18 marzo 2024, di fronte a una lista così sgangherata, la proposta di legge si sia incagliata: anche perché sono troppi gli orgogli locali ignorati o dimenticati, in Comuni amministrati sia dalla destra sia dalla sinistra. Tra l’altro, la denominazione di “monumento nazionale”, come spiega il Servizio Studi della Camera dei Deputati, “non costituisce verifica o dichiarazione dell’interesse culturale ai sensi degli articoli 12 e 13 del Codice dei Beni Culturali”. A partire dal 2017 sono state approvate diverse leggi che hanno conferito il riconoscimento di monumento nazionale: vedi la Casa Museo Matteotti in Fratta Polesine, il “Ponte Vecchio di Bassano”, le vie urbane d’acqua Bacino di San Marco, Canale di San Marco e Canale della Giudecca di Venezia o l’ex campo di prigionia di Servigliano. Ma resta da precisare meglio il rapporto tra “beni di interesse culturale” e “monumenti nazionali”, anche per evitare equivoci.
Chi conosce il sistema teatrale italiano sa che nella lista dei 46 sono finite realtà assai diverse, sia per la loro storia sia soprattutto per la loro attività. Si incontrano sedi di Fondazioni Lirico-Sinfoniche e di Teatri di Tradizione, nessun Teatro Nazionale, un paio di TRIC, e molti teatri che non hanno una tradizione produttiva ma si limitano a ospitalità più o meno qualificate (per non parlare del Teatro Valle di Roma…). Si trovano teatri dove di fatto è impossibile allestire uno spettacolo, perché troppo delicati e fragili, accanto a teatri di recente costruzione (o ricostruzione), il cui valore “monumentale” non sta dunque nel prestigio e nell’antichità dell’immobile, semmai nell’attività che vi si svolge.
In parallelo, proprio in questi giorni il sottosegretario Piermarco Mazzi è al lavoro sul nuovo Codice dello Spettacolo e sulla riforma del FUS, ovvero sulla norma che deve spiegare gli obiettivi del sostegno pubblico allo spettacolo dal vivo e sulle modalità con cui il Ministero della Cultura sostiene queste attività. Ed è curioso che due percorsi così importanti per la vita culturale del paese e per tutto il teatro italiano viaggino su binari paralleli, senza alcun coordinamento.
Il provvedimento sui monumenti nazionali, sponsorizzato dal presidente della Commissione Cultura della Camera Federico Mollicone (Fdi), rischiava di essere irricevibile perché non erano chiari i criteri di inclusione (basta la telefonata di un parlamentare o di un sindaco?) e dunque di esclusione. Ma ha senz’altro qualche merito: dà valore alla presenza dei teatri nel territorio, rende più difficile sventrare edifici storici per trasformarli in supermercati o showroom (anche per questo motivo nella lista andrebbe senz’altro inserito il Teatro Eliseo di Roma), e naturalmente può aiutare a convincere amministrazioni locali, sponsor e mecenati a sostenere lavori di restauro ed efficientamento.
Se non affronta alcuni nodi chiave, la legge rischia di restare un’inutile patacca, un pretesto per articoli sulla stampa locale che inorgogliscono amministratori e cittadini: il bel teatro che non finanziano (e frequentano di rado) è un “monumento nazionale”!
Il primo nodo è ovviamente l’impegno finanziario necessario per garantire la tutela e la conservazione del bene, e magari sostenere le attività che ospita (anche se la prima compilazione della lista non pare esente da logiche elettorali e clientelari). Se le parole hanno un significato, l’aggettivo “nazionale” dovrebbe implicare un sostegno dello Stato per preservare e valorizzare questi beni, che in buona parte sono di proprietà dei Comuni: entra in gioco ancora una volta il delicato e irrisolto equilibrio tra Stato, Regioni e Comuni in materia di beni e attività culturali (vedi il dossier di Ateatro Le politiche regionali per lo spettacolo dal vivo: istruzioni per l’uso).
Il secondo aspetto riguarda il rapporto tra i beni architettonici e le attività che ospitano, che in questo caso è particolarmente delicato. I teatri storici – grandi e piccoli – sono edifici di grande bellezza e di notevole valore architettonico. Sono da sempre elemento identitario delle nostre città e dei nostri borghi, e caratterizzano il paesaggio urbano. Ma soprattutto sono – o dovrebbero essere – un presidio culturale e dunque il centro pulsante di una comunità, uno spazio vivo il cui la polis si rappresenta e si riconosce, nei suoi valori ma anche nelle contraddizioni che la attraversano. Per questo il teatro è dai tempi dell’antica Grecia un elemento indispensabile della democrazia: perché porta sulla scena le diverse soggettività che popolano la comunità (anche quelle che fino a quel momento erano invisibili) e consente il dibattito e il confronto tra soggettività, interessi, visioni, identità differenti. In alternativa, può essere spettacolarizzazione e glorificazione del potere e “arma di distrazione di massa”.
Ma il teatro, nelle città e nei paesi italiani, è stato prima di tutto un formidabile strumento di formazione e di espressione nel quale la collettività si è riconosciuta, anche nelle contraddizioni che la attraversavano: dalla Commedia dell’Arte a Verdi, da Goldoni a Alfieri, da Eduardo a Fo, dai grandi attori dell’Ottocento al Piccolo come “teatro d’arte per tutti” di Strehler e Grassi, fino ai narratori di questi anni, nelle sue punte alte è sempre stato un’arte di profondo impegno civile. Non solo e non tanto le grandi sale dei centri metropolitani: quanti sono i teatri comunali e i teatri sociali, edificati con il contributo dei cittadini, che hanno costituito per decenni (e spesso ancora costituiscono) l’unico presidio culturale del borgo che li ospita?
Allora quale deve essere il corretto rapporto tra il monumento, con la sua aspirazione all’eternità, e un’attività come lo spettacolo dal vivo, che è per sua natura effimera? Il teatro è una tradizione viva: se ci si limita a conservare e musealizzare il passato, questa tradizione muore, e anche l’edificio perde il suo valore. Come sa chi si occupa degli archivi teatrale, le scene, i costumi, gli attrezzi, gli oggetti, per mantenere il loro valore devono essere usati. E questo vale a maggior ragione per i teatri.
“Monumentalizzare” i teatri rischia di privilegiare il bene, il patrimonio, rispetto all’attività e al rapporto con la comunità che la ospita e sostiene.
I teatri non sono begli edifici da ammirare “per l’edificazione morale degli spettatori”, come pensavano i primi umanisti, perplessi di fronte alla Poetica di Aristotele e alle sue riflessioni sul teatro, dopo secoli in cui lo spettacolo classico era stato dimenticato. Non sono fatti per essere fotografati dai turisti nelle visite guidate, con gli ori e i velluti rossi. Devono essere dei luoghi vivi, aperti alla città e alle sue esigenze. Oltretutto i teatri si conservano meglio quando vengono usati, e dunque sono oggetto di una costante manutenzione.
Il 3 aprile 2024 la Camera affronterà una nuova versione del testo di legge: è facile immaginare che la lista dei monumenti si allungherà a dismisura sulla base delle richieste di parlamentari e sindaci (si parla di 400 teatri), anche se il provvedimento dovrebbe dare al ministro della Cultura la possibilità di allungarla anche in futuro (speriamo con qualche criterio di buon senso).
Una politica culturale degna di questo nome dovrebbe usare questa leva per riempire le sale di spettacoli, di colori, di suoni, di vita. Per renderli luoghi attraenti, aperti e accoglienti soprattutto là dove l’offerta culturale è più scarsa. Quindi la legge non dovrebbe limitarsi alla salvaguardia degli edifici, ma anche puntare a valorizzare la loro attività, in relazione alla loro funzione civile.
Forse questa riflessione sui teatri storici può essere un’occasione preziosa. Dal percorso sulle funzioni e sulla gestione dei teatri comunali e degli spazi ibridi, sui quali sta lavorando in questi anni Ateatro, emerge che i problemi sono numerosi (non solo la scarsità delle risorse), ma ci sono anche tante opportunità (e diverse buone pratiche) per far sì che i teatri siano monumenti per la democrazia, vivi e vissuti dai cittadini.