A teatro nessuno è straniero | Incontrare Familie Flöz e trovare le parole per raccontare uno spettacolo senza parole
27.01.24 | Dr. Nest al Teatro Menotti-Perego: un appuntamento internazionale per un gruppo transnazionale
Una serata al Teatro Menotti-Perego
Per il terzo appuntamento del progetto A teatro nessuno è straniero la scelta ricade su uno spettacolo internazionale in scena al Teatro Menotti-Perego di Milano, con Familie Flöz e le loro maschere, che incuriosiscono il gruppo fin dalla presentazione dello spettacolo alla Scuola di lingua e cultura italiana di Sant’Egidio.
La compagnia berlinese è di casa a Milano e al Teatro Menotti-Perego: un pubblico affezionato apprezza il linguaggio dei loro spettacoli, tutti senza parole, caratterizzati da partiture di azioni fisiche e una drammaturgia costruita sulle maschere e sulle/gli interpreti che le indossano e danno loro vita. Sono le maschere a decidere i personaggi e una volta che maschera e interprete si incontrano, allora ecco che è possibile iniziare a scrivere la storia. Questo genere di spettacolo senza parole permette di scrivere una e tante storie, dove dettagli, sfumature, visioni vivono anche dell’interpretazione del pubblico.
Dr. Nest è una produzione del 2019 che continua con successo la sua tournée internazionale anche in Italia. Il trailer dello spettacolo presenta i personaggi ed è già molto significativo per far entrare il gruppo nelle atmosfere dello spettacolo.
Il 27 gennaio 2024 la serata inizia con un aperitivo conviviale nel rinnovato foyer del Menotti-Perego, perché vedere insieme gli spettacoli offre anche la possibilità di incontrarsi nei teatri della città per conoscerli, per abitarli e dare vita a una comunità gioiosa che insieme trascorre sì un momento di formazione, ma anche un tempo di svago che accompagna l’esperienza teatrale. Sono questi spazi di socialità che permettono di costruire, in un secondo momento, le occasioni di approfondimento e discussione in un clima di conoscenza reciproca.
Al Teatro Menotti il gruppo viene accolto con attenzione e cura, dall’arrivo al congedo successivo allo spettacolo e all’incontro con la compagnia. La sala è gremita, tutti i posti sono assegnati, la scena è illuminata, gli attori e l’attrice sono sul palco, indossano una tuta bianca che ricorda i vecchi pigiami di una volta… uno di loro cammina sulla testa del pubblico, risalendo l’intera platea con l’obiettivo di controllare e obliterare i biglietti per lo spettacolo. Un gioco fisico, sonoro, ludico, che si ripete nell’attesa dell’arrivo in sala di tutto il pubblico. Poi lo spettacolo inizia e per 80 minuti ci facciamo accompagnare nelle atmosfere di Villa Bianca, una casa di cura dove incontriamo ospiti con diverse patologie, seguiti da un medico sopra le righe e da un’infermiera solerte e che conosce bene i suoi pazienti. Tra gli ospiti c’è anche un nuovo arrivato, un medico, il Dr. Nest, il personaggio che dà il titolo allo spettacolo.
È lì per sostituire un collega? È lì perché crede di essere un dottore, ma non lo è? Il camice che indossa e, che nella scena centrale gli viene sfilato di dosso e diventa una camicia di forza, cosa rappresenta? È lì per curare o per curarsi?
Dalla visione alla narrazione collettiva: un esperimento
Alle domande e agli interrogativi che la drammaturgia e la regia dello spettacolo ci lasciano a fine serata, diamo risposta domenica 18 febbraio nell’appuntamento dedicato al confronto di gruppo. In questo appuntamento sperimentiamo un laboratorio di scrittura, con l’obiettivo di scrivere coralmente delle pagine che possano raccontare l’esperienza di visione a teatro e il momento di discussione a scuola. Le/i partecipanti, divisi in quattro gruppi, hanno a disposizione delle pagine con degli incipit, degli spunti di partenza, per comporre delle frasi intorno alle quali sviluppare i contenuti delle loro suggestioni e riflessioni.
L’idea è quella di partire dalle risposte individuali – ogni partecipante compone il suo contributo in forma orale, ma prendendo appunti scritti, utili a costruire pensiero e punti di vista, per condividere poi i contenuti di ciascuno con tutto il gruppo. I contributi vengono raccolti da una persona che fa da referente e portavoce del gruppo, con il compito di operare una sintesi e riportarla a tutte le persone coinvolte nel laboratorio.
Da quell’esperimento è nata la restituzione generale dello spettacolo. La narrazione collettiva dell’esperienza tiene conto dei contributi di tutte le persone presenti al laboratorio. Persone di diverse nazionalità (tutti i cinque continenti sono rappresentati nel gruppo) e di diverse età, accomunate dalla condivisione della lingua italiana. Ho cercato di legare insieme le frasi nella loro forma originale e gli appunti consegnati, cercando di rimanere il più possibile aderente all’esperienza di storytelling e di scrittura collettiva dell’esperienza.
L’esperienza dello spettacolo nelle parole del gruppo
Il dottor Nest: medico o paziente?
“È la storia di un medico, il Dr. Nest, che si sveglia in una casa di cura chiamata Villa Blanca. È una storia di ricordi: i ricordi del protagonista e quelli dei pazienti della casa di cura, ricordi della vita passata, un po’ tristi e un po’ allegri.
È una storia raccontata senza usare una parola che ci ha permesso di interpretare quello che abbiamo visto e sentito.
Per noi il Dr. Nest è un uomo che dopo essere stato dottore, scopre di essere paziente. O che si è talmente immedesimato con i suoi pazienti da diventare anche lui un paziente. Il confine fra essere medico ed essere paziente è labile e questo aspetto ci parla della nostra vita: un giorno siamo persone sane ed un altro giorno no.
C’è un cambiamento di condizione nello spettacolo che ci riguarda.”
“Lo spettacolo parla di salute mentale, del rapporto tra normalità e illusione. Presenta diverse tipologie di medici e diverse tipologie di pazienti.
Il protagonista, il Dr. Nest non usa metodi tradizionali per curare i pazienti, non prescrive medicinali, ascolta i pazienti e i loro bisogni. Per esempio, cura un uomo che trema come una foglia, nervoso e spaventato, con gli abbracci; cura un uomo che ha difficoltà a vestirsi e si incastra suonando un tamburello; fa finta di credere a una donna che crede di avere un bambino, ma non lo ha perché tra le braccia ha solo un pezzo di spugna arrotolato.”
Si dimentica tutto ma non il proprio trauma
“Ognuno di noi potrebbe essere uno dei pazienti, anche se pensiamo di essere normali. Questo perché nella fragilità dei personaggi ci possiamo riconoscere. Il Dr. Nest non perde mai la capacità di sentire delle emozioni nei confronti dei pazienti che hanno un passato arduo, complesso e doloroso. La loro vita non è triste, perché per essi, anche quelle che noi riconosciamo come patologie, sono la normalità. Questi personaggi, così come le persone, possono dimenticare la loro vita, ma non dimenticano mai il loro trauma.”
“Nella scena finale il dottore mette a letto una paziente, che nella mente del dottore forse diventa sua madre e subito dopo, nella scena successiva, nello stesso letto troviamo proprio il dottore, l’uomo senza più il camice, ricoverato, con una donna a fargli visita… forse ancora una volta la madre o la moglie? La stessa donna che all’inizio dello spettacolo lo saluta sulla porta di casa, mentre il treno lo aspetta per far iniziare il viaggio della sua vita.”
“Lo spettacolo ci ha fatto ricordare dei momenti di quando eravamo bambini ed eravamo malati, ci ha fatto pensare ai nonni malati, quando avevano problemi di salute o alle persone anziane nelle case di cura che non hanno parenti o familiari che li vanno a trovare.
Una delle pazienti ricoverate, per esempio, lavora a maglia, senza essere perfettamente consapevole di ciò che fa. Poi passa il gomitolo al Dr. Nest e questa azione ci fa pensare che siamo tutti uniti da un filo.”
Raccontare senza parole, alla scoperta delle maschere
“Lo spettacolo è senza parole. Tuttavia si capisce comunque tutto. Ci colpisce la potenza espressiva delle maschere di raccontare una storia e di esprimere tante emozioni. Ogni maschera rappresenta un personaggio. Ci sono personaggi allegri come ad esempio il paziente che suona sempre i tamburelli, e personaggi tristi, come la donna che culla un bambino che è un pezzo di stoffa arrotolato. Le maschere danno vita ai personaggi e, superata la prima sensazione di staticità, lo sguardo fisso della maschera diventa mobile e sembra cambiare espressione. Da l’idea del carattere del personaggio: per esempio, la paziente che si aggira per la casa di cura facendo la maglia è triste, dà l’impressione di aver perso qualcuno. O ancora, la maschera del dott. Nest. ci suggeriva una persona con un carattere timido e malinconico.”
“Nell’incontro con la compagnia al termine dello spettacolo, alcuni di noi hanno indossato le maschere: sono pesanti ed è molto difficile respirarci dentro. Abbiamo avuto la conferma che ci vuole un grandissimo allenamento per recitare con queste maschere addosso per tutta la durata dello spettacolo. Chi ha indossato le maschere, anche solo per qualche minuto, si è sentito da subito uno di loro, uno di Villa Bianca.”
“Le maschere ci hanno fatto ricordare le recite scolastiche, o momenti dell’infanzia di gioco, quando a scuola o a casa si costruivano le maschere per inventare storie e fare teatro.
Crescendo quelle maschere ci sono sembrate solo un gioco da bambini mentre quando le abbiamo viste sul palco, ci hanno fatto pensare a quel gioco “da ridere” come un modo per riflettere sulla nostra vita.”
“Il ruolo della musica ci ha colpito: gli strumenti che vengono suonati, un pianoforte e delle percussioni, hanno una funzione benefica, guaritrice, la musica diventa una forma di arte-terapia per i personaggi e per il pubblico in sala. La musica in alcuni momenti dello spettacolo dà voce ai pazienti, serve a descrivere le loro emozioni, ed è proprio grazie alla musica, che – in un momento centrale dello spettacolo – tutti erano uguali. La musica alleggerisce le situazioni anche drammatiche, fa dimenticare i problemi e le fragilità e per un momento ci fa essere insieme e felici.”
L’accoglienza e l’incontro
“Dell’esperienza ci piace ricordare l’accoglienza della compagnia, prima, durante e dopo lo spettacolo. Uno di loro che si arrampica sulle poltrone, cammina sulle nostre teste, stacca i biglietti…inizialmente abbiamo pensato “chi è questo pazzo”, già un paziente della casa di cura che veniva a farci visita. Questo inizio è stato per noi l’antipasto per degustare l’intero spettacolo. Ci hanno colpito gli applausi molto sinceri e che sono durati tanto. Gli attori ci sono sembrati molto simpatici e disponibili all’incontro. Ci ha colpito il racconto di come è nata l’idea dello spettacolo: dall’esperienza di famiglia di uno degli attori che ci ha spiegato che i genitori lavoravano in una casa di cura e lui da piccolo ci ha passato molto tempo, è cresciuto lì, tra medici e pazienti.
Dall’incontro con la compagnia abbiamo capito anche che i gesti sono più diretti delle parole, che attraverso le azioni fisiche si può raccontare una storia e che il coinvolgimento del pubblico è maggiore perché questo tipo di teatro fisico non ha confini: parla tutte le lingue e può essere rappresentato ovunque.”
Dal sogno alla nostra realtà
“L’impressione al termine di questa esperienza è quella di essere stati in un sogno, di aver vissuto un’esperienza particolare che ci ha lasciato davvero senza parole!
Le maschere hanno contribuito a trasportare tutto il pubblico in questo sogno.
Noi eravamo là con loro.
Nei giorni successivi abbiamo potuto rivivere delle situazioni simili nelle nostre vite e nella nostra quotidianità, fatta di entrate e uscite e di personaggi.
Lo spettacolo ci fa pensare che dovremmo essere pronti al fatto che qualcosa del genere succeda anche a noi, o alle nostre famiglie, ci fa parlare dei meccanismi della memoria e chiedere se quello che ricordiamo a un certo punto della nostra vita è vero o frutto della nostra fantasia. Rispetto a questi temi, ci sono persone tra noi che hanno un’esperienza di lavoro di cura con persone anziane e malate di demenza senile e Alzheimer e per questo motivo non sono riuscite a ridere dei pazienti. Per altre il tema della perdita della memoria è attuale e ci ricorda le conseguenze della pandemia di Covid recente. Dopo il covid c’è tanta gente che soffre di perdita di memoria. Anche giovane. La grande riflessione che ci restituisce lo spettacolo è questa: curare un’altra persona può essere un modo per curare sé stessi.”
“Consigliamo questo spettacolo perché è uno spettacolo insolito, capace di farti provare emozioni molto forti senza usare le parole. Perché è uno spettacolo creativo e attraverso l’uso delle maschere e la bravura degli attori fa vivere un’esperienza divertente dove però, ridendo, si riflette. È un spettacolo tragico e comico, capace di raccontare la fragilità dell’essere umano con delicatezza. Ci sembra uno spettacolo adatto a tutti i tipi di pubblico, anzi, dedicato soprattutto agli adulti perché possono ricordarsi di essere stati bambini e di aver giocato al gioco del teatro.”
Riflessioni, frasi e parole di Silvana, Salah, Nicolas, Alexander, Anna Maria, Elvia, Celia, Luisa, Markgit, Medalit, Anna, Marisol, Tzvetan, Najma, Marcia, Nadieka, Galyna, Danni, Hilda, Josefa, Marlon, Mimma.
Il percorso continua con un pubblico che crea
Questo appuntamento vede il gruppo sperimentare una doppia posizione da autori e autrici: in sala le persone contribuiscono di scena in scena alla scrittura della storia, interpretandone i contenuti, e, a scuola, punto di vista dopo punto di vista, frase dopo frase, ricostruendo l’esperienza vissuta a teatro. Una doppia posizione condivisa, che fa parlare il gruppo con una prima persona plurale e avvia la seconda parte del percorso: fruire di esperienze culturali per produrre contributi di senso sulle esperienze di visione vissute.
Proseguendo nel percorso, infatti, il nostro viaggio alla scoperta del teatro in Italia e a Milano apre l’occasione concreta di ragionare in maniera attiva e generativa sulla produzione culturale e creativa da parte del pubblico.
Un pubblico che vede, sente, scopre, restituisce e crea.
Citando Marzia Pontone, referente della classe di Cultura e Cittadinanza della Scuola di lingua e cultura italiana di Sant’Egidio, “partendo dall’io”, «io sono più della mia lingua», «io, attraverso la mia possibilità di espressione dico qualcosa di me», per sostituirlo con il noi”.
Nelle prossime esperienze ripartiamo da qui.
Da questo noi.
Plurale, transgenerazionale, transculturale.
Un noi mondo che dalla città entra e abita, finalmente, anche le sale dei teatri.