Teatro e ricerca 2024 | Per una ricerca impura

I Maestri del teatro: sperimentatori o ricercatori?

Pubblicato il 15/02/2024 / di / ateatro n. 196 | teatro e ricerca 2024

Ricerca e sperimentazione

Si può sostenere ragionevolmente che gli artisti, tutti, hanno sempre sperimentato e ricercato nel loro lavoro (con buona pace di Picasso, il quale sosteneva: “Io non cerco, trovo”). Tranne che nel caso, per altro molto frequente nei secoli scorsi, diciamo fino all’Ottocento, della creazione di genere, totalmente rinchiusa in convenzioni, regole, principi già fissati, codificati.
Ciò detto, alla fine del XIX secolo, con l’avvento delle avanguardie storiche, accade qualcosa di completamente nuovo rispetto al passato. La messa in discussione radicale delle vecchie convenzioni e delle vecchie forme espressive, insomma dei generi codificati, spinge gli artisti a farsi tutti, in qualche modo, degli sperimentatori e anche, in alcuni casi, dei veri e propri ricercatori, in un senso spesso vicino a quello scientifico del termine (basti pensare a Stanislavskij). Soprattutto quando, dalla fase puramente distruttiva (pars destruens) è necessario passare a una fase ricostruttiva (pars construens).
Sebbene sia sempre molto difficile distinguere nettamente le due cose, si potrebbe avanzare la seguente ipotesi: nell’arte (come altrove, del resto) ricercare implica sempre anche sperimentare ma non è sempre vero il contrario. Possiamo immaginare, anzi possiamo sostenere che sono esistiti, ed esistono, artisti che sperimentano senza fare veramente ricerca, e dunque senza che li si possa definire dei ricercatori in senso stretto.
A titolo puramente ipotetico si potrebbe porre la seguente distinzione fra sperimentatori e ricercatori, almeno per quello che riguarda l’ambito teatrale:
1) gli artisti sperimentatori mettono alla prova nella pratica dei nuovi mezzi d’espressione o dei modi nuovi di servirsi dei vecchi mezzi espressivi;
2) gli artisti ricercatori, sperimentando, attraverso un lungo lavoro sia pratico che teorico, tentano di individuare (trovare) e di fissare dei nuovi principi, nuove regole o leggi, in vista eventualmente di codificare delle nuove forme artistiche, dei nuovi linguaggi, e/o di produrre in ogni caso delle conoscenze inedite nel proprio ambito artistico.

Thomas Richards, Marco De Marinis e Raúl Iaiza

Forse questa distinzione è troppo astratta e troppo teorica. Probabilmente, anzi certamente, nella realtà storica del teatro constatiamo che queste due figure, lo sperimentatore e il ricercatore, risultano spesso legate. E tuttavia si può affermare con una certa sicurezza che, ad esempio, Jarry e Artaud sono stati più degli (straordinari) sperimentatori che dei veri e propri ricercatori; come, in seguito, Kantor, Beck e Malina, Mnouchkine, Wilson, Bene, Ronconi.
In ogni caso, una cosa mi sembra accertata: il teatro del XX secolo, nella forma specifica del teatro di regia, è stato inventato da artisti-teorici (come si sono definiti essi stessi) che erano in realtà dei veri sperimentatori-ricercatori: Appia, Fuchs, Craig, Stanislavskij, Mejerchol’d, Copeau, Dullin, Osterwa, Decroux, per non citare che i più importanti.
Un primo dato comune a quasi tutti questi artisti-ricercatori è la sproporzione che esiste tra ricerca e risultati artistici (spettacoli, eccetera). Quasi sempre, nel loro caso, i risultati artistici sono piuttosto ridotti, addirittura esigui, rispetto alla lunghezza, intensità e profondità della ricerca e dei suoi risultati culturali, estetici, talvolta persino scientifici. I casi di Appia e Craig, per i quali si è spesso parlato impropriamente di “afasia”, estremizzano e dilatano in maniera macroscopica una situazione molto più diffusa. Sia nel caso di Craig che in quello di Appia, il lavoro di sperimentazione e di ricerca si svolge fondamentalmente lontano dal palcoscenico, dalla scena materiale, a livello della pagina scritta e dell’immagine disegnata o incisa, con l’aggiunta importante, per il regista inglese, del Model Stage, il teatro in miniatura che rappresentò per molti anni il vero luogo e il principale strumento della sua indagine, il suo autentico anche se minuscolo “laboratorio”.
Del resto, questa sproporzione fra ricerca e risultati è tipica dei momenti di rottura e di rifondazione di un’arte. Nel caso di Appia e Craig, si trattò di passare da un modo di produzione teatrale “all’antica”, centrato sull’attore e sull’autore, a un modo di produzione centrato sul regista e sui nuovi principi, ancora da scoprire, della messa in scena. Nel caso di Dalcroze e Laban, la rottura fu quella, totale, con la danza accademica e il balletto classico: una tabula rasa che impose la necessità di una rifondazione che era interamente da trovare, sperimentando, ricercando, provando appunto (dopo la stagione delle pioniere improvvisatrici: Duncan, Saint-Denis, Füller).

Ricerca e creazione

La domanda da farsi adesso è dove e come si svolge la ricerca teatrale dagli inizi del secolo scorso, insomma a partire dall’avvento della regia?
In primo luogo, non va affatto trascurata l’importanza delle prove, cioè del processo creativo. Come sappiamo (soprattutto grazie a Toporkov) per l’ultimo Stanislavskij le prove erano l’unica cosa che lo interessasse veramente. E, sulla sua scia, Grotowski arriverà a dichiarare, nel 1992,

“Le prove sono state per me la cosa più importante […] lo spettacolo è stato, sempre, meno importante del lavoro delle prove”.

La durata anomala che le prove raggiungono spesso nel Novecento si spiega soprattutto così. Nel momento in cui la creazione di uno spettacolo non è più concepita come la messinscena di un testo diretta da un regista demiurgo, che chiede agli attori soltanto di eseguire le sue indicazioni, ma diventa un’avventura che vede il regista collaborare con gli attori a partire dal loro contributo creativo, è chiaro che i tempi di prova si allungano perché il percorso non è più predeterminato e il risultato non è più garantito. Ci si muove su di un terreno ogni volta sconosciuto e insidioso, che regista e attori esplorano insieme. Cioè ricercare, sperimentare, creare diventano diversi aspetti di un unico processo.
Ciò detto, è poi noto che nel corso del Novecento il luogo elettivo della ricerca e della sperimentazione è stato il laboratorio, cioè le nuove scuole che nascono a partire dagli inizi del secolo, in Russia prima e poi nel resto dell’Europa, col nome di Studi o Atelier.
La differenza con le vecchie scuole, accademie, conservatori, è evidente: nelle vecchie scuole la formazione consisteva sostanzialmente nel passare all’allievo attore un sapere già fissato, delle tecniche recitative già sperimentate dagli attori anziani. Nelle nuove scuole invece ci si applica a superare il già noto, le tecniche codificate, per indagare altre, nuove, sconosciute possibilità espressive e creative dell’attore, fondamentalmente legate al corpo-voce e agli impulsi. L’ambizione è quella di andare addirittura a scoprire i fondamenti dell’arte dell’attore. Quindi nelle nuove scuole, e poi nei veri e propri laboratori del secondo Novecento, formazione, sperimentazione e ricerca si mescolano, rappresentando le diverse facce della pedagogia teatrale.
La grande differenza fra primo Novecento e secondo Novecento sta nel fatto che nel primo Novecento le scuole, o laboratori che dir si voglia, sono separate dai teatri, deputati alla creazione, cioè alla produzione di spettacoli, mentre nel secondo Novecento esse diventano parte costitutiva dei teatri, che diventano così dei teatri-laboratorio, veri e propri “ossimori viventi” (Schino), anche se non tutti e non tutti allo stesso modo. I due esempi più famosi e paradigmatici sono ovviamente il Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski in Polonia (1963) e l’Odin Teatret di Eugenio Barba in Danimarca (1964). Ma anche per molte altre compagnie, da quella di Ariane Mnouchkine a quella di Peter Brook, al Living Theatre eccetera, si può parlare quantomeno di una dimensione laboratoriale, una laboratorialità. Nella misura in cui in tutti loro il momento creativo-produttivo non occupa interamente lo spazio del lavoro, ma questo comprende anche un’attività di ricerca e sperimentazione che tende spesso ad acquistare una certa autonomia.
I teatri-laboratorio di Grotowski e Barba hanno rappresentato i modelli sui quali sono nati i cosiddetti gruppi degli anni Settanta e Ottanta, nei quali la dimensione laboratorio consisteva, e spesso consiste ancora, nel prevedere un costante lavoro di allenamento dell’attore, il training, distinto e autonomo rispetto al lavoro per lo spettacolo, alle prove insomma. Il rimprovero che storicamente è stato rivolto ai gruppi, in particolare a quelli di “impronta Odin” (Schino), che si sono riconosciuti nel cosiddetto Terzo Teatro, è stato di aver dato spesso uno spazio eccessivo al training e al processo a discapito dello spettacolo. E non sempre si è trattato di un rilievo infondato.
Mi sembra, peraltro, che da questo punto di vista ci sia stata un’evoluzione positiva verso una distinzione sempre meno rigida fra allenamento-ricerca e creazione-lavoro per lo spettacolo. Per restare ai due esempi prototipici, questo è accaduto, anche se in modi molto diversi, sia nell’Odin Teatret sia nella tradizione grotowskiana, e in particolare nell’Arte come veicolo (al Workcenter di Pontedera), fermo restando che nel secondo caso non c’erano veri e propri spettacoli, almeno fino alla scomparsa del maestro, ma si costruivano comunque opere, partiture performative, le diverse Action.

Una prima conclusione importante è questa: non c’è mai stato un teatro-laboratorio, oppure uno Studio o Atelier nel primo Novecento, che abbia fatto soltanto “ricerca pura”, cioè che abbia eliminato completamente il lavoro per lo spettacolo, o comunque l’impegno artistico-creativo, dal suo orizzonte. Su questo punto Barba ha ragione nel suo breve intervento sollecitato dal testo/manifesto di Iaiza-Faloppa-Ponte di Pino di cui parlerò più avanti.
Questo non è accaduto neppure in alcuni casi che vengono oggi ricordati giustamente come estremi nella loro opzione in favore della ricerca e della sperimentazione: l’ultimo Stanislavskij (immerso nell’“avventura” delle prove); Artaud degli anni Quaranta, con il suo Secondo Teatro della Crudeltà senza spettacolo ma fecondo di ricadute artistiche trasversali (dalla scrittura alla lettura, dal disegno alla radiofonia); Decroux, dedito alla rifondazione dell’arte mimica (forse il maggior ricercatore del Novecento sull’arte dell’attore insieme a Stanislavskij, Grotowski e Barba) e tuttavia letteralmente ossessionato dalla creazione (così lo descrivono molti allievi di diverse generazioni).
Carmelo Bene nel 1988 alla Biennale di Venezia teorizzò il “teatro senza spettacolo”, ma si trattò di un progetto-provocazione che durò meno di un anno. Dopodiché egli tornò al lavoro artistico. Per non parlare del laboratorio aperto a Prato da Luca Ronconi fra 1978 e 1980, a lato del quale nacquero spettacoli straordinari.
Forse l’unico esempio di ricerca pura è stato quello di Grotowski negli anni Settanta, dal Parateatro al Teatro delle Fonti. Va ricordato tuttavia che quel periodo è stato successivamente criticato dallo stesso maestro polacco nella postfazione al libro di Thomas Richards, Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche (1993). Quanto al Workcenter di Pontedera, dal 1986 al 1999, anno della scomparsa del fondatore, lo si può sicuramente considerare un centro di ricerca, uno dei più importanti dell’intero Novecento. Tuttavia lì la ricerca torna appunto a orientarsi e finalizzarsi, come negli anni Sessanta, sul lavoro creativo. Come dicevo, non si tratta di spettacoli veri e propri, perché essi non sono pensati in prima battuta per lo spettatore, tuttavia si tratta di opere performative costruite con tutte le regole di precisione ed efficacia dell’alto artigianato: Downstairs Action (1989) e Action (1994). Non a caso al Workcenter lo spazio del cosiddetto training, insomma dell’allenamento, degli esercizi, si riduce nel tempo e non sembra comunque essere più un momento di punta del lavoro. E sempre non a caso, l’unico esercizio che sembra rimanere di quel periodo sono le Motions, un esercizio collettivo sofisticato, che tuttavia era nato molto tempo prima, alla fine degli anni Settanta, e da allora era stato sottoposto a un incessante perfezionamento, conclusosi nei primi anni del Workcenter. Quanto poi al periodo successivo al 1999, le attività del Centro grotowskiano si sono orientate sempre di più verso lo spettatore, portando anche alla produzione di veri e propri spettacoli: Dies Irae (2006), il ciclo su Ginsberg dell’Open Program di Mario Biagini (2008-2010), L’Heure Fugitive (2015) e The Underground (2016) dell’équipe di Thomas Richards, per non ricordarne che i principali.
Forse un altro esempio di ricerca pura potrebbe essere indicato nelle attività e negli scopi dell’ISTA di Eugenio Barba, dal 1979 in poi. E indubbiamente deve essere considerata ricerca pura l’indagine condotta su base comparativa sui principi transculturali del comportamento in situazione di rappresentazione, i cosiddetti “principi pre-espressivi”. In qualche modo, una ricerca collettiva, condotta da Barba con l’aiuto di due équipe permanenti, una pedagogica e l’altra scientifica (i cui membri potevano cambiare almeno in parte da una sessione all’altra), assieme ai partecipanti. E tuttavia neppure all’ISTA lo spettacolo, o comunque il lavoro creativo, è mai stato del tutto assente, a cominciare dalla rappresentazione finale, chiamata genericamente Theatrum Mundi (ma quasi sempre provvista anche di un titolo specifico), e allestita con i maestri pedagoghi, i partecipanti e alcuni attori dell’Odin Teatret. Senza contare che, in fondo, lo scopo dell’antropologia teatrale non è mai stato quello di scoprire leggi universali o di fissare regole rigide valide erga omnes ma piuttosto quello di mettere a disposizione degli attori dei “buoni consigli” per la pratica.

“Ricerca pura”: un manifesto

Il testo di Iaiza-Faloppa-Ponte di Pino, volendo “ravvivare le riflessioni sulla ricerca teatrale nel XXI secolo in Italia”, spezza una lancia a favore della “ricerca pura” a teatro, che gli autori ritengono fortemente svalutata oggi:

“Anzi, diciamo che nel XXI secolo la “ricerca teatrale”, diciamo pure una “ricerca pura”, non necessariamente finalizzata al direttamente funzionale, appare come un fantasma, o un sandalo rotto dell’estinto teatro dei gruppi. Nonché uno spreco economico”.

Cosa intendono gli autori per “ricerca pura”?
Riporto: “…l’insieme delle indagini pratiche in ambiti o su materiali specifici, laddove l’ignoto è bussola d’obbligo e il vincolo di tempo è essenzialmente aperto”. Insomma una cosa diversa e distinta dalla ricerca applicata, cioè dall’“insieme di esplorazioni e sperimentazioni che vanno a configurare una fase del processo creativo e di studio per una messa in scena”.
La nozione di ricerca pura viene poco dopo ulteriormente precisata:

“La ricerca teatrale non dovrebbe essere una proposta poetica o il proclama di una ideologia scenica. La ricerca è un operare rischioso, incentrato su una data problematica tecnica o creativa, sui potenziali del corpo-voce, su cosa rivela nella pratica una componente dell’arte scenica se tolta dalla consuetudine”.

L’idea che emerge è quella della ricerca come una specie di “riserva aurea” del lavoro teatrale; qualcosa di fondamentale e primario, come le radici di una pianta o le fondamenta di una casa, di cui la pratica teatrale non può fare a meno impunemente. Da tempo, ormai, viviamo di rendita: “…la maggioranza delle pratiche pedagogiche fruiscono a piene mani di quel che un tempo fu ricerca”. Segue un lungo elenco di quelli che prima ho chiamato i laboratori novecenteschi, da Stanislavskij a Grotowski.
Insomma, “È qualcosa di costitutivo del fare-teatro”. E più avanti, “…letteralmente serve sempre, direttamente o indirettamente. Qualcuno pensa davvero che possa esistere a teatro una «ricerca fine a sé stessa »?”. Ormai – sottintendono gli autori – quella riserva si sta esaurendo. È necessario ricominciare a rifornirla (il suo ultimo rifugio è rimasto “la pedagogia teatrale professionale”). Insomma, oggi ci troveremmo in una situazione per molti versi simile a quella dei riformatori del primo Novecento. C’è da ripartire, ricostruire, anche sulla base della loro lezione, come di quella dei maestri del secondo Novecento.
Siamo d’accordo: “disdegnare la ricerca è proprio un brutto sintomo”. Ma come fare per invertire la tendenza? A chi rivolgersi? In chi trovare appoggio? Lo sappiamo tutti: non basta avere delle buone idee, occorre trovare delle gambe su cui farle camminare. In questo senso, il richiamo di Barba al “mercato” mi pare un invito al buon senso e al realismo che non è possibile eludere.

O ricerca impura?

Dalle citazioni estratte in precedenza, si evince che secondo il testo/manifesto di Iaiza-Faloppa-Ponte di Pino la ricerca-oggi-in-Italia non può che vertere in gran parte sull’approfondimento rigoroso e libero di questioni tecniche relative al lavoro teatrale, cioè al fare teatro.
Altrettanto evidente, anche se non ugualmente esplicitato, è che si tratta di qualcosa di diverso dal training così come è stato inteso dal teatro di gruppo, dagli anni Settanta in poi.
Nel ripetuto incontro con Raúl Iaiza e i suoi Laudesi (Regula Teatro), durante gli ultimi due anni, ho abbozzato alcune riflessioni su di un possibile ripensamento e ampliamento della teoria e della pratica del training. Sono riflessioni in buona parte debitrici dello sforzo che Iaiza sta compiendo da tempo in questa direzione. Anche se ovviamente la responsabilità della loro formulazione è interamente del sottoscritto. Per non appesantire troppo questo intervento, rimando in proposito al mio Un ottobre teatrale. Cartoline di viaggio (Parte 2), pubblicato pochi giorni fa sul sito di “Culture Teatrali”.
Chiudo invece con qualche breve considerazione suggerita dal progetto “Percorsi nomadi” svoltosi a Milano dall’1 al 6 febbraio 2024 e consistito sostanzialmente nella prima uscita pubblica di Theatre No Theatre, l’associazione fondata da Thomas Richards dopo la chiusura del Workcenter di Pontedera.
Il Workcenter è stato l’ultimo laboratorio teatrale del Novecento e il primo del XXI secolo. Esso presenta fin dall’inizio dei caratteri nuovi, che si sono sviluppati e accentuati nel corso dei trentacinque anni della sua esistenza (1986-2021).
Rilevare analiticamente queste novità, che si ritrovano in Theatre No Theatre, in una sostanziale continuità con le attività del Workcenter, può essere utile a precisare un possibile identikit della ricerca teatrale nel XXI secolo. Che preferirei chiamare ricerca “impura”.
Il lavoro tecnico dell’attore/performer non è mai disgiunto dal lavoro dell’individuo su di sé (riguardante in particolare quello che Grotowski ha chiamato “l’aspetto interiore del lavoro”).
Il lavoro tecnico dell’attore/performer non è mai separato dal lavoro creativo: in entrambi i casi, il soggetto è sempre l’artista-essere umano alla ricerca della propria pienezza-interezza (ciò che Thomas Richards chiama il “riallineamento”).

Raúl Iaiza e Marco De Marinis

Per riassumere: lavoro tecnico, lavoro creativo e lavoro su sé stessi sono strettamente intrecciati e quasi inscindibili, sempre. La presentazione del training di Theatre No Theatre sui canti afrocaraibici a “Percorsi Nomadi” ne costituisce una dimostrazione eloquente come poche altre.
Ovviamente il lavoro per lo spettacolo implica un ulteriore ordine di difficoltà: attoriali, drammaturgiche e registiche. Perché in questo caso la sede del “montaggio”, come amava chiamarlo Grotowski, cambia. Non sono più (soltanto) la mente e il cuore dell’attuante-attore ma diventano (anche e soprattutto) la mente e il cuore dello spettatore.
Da quanto precede, dovrebbero risultare chiari i motivi per i quali preferisco parlare di ricerca “impura”. Si tratta di non ripetere gli errori del passato, isolando il momento tecnico in una autonomia dannosa e fine a sé stessa. Inoltre la ricerca teatrale non può che essere “impura” perché in essa istanze personali e istanze professionali-artistiche sono sempre intrecciate. Anche se questo non impedisce di tendere e talvolta arrivare a risultati di valore ed efficacia oggettivi, al contrario. D’altronde c’è sempre una doppia possibilità nel lavoro creativo: partire dall’oggettivo (per esempio un canto tradizionale, una poesia o un testo drammatico) e andare verso la soggettività; o viceversa partire dal soggettivo (un’improvvisazione, ad esempio) e andare verso l’oggettività.

In occasione dell’incontro Theatre No Theatre/Laudesi
PERCORSI NOMADI – Raúl Iaiza e Thomas Richards
Milano, febbraio 2024




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