A teatro nessuno è straniero | Scoprire “il popolo della vita vera” che si interroga sulla ricchezza
16.12.23 | El nost Milan con la regia di Serena Sinigaglia al Teatro Carcano
Prosegue con El Nost Milan. I Signori, in scena lo scorso dicembre al Teatro Carcano, A teatro nessuno è straniero, il nuovo progetto di Ateatro e della Scuola di lingua e cultura italiana della Comunità di Sant’Egidio.
Il link
A teatro nessuno è straniero: il progetto.
Il secondo appuntamento: scoprire il teatro partecipato dietro le quinte del Teatro Carcano
Cornice dell’esperienza della nostra seconda uscita teatrale è il Teatro Carcano, inaugurato nel 1803, meta ambita della nobiltà e della ricca borghesia milanese dell’epoca. Oggi è un teatro di prestigio nel cuore di Milano, diretto da Lella Costa e Serena Sinigaglia, che nella sua programmazione di teatro di prosa, attento all’attualità e al rapporto del presente con i classici, propone un ambizioso progetto che si articola in tre spettacoli intorno al dramma El Nost Milan di Carlo Bertolazzi, che proprio nella sala in corso di Porta Romana vide la luce nel 1893.
L’opera originale è divisa in due atti, scritti in dialetto milanese, La povera gent e I sciôri. A questo testo sono ispirate le scritture originali dei primi due capitoli del progetto. La povera gente ha debuttato nel dicembre 2022 e I Signori nel dicembre 2023, mentre nel 2024 verrà allestito il dittico composto proprio da Bertolazzi. Si tratta di un progetto di coproduzione di Atir e Teatro Carcano, l’ideazione e la direzione sono della regista Serena Sinigaglia, il coordinamento drammaturgico di Tindaro Granata e il coordinamento sociale del progetto è di Nadia Fulco.
Incontriamo Nadia Fulco, che insieme a Mattia Fabbris e Arianna Scommegna è co-direttrice artistica di Atir, compagnia milanese fondata nel 1996, impegnata in un teatro popolare di qualità in cui i grandi classici e le drammaturgie contemporanee si intersecano e dialogano per restituire una visione possibile del presente. Ci vedioamo al Teatro Carcano, il 10 dicembre 2023, nei giorni di allestimento e prove dello spettacolo. Nadia racconta al gruppo che lo spettacolo di quest’anno è il punto d’approdo di un lavoro di teatro e arte partecipata che ha coinvolto per tutto il 2023 160 cittadine e cittadini in 13 laboratori teatrali tenuti dalle compagnie Atir, Proxima Res, PEM ed Eco di Fondo in diversi municipi della città, con l’obiettivo che sia proprio questa cittadinanza attiva e creativa a raccontare Milano, quella di fine Ottocento in cui debuttò l’opera e quella dei giorni nostri, alla riscoperta dei luoghi di povertà e di ricchezza e delle origini linguistiche della città. Nadia ci spiega che se nel primo capitolo, dedicato alla Povera gente, i gruppi avevano esplorato i luoghi della povertà, nel secondo capitolo, I Signori, l’indagine si è focalizzata sui luoghi di ricchezza oggi particolarmente significativi della città: il Teatro alla Scala come tempio dell’arte, via Montenapoleone e il Quadrilatero della Moda, piazza Affari con Borsa Italiana, City Life e l’abitare di lusso, solo per citare alcuni dei punti della mappa della ricchezza esplorati dai 13 gruppi. Ogni laboratorio ha visto la presenza di formatrici e formatori professionisti (attrici, attori, operatrici, operatori teatrali, educatrici, educatori) e di drammaturghe e drammaturghi per elaborare temi, incontri, testimonianze, interviste, ambientazioni, con il linguaggio e i generi del teatro.
Dalle parole di Nadia e dall’atmosfera che si respira nel foyer, capiamo che le persone coinvolte nella realizzazione, produzione e organizzazione dello spettacolo sono davvero tante. Una comunità interessata a raccontare Milano oggi, attraverso il filtro della ricchezza, desiderosa di mostrare il punto d’arrivo di mesi e mesi di lavoro insieme. Abbiamo l’occasione di incontrare le protagoniste e i protagonisti di questa esperienza, di guardare allo spettacolo prima ancora che dalla platea da dietro le quinte.
Ed ecco che ascoltiamo le testimonianze di un gruppo di attrici e attori, appena usciti dalle prove, del Laboratorio degli adulti over 60 di Atir, che portano in scena un dialogo surreale tra le poltrone e poltronissime del Teatro alla Scala. Poltrone che rappresentano i diversi pubblici del tempio dell’opera, dagli abbonati storici ai giovani curiosi, dai più esperti melomani ad alcuni frequentatori più distratti. Ci raccontano come hanno lavorato insieme alle loro formatrici (Virginia Zini e Francesca Parrini), ci parlano della drammaturgia (a cura di Tobia Rossi) e più in generale dell’esperienza di un teatro che si fa con la partecipazione di tutte e tutti. Dalle risposte alle nostre domande emerge il senso di appartenenza a un gruppo, l’impegno che il laboratorio teatrale richiede, soprattutto nel momento in cui si avvicina la data del debutto, le difficoltà incontrate lungo il percorso, per esempio superare timidezze e paure, allenare la memoria per ricordare le battute, esercitare la voce, il corpo, esercitare l’ascolto. Sì, perché una delle peculiarità del progetto che emerge da questo incontro è la coralità: nel gruppo non ci sono personaggi principali o secondari, ma tutte le persone coinvolte contribuiscono a restituire il senso del testo, a costruire le immagini sulla scena, a creare un dialogo tra il palco e la platea.
Questa presentazione suscita molto interesse verso lo spettacolo e la curiosità di alcune delle partecipanti di sperimentare in prima persona i laboratori teatrali promossi da Atir e dalle altre organizzazioni coinvolte nel progetto.
Le scene e i costumi
Abbiamo l’occasione di farci accompagnare anche alla scoperta della mostra dei bozzetti di scene e costumi, allestita e raccontata dalle studentesse dell’Accademia di Belle Arti di Santa Giulia di Brescia, coinvolte nella realizzazione dello spettacolo.
Un’anticipazione in miniatura di quello che vedremo sulla scena. Il nero è il colore predominante della scenografia e dei costumi, sporcati di polvere d’oro. Vediamo le immagini preparatorie, le ricerche delle fonti che hanno portato alle scelte finali, ci colpisce l’eleganza dei costumi. Qualcuno nel gruppo osserva che “gli abiti sono delle vere e proprie divise, che ricordano quelle dei bodyguard di luoghi privati e sorvegliati o dei concierge negli hotel o nei resort di lusso”. Ci colpiscono anche gli oggetti di scena: “Sembrano delle valigie rigide, come quelle che usano gli assistenti personali delle star, truccatori o truccatrici”, riporta Hilda, una delle partecipanti. Le guide ci dicono che le nostre osservazioni hanno colto nel segno: costumi e oggetti di scena mirano proprio a raccontare il mondo di persone alle dipendenze della ricchezza.
Dai bozzetti, la mostra ci porta al modellino tridimensionale della scenografia.Le prove
Non è immediato per il gruppo capire di cosa si tratta: vediamo una grande sfera nera, il suo diametro occupa buona parte della scena. “Sembra una grande installazione d’arte contemporanea”, “è una sfera che ricorda il globo terrestre”, “un occhio che ci guarda”, “la parte scura della nostra vita”, “l’oro nero, una risorsa limitata, destinata a esaurirsi”. Le suggestioni sono molto diverse tra loro proprio, perché la scelta di questa grande sfera che si espande e incombe sulla platea vuole essere un simbolo su cui il pubblico può proiettare le diverse immagini che associa alla ricchezza. Le studentesse ci spiegano che questa scelta arriva da ricerche e studi su oggetti smisurati, totemici, che racchiudono un enigma, un mistero, e che sono venerati in quanto tali e verso i quali gli esseri umani tendono le mani. Mani d’oro, che lasciano tracce del proprio passaggio e si protendono verso quello che non possono ottenere e che forse, quindi, desiderano invano.
Il pomeriggio di preparazione allo spettacolo si conclude con l’esperienza delle prove. Quando entriamo in sala, Serena Sinigaglia sta provando una scena con un gruppo di ragazze e ragazzi molto giovani. Vediamo da subito il mondo eterogeneo che abita il teatro e lo spettacolo, Nel foyer abbiamo parlato con un gruppo di persone diversamente giovani, molte milanesi di origine, altre figlie di persone emigrate dal Sud Italia a Milano negli anni Cinquanta e Sessanta per cercare lavoro e un futuro di vita possibile. Adesso vediamo in scena un affiatato gruppo di giovanissimi alle prese con il desiderio di salire su un jet privato. Hanno tra i 10 e i 14 anni, l’accento milanese, ma indoviniamo dalle loro fisionomie e dai loro racconti le origini internazionali delle loro famiglie. La prova ci permette di osservare come tutta la macchina tecnica in azione – le luci, la musica, l’attrezzeria – contribuisca a creare l’immagine finale che vediamo e sentiamo in platea. Al momento dei saluti mi attardo con un paio di persone del gruppo: l’impressione generale è di grande ammirazione per un lavoro che già da dietro le quinte si presenta ricco di occasioni di riflessione, ricco di stimoli visivi, ricco di umanità tanto diverse tra loro tutte coese verso un obiettivo comune per cui vale la pena mettersi in gioco.
Si apre il sipario sulla ricchezza: la città riscrive El nost Milan
Sabato 16 dicembre assistiamo allo spettacolo. Il Teatro Carcano è un via vai di persone che si ritrovano, si salutano, si raggruppano, ritirano i biglietti, aspettano amici, parenti… E noi non siamo da meno: anche solo incontrarci è un’impresa, visto il gran numero di spettatrici e spettatori accorsi per la serata. Sappiamo che la sala è al completo e con questa energia palpabile nell’aria ci dirigiamo in platea verso i nostri posti. Foto di rito, per testimoniare che ci siamo e siamo emozionati. Chi ha partecipato all’incontro di presentazione riporta a chi non c’era il senso dell’operazione, qualche spiegazione su come è stato realizzato lo spettacolo.
“Ci saranno 160 persone, non sono professionisti, ma sono amatori, gente come noi, il popolo dalla vita vera”, interviene Liudmiyla. C’è attesa, l’atmosfera è rilassata, si sente che comunque andrà la replica sarà una festa.
Si spengono le luci e inizia lo spettacolo. Una voce nel buio ci accoglie e Gemini commenta: “Ho cominciato a sentire una voce, ma non mi rendevo conto che fosse una signora. Mi sentivo come se il mio cuore mi stesse parlando”. La “signora” è l’attrice Lella Costa, di cui percepiamo solo la voce: “E’ la voce della ricchezza, che si fa sentire, ma non si fa vedere, è la voce di una ricchezza che può distruggere”, aggiunge Mayra. La sfera che avevamo visto, in miniatura, adesso occupa davvero buona parte del palco con il suo diametro, nera nella scatola nera del teatro, sembra quasi sospesa, “incombe su di noi”, interviene ancora Liudmiyla. Vediamo gli oggetti e i costumi disegnati nei bozzetti, in dimensione reale sulla scena e “colpisce la loro bellezza e la precisione nella realizzazione”, commenta Hilda.
Lo spettacolo accompagna il pubblico nelle stanze della ricchezza, la racconta attraverso il punto di vista di chi lavora dietro le quinte di quel mondo impalpabile, inaccessibile, inenarrabile – concierge di alberghi di lusso, squadre di pulizia, insegnanti sottopagati di scuole private, receptionists, addetti alla sicurezza, assistenti ospedalieri, infermieri, medici di esclusive cliniche private… Narra la ricchezza attraverso gli oggetti che si animano e confessano quello che hanno visto e sentito nelle spa di lusso, nei ristoranti stellati, nelle case d’asta, tra le poltrone e poltronissime del Teatro alla Scala. La immagina attraverso gli occhi di un gruppo di ragazze e ragazzi che sognano di salire su un jet privato capace di esaudire i loro desideri o di un gruppo di adolescenti che sogna le vite di chi vive dietro le finestre dei palazzi milionari di City Life; o di uno stormo di piccioni che si accalcano in piazza Affari per seguire le transazioni delle azioni del mercato globalizzato. La smaschera nell’esibizione del corpo di una modella alla mercé delle dinamiche di potere di una sfilata di moda, la invoca nei riti dei sacerdoti del lusso che venerano la Dea della Ricchezza.
La Dea della Ricchezza, che all’inizio dello spettacolo si era manifestata come voce, una presenza senza corpo, sul finale si mostra, nera, incappucciata, sola, con il peso di una sfera di buio sulle spalle. “L’eroina di questa commedia”, commenta Nadieka in uno dei testi scritti per elaborare l’esperienza, “è una donna che ha vissuto una vita lussuosa e non una persona della classe media. Forse non ha mai conosciuto la tristezza, la fame, la difficoltà nel procurarsi ciò che serve, quando serve, la compassione per gli altri. Forse no.” Ma una cosa è certa: per quanta sia la ricchezza che custodisce, si presenta uguale a tutti gli altri davanti alla morte “e arrivata alla fine, porta con sé solo i risultati delle proprie azioni”.
Le immagini che restano nella memoria
Nella discussione che segue lo spettacolo, a un mese di distanza dall’esperienza, diverse immagini sono ancora molto nitide nella memoria delle partecipanti e dei partecipanti.
Beatriz ritorna sull’immagine con cui si chiude lo spettacolo: l’attrice che avanza, trascinando dietro di sé la sfera gigante fino quasi al limitare del palcoscenico, e scende con le mani illuminate verso la platea, come un’ombra che emerge dal buio, e pronuncia “parole antiche”, come le definisce Ibrahima, sottolineando come per lui questa immagine rappresenta “la Vita che ci domanda di scegliere”, perché, aggiunge Nadieka, “fortunatamente o sfortunatamente, nessuno può prenotare in anticipo la vita che avrà”.
Pur interrogandosi sulla Signora, sulla Dea della Ricchezza, nessuno nel gruppo ha compreso fino in fondo la presenza costante del coro dei suoi sacerdoti o li ha riconosciuti in quanto tali. L’impianto della cornice è rimasto piuttosto oscuro, mentre i commenti si concentrano sulle singole scene, più accessibili e dirette per linguaggi e generi proposti.
Il gruppo concorda sul fatto che lo spettacolo non vuole darci un’unica chiave di lettura. Questo affresco “ispirato dalla vita quotidiana della città di Milano” ha preso vita da diversi sguardi e restituisce a chi lo guarda un mosaico di spunti per riflettere in senso ampio sulla ricchezza.ù
Molte delle osservazioni del gruppo, raccolte durante un tempo di confronto e discussione e elaborate in forma scritta, si concentrano sulle scene che toccano la salute, l’istruzione, il rapporto con il corpo. Nel mondo dei Sciuri, i pazienti di una clinica privata sono visti e trattati come clienti e le cure sono la possibilità concreta di comprarsi la longevità, Non c’è empatia tra chi cura e chi compra le cure, e la morte di una cliente milionaria suscita più che dispiacere, la frustrazione di una carta di credito da strisciare in meno nel profitto di una giornata. Apostrofa Anna Maria: “Non vogliono che il cliente muoia, non perché è una persona, ma perché altrimenti non paga”. I docenti di una scuola privata sono chiamati a “vendere” l’istruzione come dei rappresentanti commerciali, trasmettendo il messaggio che “Solo le scuole che costano, possono dare una buona educazione”, come sottolinea Dammi, salvo poi svelare, davanti alle domande di un genitore insistente, le inique condizioni di retribuzione dei docenti di certa istruzione privata. Gli attrezzi e gli oggetti di una spa di lusso prendono parola per raccontare i trattamenti costosi per mantenersi giovani in eterno e contrastare l’inesorabile passaggio del tempo. La verità, che sempre Dammi esplicita, è che noi “non ci possiamo permettere terapie di ‘conservazione’ fisica così costose”.
Molte delle scene che abbiamo visto segnano una linea di separazione tra noi, “noi che voliamo in economy, noi che investiamo le briciole, che nessuno si ricorda perché siamo tutti uguali dietro alle nostre divise”, come riporta il testo della scena ambientata alla Borsa di Milano (scritto a partire dalla testimonianza di una receptionist), e loro, i ricchi che non siamo e non saremo mai. Nel discutere su questa separazione, arriviamo alla conclusione che la ricchezza è negli occhi di chi la guarda e che la brama di desiderare sempre di più e sempre più spesso alimenta le differenze sociali e i contrasti anche all’interno della stessa classe sociale. Sull’esercizio del potere sfrenato, come distorsione della ricchezza, una scena colpisce il gruppo e viene riportata soprattutto da due delle partecipanti. Si tratta della scena in cui un gruppo di lavoratori della moda, sotto il giudizio incalzante di due stilisti miliardari, si accanisce sul corpo di una modella, spogliandolo, esibendolo, deridendolo. Gemini osserva che “più la donna viene svestita, più il lavoro è ben fatto”, in una società dell’immagine dove “la nudità interessa di più che il prodotto”. La scena, composta da una coreografia di azioni su musica (orchestrata da Marcela Serli e Lorenzo Piccolo), le fa pensare al mondo di TikTok “che macina informazioni e consensi senza lasciarci tempo e spazio di pensare”. Anna Maria riporta l’attenzione sull’interpretazione del personaggio della modella “usata dalla moda”, sul suo corpo che si contrae e sull’espressione del suo viso, su una persona sfruttata e offesa che tenta invano di coprirsi e di fuggire via.
Viene messo in luce anche come i generi delle scene siano molto eterogenei: parodia, iperrealismo, farsa, commedia, teatro documentario, ogni frammento cerca la sua strada per trasporre l’osservazione della realtà sulla scena. C’è anche chi, come Medalit, sottolinea l’effetto disturbante di alcune scene, e osserva con criticità le scelte di genere e di contenuti fatte per raccontare, per esempio, il mondo della sanità o dell’istruzione.
Le diverse posizioni alimentano il confronto. Partendo dallo spettacolo, il gruppo si ritrova a ragionare sull’accesso all’istruzione, su diverse forme di sistemi sanitari, sul rapporto tra soldi, potere, successo, esposizione mediatica. Si aprono punti di vista diversi, frutto delle esperienze di vita, delle origini e delle culture di provenienza. “Ci tengo a precisare che ho grande stima e ammirazione per le persone che sono diventate ricche o benestanti per meritocrazia, persone che con tanti sacrifici ce l’hanno fatta ad arrivare al traguardo conservando tuttora le proprie finanze. Invece nutro solo disprezzo per le persone che lo sono diventate per fortuna o eredità”, continua Medalit.
Per Gemini, le diverse situazioni raccontate nello spettacolo “fanno capire quanto sia diversa la nostra vita a seconda del modo in cui nasciamo, viviamo, moriamo. Molte persone pensano che esista la felicità dove c’è tanta ricchezza, tanto potere, ma la verità, per me, è che dove c’è tutto questo non c’è libertà, umanità e amore”. Per Liudmiyla, “c’e chi lavora, ma non riceve lo stipendio giusto, ci sono tante persone che lavorano in nero, ma non per la colpa loro…” Per lei la ricchezza raccontata mostra anche le situazioni di sfruttamento e di diritti mancati per cui bisogna continuare a lottare. “Se sei una persona forte, devi sempre lottare per la tua vita, per le cose giuste. Altrimenti morirai senza lasciare traccia… Solo quando hai la speranza allora combatti per la tua esistenza”.
Tutto il gruppo, al termine del confronto, è unanime nel giudicare positivamente lo spettacolo e l’esperienza. éer Ibrahima, “Hanno parlato della città di Milano, dal centro alle periferie”. Per Anna Maria, “Hanno dimostrato impegno, fatica, amore per quello che stavano facendo”. Per Medalit, “Attori e attrici erano persone comuni, come noi, anche straniere”. Per Liudmiyla, erano “il popolo della vita vera”. Per Beatriz, “Hanno saputo parlarci con un linguaggio a me vicino”. Per Gemini, “Hanno saputo farci immaginare una realtà che non vediamo e non conosciamo”. Ancora Anna Maria: “Eravamo quasi insieme, noi e loro in scena”. E Medalit: “Per finire, comunque chapeau! a tutti coloro hanno fatto parte di questa grande avventura e soprattutto ai protagonisti di El Nost Milan che sono stati super”.
“Questa era la mia prima volta a teatro, mi hanno fatto innamorare del teatro, sono rimasta incantata e abbagliata”, continua Beatriz. “In generale, questo lavoro ci fa pensare e riflettere un po’ di più sulla vita, perché in ogni scena riflette la nostra vita quotidiana e il modo in cui funzioniamo nella società”. E ci lascia con una domanda tanto complessa, quanto necessaria: “Insomma, stiamo dando valore a ciò che conta davvero? La ricerca della ricchezza sarà la nostra vera felicità?”
IL PROGETTO A TEATRO NESSUNO È STRANIERO
Il Progetto “A teatro nessuno è straniero” si inserisce nella vita di un gruppo di persone straniere e italiane abituate a discutere insieme di grandi temi del nostro presente, con un occhio attento alla storia più o meno recente e uno sguardo che valica i confini dell’Europa per mettere in dialogo molteplici culture attraverso la lingua italiana come lingua comune. L’italiano infatti è la lingua degli spettacoli, degli incontri, delle discussioni, dei momenti di riflessione e di quelli conviviali del gruppo. Un gruppo che dalla Classe di Cultura e Cittadinanza della Scuola di Lingua e Cultura Italiana di Sant’Egidio, cresce di spettacolo in spettacolo, di confronto in confronto, con l’obiettivo di coinvolgere sempre più persone, interne ed esterne alla scuola, eterogenee per provenienza, età, esperienze di vita, in un percorso di educazione al teatro, o meglio, in un percorso in cui il teatro con le sue proposte di spettacolo, diventa una finestra aperta sulla società, le sue contraddizioni, le sue sfide. Il progetto è anche un modo di attraversare Milano e i suoi teatri, entrando e uscendo dalle sale della città che ne hanno fatto la storia culturale e civile.
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