Teatro e ricerca 2024 | Il Workcenter e il suo doppio
Il documentario di Aniela Astrid Gabryel Radical Move
Le fonti d’archivio e le relazioni dei collaboratori ci permettono di tracciare il ritratto di un Grotowski che passa quasi inosservato in sala prove: uno spettatore di professione, intento a scrutare gli altri in silenzio. Il regista prendeva la parola solo in un secondo momento, per plasmare il corpo della rappresentazione ritagliando e montando ore e ore di materiale elaborato dagli attori che con il passare degli anni erano sempre meno attori, diventando sempre più esseri umani organici nella totalità dei loro corpi, anime e menti. La trasformazione di un individuo nel processo creativo ricercato e voluto da Grotowski avveniva costantemente in presenza di un altro individuo e a contatto con l’altro, come sottolineava con forza in alcuni scritti, soprattutto della fase post-teatrale.
Il pensiero e le opere di Grotowski nascevano in dialogo: prima con Ludwik Flaszen, poi con Zbigniew Cynkutis, Ryszard Cieślak, Teo Spychalski, Tomasz Rodowicz, Jacek Zmyslowski e infine con Thomas Richards, per nominare solo i tre partner fondamentali della “costellazione Grotowski”.
Sembra che il regista, per essere sé stesso, sentisse il costante bisogno della presenza dell’altro. La confortante presenza di un “altro da sé” diventò il principio di ogni attività artistica e performativa firmata da Grotowski. Dunque la sua scelta non di uno ma di due eredi-partner-in-arte pare del tutto naturale: stabilendo questa relazione in un atto di natura giuridica, Grotowski lasciava l’uno all’altro, come volesse garantire sia all’uno sia all’altro, nel loro percorso di ricerca dopo la sua scomparsa, un “partner fidato” (come lo chiamò Grotowski in un’intervista a Richard Schechner e Theodore Hoffman). Fuorviati dal nome del Centro di Pontedera, Workcenter di Jerzy Grotowski e Thomas Richards, facciamo fatica a renderci conto di questa doppia natura della trasmissione della memoria e della prassi.
Il 1° giugno 2023 ha debuttato sul grande schermo Radical Move, il documentario di Aniela Astrid Gabryel dedicato al Workcenter. La regista polacca ha accompagnato Thomas Richards e il suo gruppo negli anni, fino alla chiusura del centro a gennaio 2022, registrandone la vita quotidiana fatta di pratica e incontri, gratitudine, solitudine e infine scioglimento del fulcro del “gruppo”, ancor prima della chiusura formale del Workcenter. Lo sguardo tenero della cinepresa guidata da Zuzanna Kernbah fotografa i momenti più intimi del lavoro e delle motivazioni dei seguaci di Richards.
Guardavo il filmato, tenendo presente le registrazioni di training di Grotowski e Cieślak e le relazioni scritte di alcuni partecipanti dell’esperienza storica del Teatro Laboratorio, del parateatro, del Teatro delle Fonti e dell’Arte come veicolo. Colpisce soprattutto la differenza tra lo stile nella guida delle azioni registrato in The Vigil di Mercedes Gregory del 1979, in cui Jacek Zmysłowski (morto nel 1982 di tumore) spiegava il fulcro delle veglie. Lascio per un’altra occasione le considerazioni sulla fondamentale importanza dell’esperienza ideata da Zmysłowski negli anni Settanta per le ricerche di Grotowski negli anni Ottanta, per saltare alle conclusioni: come Grotowski non aveva ideato le esperienze parateatrali, agendo piuttosto come punto di riferimento, di confronto e di “partner fidato” dei suoi collaboratori, così l’autore dell’esperienza chiamata Arte come veicolo e teorizzata da Grotowski sembra Thomas Richards, tanto diversi nello stile e nell’atteggiamento sono le pratiche di solito classificate come l’ultima fase del suo lavoro, a cavallo degli anni Ottanta e Novanta. A confermare queste intuizioni, le parole dello stesso Grotowski, citate dalla Gabryel: nel 1997, durante l’incontro a Wroclaw, il regista ci teneva a precisare che il suo giovane allievo era allo stesso tempo l’autore delle ricerche in corso.
Il documentario di Gabryel invita a ripensare alcuni pilastri della “grotologia”. La regista tocca anche una dimensione molto delicata e intima della violenza non espressa nelle arti performative. Questa dimensione del suo filmato, alquanto attuale, andrebbe letta e discussa insieme a un testo di Mario Biagini, pubblicato in lingua polacca sulla rivista “Performer” nel 2021, in cui l’artista ammette di aver approfittato in alcune occasioni della sua posizione privilegiata a teatro, precisando però di non aver mai visto Grotowski in situazioni di abuso della propria autorità né di aver mai subito comportamenti del genere da parte del regista polacco. E anche alla luce della recente intervista a Agnieszka Kazimierska, per molti anni membro del gruppo di Biagini, in cui attrice e psicologa polacca, con delicatezza, approccia il tema del sapere-potere in riferimento a Radical Move. Il documentario allude a una sorta di #metoo a teatro e nel mondo delle arti performative che andrebbe esaminato più a fondo e al di là delle citazioni da Artaud, dalle constatazioni sul tema “l’arte esige sacrificio” e di altre frasi fatte di cui le generazioni di giovani artisti oggi non si accontentano più.
Il Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards ha chiuso due anni fa. La notizia (doppia nella sua natura poiché vi due furono le lettere: una di Mario Biagini, che informava del suo ritiro dal Workcenter, e l’altra di Thomas Richards, che informava della chiusura del centro) giunse tra una disgrazia e l’altra: era appena finito il periodo del lungo isolamento pandemico, e l’Europa stava per vedere milioni di persone fuggire dall’orrore della guerra in Ucraina.
A Buča e in altri luoghi nel mondo sorgono nuovi cimiteri che ci costringono a riesaminare non solo i perenni valori della cultura europea che sessant’anni fa Grotowski aveva ambientato in un campo di concentramento, allestendo Akropolis, ma anche la possibilità dell’arte stessa e l’attualità dell’esperienza storica che chiamo “costellazione Jerzy Grotowski” e delle esperienze dei suoi seguaci.
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