Ravvivare le riflessioni sulla ricerca teatrale nel XXI secolo, in Italia
Teatro e ricerca 2024 | In occasione dell’incontro Percorsi nomadi con Theatre No Theatre e Laudesi/Regula contra Regulam
Premesse
Per chi scriviamo?
In principio ci rivolgiamo a chi opera o s’interessa a vario titolo nel XXI secolo di ricerca teatrale (ritenendo la definizione teatro di ricerca un’etichetta-ghetto ormai evaporata ideologicamente assieme al XX secolo). Ci rivolgiamo ai gruppi, compagnie o collettivi teatrali indipendenti, perché crediamo che condividano, pratichino quotidianamente e possano comprendere in maniera più immediata, quel che guida le nostre inquietudini. Ci rivolgiamo anche alle nuove generazioni, non senza un certo impaccio, perché la mancata comunicazione con i più giovani è talmente cronicizzata, da risultarci tanto lampante quanto illeggibile – è bene sottolinearlo – persino in ambito teatrale, vicendevolmente, e per tutti e in tutti i sensi.
È evidente che il referente, di per sé, deborda, sconfina: tra sperimentazione, innovazione, investigazione, studio e tutte le derive di una sfuggente e nello stesso tempo inerente “questione ricerca” nel teatro.
Vi è inoltre, chiaramente, un contesto – il mercato del lavoro – che sovrasta, incide, orienta e penalizza. Crediamo che l’intreccio di un doppio passaggio epocale sia leggibile anche nel teatro-oggi-in-Italia: quello della globalizzazione digitale da una parte; e quello pandemico-post-pandemico dall’altra. Da questo punto di vista il proporre a seme gettato queste riflessioni nasce dalla costatazione che questo doppio passaggio abbracci, condizioni e attraversi tutti. E forse il ravvivare l’attenzione sul rapporto ricerca-teatro può trarre o generare nutrimento utile alle arti sceniche nel loro insieme, al di là delle dialettiche tra feudi-ghetti-tribù-isole-trincee e tutte le modalità settarie che il teatro non fatica a patire.
Domande
Qual è il rapporto, oggi in Italia, tra mercato e ricerca? E tra pedagogia e ricerca? La ricerca teatrale ha scelto di trasmigrare, o è stata travasata a buon mercato nelle trasversalità sociali ed educative? La ricerca teatrale è legata alle sole pratiche laboratoriali e poetiche del Novecento (e dunque è estinta)? Per cui, sperimentazione e ricerca sono o non sono la stessa cosa?
Molte, tante domande guida si possono riaccendere, ravvivando e trovando nuovi significanti e oasi di senso alle nostre professioni.
Nella nostra pratica di mestiere – per come corpo e biografia continuano a mutare;
per come tecnica teatrale e tecnica interiore continuano reciprocamente a nutrirsi –
la ricerca teatrale è sorella-ombra-specchio di tutta l’arte scenica.
È qualcosa di costitutivo del fare-teatro.
Glosse sul ravvivare
Per ravvivare e riavviare una riflessione condivisa servono molte punte della matassa, e diverse. Abbiamo una linea guida – poc’anzi dichiarata – ma non intendiamo inseguire dogmaticamente una sola lettura. Anzi: siamo curiosi, abbiamo una profonda necessità di cercare di comprendere visioni diverse, convergenti e divergenti. Perché la ricerca – tout court – riattiva tutta la dialettica tra conosciuto e sconosciuto. In questo senso, la ricerca teatrale la possiamo identificare come la disciplina dell’Altro per eccellenza.
Nel Novecento la presenza degli spazi di ricerca fu essenziale a tutte le poetiche teatrali. E dato che, soprattutto nel primo Novecento, creatività, pedagogia e ricerca costituivano una triade inscindibile, non si fatica a riconoscere che tutt’oggi, per esempio, la maggioranza delle pratiche pedagogiche fruiscono a piene mani di quel che un tempo fu ricerca.
I diversi Studi e Atelier di Stanislavskij si occupavano dichiaratamente di ricerca parallelamente al Teatro Nazionale Imperiale, fino all’ultimo ritiro documentato da Toporkov, che fu un dichiarato programma di ricerca. Ma è tutta la trama e l’ordito delle esperienze laboratoriali e sperimentali novecentesche ad essere connesse alla ricerca. Reduta di Osterwa e Limanowski, nella Polonia degli anni Venti. Theatre of Action di Joan Littlewood a Manchester nei primi anni Trenta. Tutti gli atelier di Mejerchol’d, che hanno sempre perseguito un ponte dinamico tra pedagogia e ricerca. Il ritiro dei Copiaus in Borgogna; lo Studio di Vachtangov; Etienne Decroux e l‘incessante progetto della contraffazione del corpo nella sua casa-studio. Il Group Theatre, Strasberg e l’Actors Studio a New York; Stella Adler a Los Angeles. Le 13 File di Opole e il naufragio del Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski che sfocerà in Apokalypsis cum figuris. E che dire di Gregory, Barba, Schechner, Brook, Mnouchkine, Beck e Malina, oltre al Laboratorio di Prato e al Centro Teatrale Santacristina di Luca Ronconi? Infine, il Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards in chiusura del Novecento. Nonché tutto quel che dimentichiamo, che non conosciamo, che stavano – che stanno – fuori dal primo mondo.
Oltre il Novecento
Si è spezzato il filo? Quando e perché? Quando si è dispersa la traccia? È un approccio all’arte scenica che “ha fatto il suo tempo”, in-finanziabile? Era un’attitudine legata ad un intreccio di moti storici, ai quali il nostro fa solo difetto per contrasto secco? Tornando quindi ai contesti, come negare che la pandemia globale – il Covid – sia stata l’alibi o l’occasione per assestare un colpo economico quasi mortale alla ricerca teatrale? Già il teatro usciva svenuto, o smemorato, dal 2020… Figuriamoci “la ricerca teatrale”.
E poi, bisognava ripristinare il lavoro dell’intera macchina produttiva, eterodiretta e stressata dall’algoritmo di iper-produttività del finanziamento pubblico.
In generale, oggi, a teatro, si usa la parola ricerca per indicare due percorsi. In primis, l’insieme delle esplorazioni e sperimentazioni che vanno a configurare una fase del processo creativo e di studio per una messa in scena. In seconda battuta l’insieme delle indagini pratiche in ambiti o su materiali specifici, laddove l’ignoto è bussola d’obbligo e il vincolo di tempo è essenzialmente aperto: serve tempo. Oltre che dedizione, coraggio, rigore e competenza.
Va da sé: c’è sempre meno curatela dall’ambiente teatrale italiano, e tanta fretta. Anzi, diciamo che nel XXI secolo la “ricerca teatrale” appare come un fantasma, o un sandalo rotto dell’estinto teatro dei gruppi. Nonché uno spreco economico.
E va da sé che la ricerca in quanto tale – e non solo nel teatro – sia di scarso o di nessun interesse per le nuove forme neoliberali del capitale, compresa la giungla dell’algoritmo. A meno che l’ipotesi non trovi applicabilità commerciale con basso margine di errore e tempi mirati. Ma non ripetiamoci.
Alla luce di uno strascico di pregiudizi, chiari e reciproci, fra chi “fa ricerca” e chi “fa teatro”, la tematica andrebbe intesa per quel che è, anziché per la catena di simboli e incasellamenti che richiama. La ricerca teatrale non dovrebbe essere una proposta poetica o il proclama di una ideologia scenica. La ricerca è un operare rischioso, incentrato su una data problematica tecnica o creativa, sui potenziali del corpo-voce, su cosa rivela nella pratica una componente dell’arte scenica se tolta dalla consuetudine. Insomma, si interessa di quel che non è noto.
La ricerca teatrale starebbe al teatro come la ricerca scientifica sta alla tecnologia, alla filosofia della scienza, all’evoluzione delle problematiche produttive interconnesse? Probabilmente sì, ma ancor di più, poiché la ricerca nel fare-teatro letteralmente serve sempre, direttamente o indirettamente. Qualcuno pensa davvero che possa esistere a teatro una “ricerca fine a sé stessa”?
Senza un apparato di ricerca – creativa, artigianale, espressiva – il fare-teatro non vivifica il pensiero critico a fronte delle realtà. Le inerzie e gli automatismi sono sempre a portata di mano, inseguendo il purché-si-lavori. Senza ricerca vi è solo l’orizzonte funzionale del “mestiere”. Infatti, non a caso, è proprio la pedagogia a trarre generoso nutrimento – anche e soprattutto per il pedagogo stesso – da tutta la ricerca che si riesce a veicolare nell’insegnamento teatrale. È proprio la pedagogia il vero e proprio polmone umano e creativo del fare-teatro-oggi-in-Italia. Anche economico, eccome.
Ai confini del teatro
Aggiungiamo una tessera certa nel mosaico del teatro nel primo mondo: la quantità fuori proporzione di coloro che praticano teatro non avendo interesse di andare a teatro, nemmeno per vedere i propri maestri in scena. È una vittoria secca del para-teatro? Cioè inteso come “teatro della partecipazione” e del lavoro su sé stessi? Anche del teatro come attenzione alla persona in quanto cittadino, e cioè un cittadino che si prende cura consapevole e sensibile del suo agire, attraverso delle pratiche teatrali? È evidente che la risposta è sì.
Ed è altrettanto evidente che al teatro di produzione questo non piace né interessa. Ma la realtà è reale, nel momento in cui si manifesta.
Anche la pedagogia teatrale professionale si muove nell’ambiguo crinale tra un mestiere sostanzialmente senza mercato e una possibile e personale via artistica vera, attraversando però appena leziosamente sia la sperimentazione che la ricerca. Il pericolo è quello di proporre aspiranti poeti attrezzati in sostanza solo ad un giornalismo di qualità. E però praticamente senza lavoro all’orizzonte. A meno che non si recuperi e si curi un rapporto costitutivo sulla ricerca teatrale, in viva dialettica con le procedure collaudate del mestiere.
Alla ricerca di senso
Forse, oggi, in Italia, abbiamo bisogno e andrebbero mappati, i luoghi per eccellenza dell’arte teatrale alla ricerca di senso. Non solo del mestiere in rapporto alle contraddizioni epocali che viviamo tutti.
La ricerca teatrale lavora all’interno di un sistema di tensioni vitali, quindi anche mortali. La natura del suo rischio e delle sue premesse crea di per sé attrito con il mondo della produzione, specie nei nostri tempi e nel primo mondo. Ecco che da una parte il noto va confermato, e dall’altra va dosato sapientemente con incursioni omeopatiche nell’ignoto. Anche questa è scommessa creativa, senz’altro rischiosa, certo. Poiché cerca di muoversi tra mondi non affini.
A differenza della sperimentazione, il cui scopo precipuo è smentire, confutare e superare in laboratorio le precedenti conquiste, non esiste una ricerca teatrale “contro” qualcosa o qualcuno. La ricerca teatrale decide, come ha sempre fatto, di addentrarsi a proprio rischio e pericolo nell’approfondimento o nello sconosciuto. E lo fa, semplicemente. Non chiude le porte alla condivisione dei risultati possibili. Chiude le porte per pertinenza di processo in corso. Ma non tiene le “porte chiuse” al senso di quel che affronta.
Non produce “moralismo”, ma spesso viene svalorizzata, destituita in maniera moralistica. Probabilmente perché la “cultura aziendale”, come approccio, linguaggio e procedura concreta, impatta e influenza pressoché tutti gli ambiti della società. Quindi anche la società dello spettacolo. Forse, la sola parola “ricerca” tocca tasti dolenti, e quindi scatena moti insofferenti nel teatro. Il tasto dolente più preoccupante però è l’insofferenza verso il diverso. È un brutto sintomo, artistico e umano: disdegnare la ricerca è proprio un brutto sintomo.
Insomma, che spazio e che senso ha, o potrebbe avere, o dovrebbe avere, la ricerca-teatrale-oggi-in-Italia, vista dal teatro di produzione? E vista dalla pedagogia teatrale? E vista dalla pedagogia accademica? Dove ci sarebbero le sacche di rottura delle inerzie dei sistemi e dei contesti?
Appunti in occasione dell’incontro Theatre No Theatre/Laudesi
PERCORSI NOMADI – Raúl Iaiza e Thomas Richards
Milano, febbraio 2024
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