Le case del padre e la memoria del teatro
Nasce a Lecce il LAFLIS della Fondazione Barba Varley
La memoria del teatro, due immagini che si guardano
C’è una foto in bianco e nero scattata nel 1974 a Carpiganano Salentino da Tony D’Urso. Si vede, in piazza, una bimbetta sulle spalle di un’attrice, la giovane Iben Nagel Rasmussen, una maschera bianca con le lacrime che le rigano il volto, una giubba anch’essa bianca quasi da Pulcinella e un tamburo dal quale svolazzano alcune strisce di stoffa che s’immaginano colorate.
In quell’estate l’Odin Teatret, che Eugenio Barba aveva fondato a Oslo nel 1964, si era trasferito in Puglia per sperimentare il “baratto teatrale”, una reinvenzione di quello che gli antropologi chiamano potlach. Quel soggiorno è una delle esperienze fondanti del teatro contemporaneo.
La foto di Tony l’hanno ingrandita e stampata. Poi l’hanno appesa nel luogo in cui si trovavano Iben e la bambina. Cinquant’anni dopo, Angela è una donna dal sorriso sincero. Sale sulle spalle di un’altra giovane attrice, Antonia Cioaza, si mettono nella stessa posizione della foto. Le due immagini, quella che si trova ormai nei libri di storia del teatro e le due figure che vediamo davanti a noi, nella luce del tramonto, si accostano, si sovrappongono, dialogano.
Nel gruppo di chi oggi osserva la scena, qualcuno era già a Carpignano nel 1974 e fu testimone di quello spettacolo di strada. Qualcun altro allora non c’era, ma ha studiato l’Odin Teatret sui libri e nei film. E poi c’è chi vede per la prima volta quelle figure in precario equilibrio e si incuriosisce… Si scattano altre fotografie, si producono altre immagini.
La testimonianza di Angela sul suo ricordo di bambina è stata raccolta in un’intervista e inserita nell’applicazione di realtà aumentata Il baratto a Carpignano ideata da Andrea Carraro per CarraroLab nel quadro di un progetto europeo sul teatro immersivo, Spores: è “una raccolta vivente delle voci di chi ha vissuto il Baratto nel 1974. Una serie di interviste etnografiche raccoglie le voci dei testimoni, che animano le immagini storiche, inserite in fotografie immersive della Carpignano attuale” (fruibile sia con visori 3D che su schermo).
Ricordi personali, libri e memorabilia, dibattiti e incontri, memorie digitali, realtà aumentata…
Qualcosa è destinato a sparire per sempre, qualcosa viene preservato nella speranza che duri in eterno.
Come funziona la memoria del teatro? Come si sedimenta? Come si riattiva per farla vivere?
L’addio al Nordisk Teatr Laboratorium di Holstebro e la nascita del LAFLIS a Lecce
Sono in Salento con Julia Varley, Eugenio Barba e una trentina di amici. Festeggiamo la nascita del Living Archive Floating Islands (LAFLIS), che vuole essere un archivio vivente.
Con un sofferto addio, Eugenio e Julia hanno abbandonato il Nordisk Teatr Laboratorium di Holstebro, fondato e animato instancabilmente per cinquant’anni da Eugenio. Oggi l’Odin Teatret, la compagnia fondata da Barba, e il Nordisk Teatr Laboratorium vivono due storie diverse.
Per il nuovo direttore (ed ex direttore amministrativo) del Nordisk Teatr Laboratorium, nominato nel gennaio 2021 con l’accordo del suo predecessore,
il mondo sta cambiando, e anche le richieste di ciò che un teatro deve essere in grado di fare. (…) Noi paghiamo per il lavoro che viene eseguito. Sarebbe anche irresponsabile dato che riceviamo denaro pubblico.
I rapporti si sono presto deteriorati, fino alla clamorosa rottura. Ad alcuni dei vecchi attori dell’Odin – Donald Kitt, Roberta Carreri, Kai Bredholt e Iben Nagel Rasmussen – il direttore Per Kap Bech Jensen ha offerto una collaborazione, che hanno accettato. Altri non hanno trovato un ruolo: Else Marie Laukvik (che è con noi a Lecce), Tage Larsen, Julia Varley, Ulrik e Rina Skeel, Jan Ferslev e Anne Savage.
Adesso che abbiamo vinto la scommessa di restare insieme quasi tutta una vita, abbiamo bruciato la nostra casa e ci accingiamo a costruirne un’altra sempre con lo stesso nome, sempre con gli stessi sogni.
Oggi 4 novembre 2022 noi, Eugenio Barba, Judy Barba e Else Marie Laukvik, fondatori dell’Odin Teatret a Oslo il 1° ottobre 1964, abbiamo creato l’Associazione Odin Teatret che continuerà con spettacoli e attività a Holstebro e all’estero.
Il 5 dicembre 2008 l’Instituto Universitario Nacional del Arte (IUNA) di Buenos Aires consegnò la laurea honoris causa a Eugenio Barba, che intitolò il suo discorso d’accettazione Elogio dell’incendio.
Sappiamo perché i teatri brucino e siano bruciati: per incuria, per la crudeltà del cielo, per speculazione, per malavita, per fascismo, per vendetta e minaccia, per vecchiaia.
Nel teatro, in questa “terra del fuoco”, appaiono due diverse nature. L’una è catastrofe, l’altra trasformazione. L’una distrugge, l’altra raffina, rafforza il ferro e separa l’oro dalla fanghiglia a cui è incorporato. Di questo secondo fuoco faccio l’elogio. Da questo secondo fuoco la nostra professione trae la vita e il suo valore. La sua danza.
Holstebro è stata per oltre cinquant’anni una delle capitali mondiali del teatro, culla di uno straordinario progetto artistico, pedagogico e culturale, meta di pellegrinaggi da tutti i continenti. Oggi quell’esperienza è definitivamente conclusa, la frattura consumata.
Amareggiato? No, ho soprattutto vergogna. E per me è più duro, più pesante. Mi vergogno di non aver potuto proteggere i miei attori e anche altri che avevano lasciato la loro patria per venire a lavorare all’Odin Teatret a Holstebro. Else Marie Laukvik, che ha fondato il teatro insieme a me a Oslo – beh, il modo in cui è stata trattata… Non le è stato nemmeno permesso dal teatro di mantenere il suo indirizzo digitale perché costava denaro, e non era più scritturata. E Ulrik Skeel, che ha lavorato sodo per far collaborare insieme le diverse istituzioni culturali di Holstebro – licenziato. Questo era il modo in cui le persone venivano trattate, un modo brutale e offensivo.”
(Eugenio Barba intervistato da Mette Grith Sørensen, “Holstebro Dagbladet”, 26 marzo 2023)
Così Eugenio Barba brucia la sua casa teatrale e torna in Salento, dov’era nato nel 1936, per ricominciare a 87 anni una nuova impresa. Grazie anche all’impegno dell’Università di Lecce e di Luigi De Luca, direttore del Museo Castromediano di Lecce e coordinatore dei poli biblio-museali della Regione Puglia, la Biblioteca Bernardini di Lecce, che già ospita l’archivio Carmelo Bene e il Fondo Silvio D’Amico (con il cantiere della mitica Enciclopedia dello Spettacolo), ha accolto il suo archivio, dopo che il regista ha donato alla Regione Puglia il suo fondo personale, con una biblioteca di circa 6000 volumi e una copia dell’archivio dell’Odin Teatret: i documenti originali conservati dalla compagnia erano stati registrati, archiviati e donati nel 2014 alla Biblioteca Reale di Copenaghen, dopo un lavoro di dieci anni documentato da Mirella Schino nel saggio Il libro degli inventari. Odin Teatret Archives (Bulzoni 2015).
Ora è tempo, ovvero tre giorni di festa in Salento
La nascita del LAFLIS è stata festeggiata tra il 4 e il 5 ottobre 2023 con la presentazione di libri e filmati sull’Odin Teatret, la performance inaugurale del Teatro Tascabile di Bergamo con i Libri che volano, la videoinstallazione di Stefano Di Buduo e Teatro Potlach Libri che bruciano, la mostra con le foto e i manifesti di Peter Bysted.
Poi c’è l’immaginifico allestimento di Luca Ruzza, che evoca le tre storiche sale del Nordisk Teatr Laboratorium: nella Sala Nera si condensa l’universo dell’Odin, in quella Rossa si mappa l’arcipelago del Terzo Teatro, mentre la Sala Bianca è dedicata a Barba.
Si sale una scala, ed è possibile entrare nel camerino di Julia e nell’ufficio di Eugenio a Holstebro, un condensato di fotografie, icone amuleti e feticci del teatro contemporaneo, ricostruito 2.500 chilometri più a Sud.
Il 6 ottobre, un emozionante tour ci porta a Gallipoli, dove Barba ha passato l’infanzia, Otranto e Carpignano Salentino, con lo stesso regista nelle vesti di instancabile – e a volte commossa – guida turistica.
Le case del padre
Nel 1974 l’Odin Teatret aveva portato in Salento e in Sardegna decine di repliche di Mins Fars Hus (che era stato alla Biennale di Venezia nel 1972), ovvero La casa del padre, uno spettacolo per poche decine di spettatori ispirato a Fedor Dostoevskij. Il padre dello scrittore venne assassinato dal servi, perché approfittava delle loro figlie. E il tema del parricidio – reale, desiderato, immaginato, come insegna Freud in Dostoevskij e il parricidio (1928) – ritorna come un’ossessione nei Fratelli Karamazov.
Eugenio Barba è stato un padre per un’importante fetta del teatro contemporaneo. Nel 1976, al BITEF, il festival mondiale del teatro di Belgrado, ha lanciato il Terzo Teatro, chiamando a raccolta i gruppi indipendenti che stavano fuori dalle grandi istituzioni ma anche dall’area della ricerca. Caratteristiche di queste realtà, attive soprattutto in Europa e in Sud America, la marginalità, l’autodidattismo, la dimensione etica ed esistenziale del mestiere, la vocazione sociale. Per questa rete, Barba è da decenni la guida politica e il punto di riferimento culturale: l’esempio dell’Odin, la sua visione a lungo termine, il carisma e il radicalismo, le astuzie politiche, la necessità di reinventarsi restando fedele a un nucleo etico intimo e segreto, hanno ispirato generazioni di giovani teatranti. Eppure quel padre è stato cacciato dalla casa che aveva costruito con tenacia, riadattando e allargando, a partire dal 1966, una vecchia stalla alle porte di un’ignota e noiosa cittadina danese.
Quante sono le “case del padre” che s’incontrano o che si evocano in queste giornate?
Passiamo accanto alla casa di Eugenio a Gallipoli: ora è un B&B con un rating di 9,5 su Booking. Quel borgo di pescatori, che nell’Ottocento era il terminale del commercio del pregiato olio salentino, usato per illuminare le città di tutta Europa, è ora travolto dall’overtourism. Boutiques, bistrots et souvenirs… Mentre tutto intorno, lungo la strada, si vedono gli uliveti ormai rinsecchiti dalla xylella…
Casa del padre è anche il cimitero. Arrivando a Gallipoli, Barba ricorda che quand’era bambino si usava andare quasi tutti i giorni a visitare il camposanto, lontano un paio di chilometri dall’isola su cui sorge la città antica, per parlare con i morti e decorare le tombe con fiori sempre freschi e odorosi. Oggi, aggiunge Barba, a trovare i propri morti al cimitero ci si va forse una volta l’anno e sulle tombe si possono portare solo fiori di plastica. I fiori veri marciscono e il puzzo diventa insopportabile.
A Holstebro, sotto una grande pietra chiara, c’è lo tomba di Torgeir Wethal, uno degli straordinari attori dell’Odin, scomparso nel 2010. L’idea era di essere sepolti qui, tutti insieme, ma chissà cosa accadrà dopo la diaspora.
Anche tra coloro che hanno seguito con attenzione il lavoro dell’Odin in Italia, a cominciare da una pattuglia di professori universitari, qualcuno se n’è andato per sempre, come Nando Taviani, Fabrizio Cruciani o Claudio Meldolesi. Ma con noi ci sono Franco Perrelli (il traduttore del teatro del norvegese Jon Fosse, che proprio in quei giorni vince il Premio Nobel), Marco De Marinis, Mirella Schino e Nicola Savarese, che è anche l’archivio vivente del teatro eurasiano (vedi il poderoso I cinque continenti del teatro di Eugenio Barba e Nicola Savarese, Edizioni di Pagina, Bari, 2017). Dall’estero studiosi come Jean-Marie Pradier, Richard Gough, Ian Watson. Compagni di lotta, li definisce spesso Eugenio con gratitudine.
Casa del Padre sono anche le chiese. Come Santa Maria della Purità, edificata nel Seicento dalla confraternita dei Bastasi, gli scaricatori di porto, e affacciata sul mare. L’Oratorio custodisce l’impressionante statua del Cristo Morto, che veniva portato in processione per tutta la notte del Venerdì Santo quando Eugenio era bambino. Sul lungomare di Gallipoli, si inginocchia a terra, mostra come le donne alle quali era stato esaudito un voto avanzassero sulle ginocchia e rimbalza in piedi come una molla, per riprendere il racconto. Perché nel cuore del rito ci sono anche le madri, le donne.
La casa del padre può essere anche un museo. Poco distante, in una palazzina nel cuore di Gallipoli ha sede quello dedicato al bisnonno di Eugenio, Emanuele, medico dei poveri e garibaldino. L’ingresso è occupato quasi per intero dallo scheletro di un gigantesco cetaceo. Nel 2013 l’Odin Teatret aveva realizzato uno spettacolo con le scorie di altri spettacoli, intitolato Nello scheletro della balena. Nelle note del regista si leggeva
«Una generazione perversa e adultera pretende un segno! Ma nessun segno le sarà dato, se non il segno di Giona.» (Mt 12,39). (…) In una sala dalla luce fioca, fra due bianche tavolate dove siedono 50 spettatori che mangiano pane e olive e sorseggiano vino, si svolge un «rituale vuoto». Lo scheletro è ciò che resta quando il teatro ha perduto tutto ciò che è fatto per essere visibile e raccontato, conservando però quel che lo regge dall’interno e lo tiene in piedi: le storie sotterranee che guidano gli attori; la relazione fra attori e spettatori; la ricerca di un contatto e di un vuoto fecondo, dal quale il senso, differente per ciascuno spettatore, possa emergere e zampillare.
E poi nel Museo si sono accumulati libri, quadri, le lanterne e gli oggetti antichi che i contadini trovavano nei campi e portavano a lu duttore, sapendo della sua passione per l’archeologia. Uccelli e granchi impagliati, fossili, lapidi e frammenti di sculture antiche, ritratti di cittadini illustri. Due grandi palle di ferro che sembrano mine.
Al piano superiore di questa Wunderkammer, in una stanza appartata, la sezione dedicata alle patologie fetali e animali: “Un tempo le donne non la potevano visitare, questa sezione del Museo. Anzi, dovevano passare alla larga da questo edificio”, ricorda Barba.
Casa del padre è ovviamente anche la patria, anche quella fascista che serviva il padre di Barba, console della Milizia, perduto quando era ancora bambino. È la patria che Barba aveva abbandonato da giovane uomo, e dove ora ritorna. Anche se la sua patria vera è stata un’altra, il teatro, mondo utopico invisibile e frattale e tuttavia reale. È l’arcipelago delle isole galleggianti, la galassia dei gruppi del Terzo Teatro, ma è anche la mappa antropologica del teatro eurasiano, esplorata dall’ISTA, l’International School of Theatre Anthropology, dove Barba ha fatto incontrare i maestri delle grandi tradizioni teatrali. È una geografia che ha anche una storia e dei padri, a cominciare dai maestri che Barba cita spesso: Stanislavskij, Copeau, Mejerchol’d, Grotowski… Appena riesce a interrompere il flusso affabulatorio di Eugenio, Julia puntualizza che quella del teatro è stata finora una genealogia quasi esclusivamente di maschi. Ne ha parlato anche con Mattea Fo, la nipote di Franca e Dario, che presentando il progetto del trasferimento dell’archivio Fo-Rame a Pesaro ha ribadito il ruolo cruciale della nonna nel lavoro teatrale della coppia. In questa memoria teatrale, le donne sono oggetto di un’imperdonabile rimozione. Julia ricorda il Magdalena Project, la rete internazionale delle donne a teatro, che continua a vivere anche se è stata anch’essa sfrattata da Holstebro. Invece delle patrie in perenne guerra tra loro, dovremmo onorare PachaMama, la nostra Madre Terra.
Dagli “stranieri che danzano” alla Notte della Taranta
C’è un’altra storia che bisogna raccontare, per capire che cosa significa e memoria del teatro, e che è iniziata proprio a Carpignano Salentino in quel lontano 1974 e arriva fino a noi. C’erano due gruppi di ragazzi e ragazze, nel borgo. I giovani del Sud, con i loro pregiudizi e le loro curiosità: sono contenti che finalmente succeda qualcosa anche in quel borgo. Poi ci sono i giovani del Nord, con il pregiudizio di non avere pregiudizi, come notava Torgeir Wethal. Il baratto ideato da Barba prevede uno scambio tra “gli stranieri che danzano” e gli ospiti, ma quando i due gruppi iniziano a parlarsi si accorgono che ascoltano i Beatles, sia gli uni che gli altri. “Non è questo che ci interessa”, dicono i ragazzi del Nord. Vogliono incontrare qualcun altro, un’altra cultura. Siamo nelle terre che ha visitato Ernesto De Martino, quando studiava il tarantismo, quello strano rituale che aveva per protagoniste soprattutto le donne. Così vengono coinvolti gli anziani, quelli che ancora ricordano come si balla la pizzica. Due mondi che si sfiorano: gli anziani del Sud e gli hippy teatrali del Nord, gli antichi rituali pagani e i seguaci del training inventato da Jerzy Grotowski. Potrebbe finire tutto nel momento magico di quel baratto tra culture e generazioni, un bel ricordo che piano piano sbiadisce dopo che i visitatori sono tornati nella loro terra.
Invece quella vicenda ai ragazzi di Carpignano ha insegnato qualcosa: “Ma devono venire questi nordici a insegnarci quello che noi sappiamo fare da sempre?”, ovvero l’ospitalità, lo scambio, l’incontro, la festa. Così un gruppo di giovani abitanti di Carpignano organizza la prima Festa Te Lu Mieru, la festa del vino, con musica, canti, balli, vino e cibo, spettacoli… È la prima volta che un evento del genere non viene organizzato per venerare un santo, tanto che la Festa Te Lu Mieru viene considerata la genitrice di tutte le sagre. In breve il modello si diffonde, contagia. Arriva anche a Melpignano, il paese accanto. Cinquant’anni dopo, quella bambina italiana sulle spalle dell’attrice danese è diventata la Notte della Taranta, che coinvolge ogni anno decine di migliaia di persone. Quando gli chiedo di questa storia, l’assessore alla Cultura di Carpignano, Salvatore Rizzello (è uno scultore ed è vestito come Jack Sparrow) scuote la testa. La massificazione, l’invasione della zona, l’esplosione mediatica, la festa ridotta a consumo non gli piacciono.
Questa vicenda l’ha ricostruita (compreso il passaggio che porta, attraverso Giorgio Di Lecce e Cristina Ria, dalla pizzica pizzica alla taranta) Vincenzo Santoro, studioso delle culture popolari del Mezzogiorno e organizzatore di iniziative ed eventi, nel suo Odino nelle terre del rimorso. Eugenio Barba e l’Odin Teatret in Salento e Sardegna (1973-1975) (Squilibri, 2017, con un DVD che contiene In cerca di teatro. L’Odin Teatret di Eugenio Barba in Salento di Ludovica Ripa di Mena e Dressed in White-Vestita di bianco di Torgeir Wethal con Iben Nagel Rasmussen).
Che rapporto ci può essere tra la possessione delle tarantate che sconvolgeva De Martino e il concerto rock, anche se seguono lo stesso ritmo? Tra “teatro delle sorgenti” di Grotowski e i “maestri concertatori” della Notte della Taranta, star come Joe Zawinul e Goran Bregović? E nelle ultime edizioni Dardust e Fiorella Mannoia?
Per certi aspetti, la Notte della Taranta è la memoria del baratto architettato da Barba e dai suoi compagni d’avventura. Ma abbiamo perso qualcosa d’importante. Forse avrebbe potuto succedere qualcosa di diverso. Forse avrebbe dovuto succedere qualcosa di diverso.
Il terrore del bambino, la risata del maestro
Maggio 2019. Sono a Holstebro, su invito di Eugenio Barba. Sono arrivato all’aeroporto di Billund, che è anche quello più vicino a Legoland: qui sono nati i mattoncini colorati con i quali da bambino potevo costruire (e poi distruggere) qualunque casa (o cosa). La piazza centrale di Holstebro è occupata dal Centaure Village: una compagnia francese di nuovo circo equestre, il Théâtre du Centaure, ha portato qui i suoi cavalli, ha montato un tendone dove accoglierli e ha allestito una pista dove esibirsi. In realtà le loro esibizioni punteggiano l’intera giornata. I centauri entrano nel moderno centro civico, penetrano nella biblioteca e nella sede del municipio, entrano perfino in chiesa, in un rituale dove s’avvicinano con solennità all’altare e danzano.
L’Odin Teatret è diventano un modello per le sue estenuanti sedute di training, che plasmano i corpi e la psiche degli attori. E’ noto per l’ossessivo lavoro di prove nelle tre sale del Nordisk Teatr Laboratorium, quella Nera, quella Bianca e quella Rossa, dove il gruppo sembra asserragliarsi per trovare rifugio alle inquietudini e alle tragedie del mondo.
Invece da sempre la compagnia invade la città, in un dialogo costante, con attività di animazioni e festival, come i Festuge, che animano l’agosto cittadino dal 1989. Queste attività non sono state richieste all’Odin dalla municipalità, è una necessità che Barba e il gruppo di stranieri hanno sentito fin dall’inizio, come racconta anche Alberto Pagliarino (Un teatro e la sua città. L’esperienza della Festuge in trent’anni di storia dell’Odin Teatret, in “Mimesis Journal”, 11, 1 | 2022, p. 101-120).
Approfittando della presenza del Théâtre du Centaure, ogni mattina dal Village esce uno strano corteo. Il Centauro è accompgnato e guidato da Mister Peanut, la maschera della morte che indossa con inesauribile energia (e un’allegria sudamericana) Julia Varley. Mentre seguiamo la minuscola processione, Barba mi racconta di aver incontrato qualche tempo prima un amico d’infanzia dei suoi figli, che gli aveva ricordato: “Quando ero bambino e andavo a scuola, mandavi in giro per il centro del paese la maschera della morte. Ancora oggi mi ricordo perfettamente il terrore che provavo quando la incontravo…” E Barba, che si è laureato in storia delle religioni a Oslo nel 1965, scoppia in una risata da maestro zen.
Quel ricordo perturbante, ancora inciso nella memoria, è la prova che quelle incursioni, in apparenza inutili e gratuite, avevano un senso profondo e hanno raggiunto il loro obiettivo, almeno in questo caso. Quello spavento gli ricordava le emozioni dell’infanzia, quando a Gallipoli seguiva (o sentiva passare dalla sua stanza) i suoni delle processioni notturne.
È presto, il nostro bizzarro corteo non incontra molti passanti. Arriviamo di fronte al Vecchio Municipio di Holstebro. Sul marciapiede c’è una botola. Aspettiamo qualche minuto. La campana batte le ore. La botola si apre per lasciar emergere piano piano una statua sottile, la Ragazza sul carretto di Alberto Giacometti. Il sindaco di Holstebro, lo stesso che aveva chiamato l’Odin nella sua città, aveva acquistato l’opera per la somma (che ad alcuni parve esorbitante) di 210.000 corone. Adesso la scultura vale molto di più, e ogni tanto qualcuno propone di venderla per pagare i debiti del Comune: ma i cittadini si sono affezionati alla Maren å æ woun, come la chiamano. La scultura era stata oggetto di alcuni atti vandalici (o tentativi di furto) e dunque hanno deciso di proteggerla: come Proserpina, durante la notte cala agli inferi. Mister Peanut, la maschera che non può morire ma solo trasformarsi, e il Centauro, la chimera di animale e cavaliere, accompagnano con la loro danza rituale l’apparizione di questa figura leggiadra e infernale, tra la curiosità dei passanti.
Case di pietra, case di carta, case della memoria
In apparenza le case dei padri sono solide. Devono proteggere i figli e i nipoti, ma soprattutto custodire e trasmettere ai figli e ai nipoti la tradizione e la sua ricchezza.
Il teatro è effimero, labile. Nel momento stesso in cui accade, è solo un ricordo che svanisce. La memoria del teatro sono i ricordi degli spettatori: dimentichiamo quasi tutto, ma ci sono ricordi che restano indelebili. Se di uno spettacolo, dopo decenni che l’hai visto, ti ricordi un’immagine, vuol dire che ha funzionato.
Tuttavia anche le case dei padri possono rivelarsi fragili, mentre la memoria effimera del teatro cerca una casa che custodisca i suoi segreti, per aprirli in futuro a chi li sappia cercare. La memoria del teatro sono anche gli archivi, che però devono essere memoria viva e non un polveroso deposito. Memoria del teatro sono anche i libri, case di carta che volano o camminare, o che magari hanno le ruote e fanno viaggiare sogni e utopie. Barba ha firmato decine di libri, ed è anche un autentico scrittore, per esempio quando ricorda il suo rapporto con la famiglia. Memoria del teatro è la pedagogia, sono i laboratori che trasmettono il sapere da una generazione all’altra… Memoria del teatro sono i libri che cercano di raccontare un percorso formativo, come la raccolta dei testi di Torgeir Wethal che attraversa sessant’anni di lavoro, a cui stanno lavorando Marco De Marinis e Raul Iaiza, insieme a Roberta Carreri.
Il teatro è una sfuggente casa della memoria, dove possono sopravvivere antichi riti e si mettono in scena tragedie vecchie di 2500 anni che ancora ci parlano. Ma quella memoria segue sentieri imprevedibili, spesso sotterranei. Il presente si perde nel passato, si contraddice, si moltiplica, si ibrida, si tradisce. A volte si ritrova.
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