Le residenze di MigraMenti | Come progettare e sperimentare un dispositivo di teatro partecipato
Considerazioni e diario di un’osservatrice di Pay-per-View di Alessandro Businaro e Stefano Fortin, con un'intervista agli artisti
Le residenze, la Calabria, Badolato
Osservare le residenze
Su invito del Teatro del Carro, ho “osservato” nelle giornate finali il lavoro di Alessandro Businaro e Stefano Fortin, con Lorenzo Frediani e Chiara Businaro, impegnati in residenza nel progetto Pay-per-View a Badolato.
Mi è già successo di “accompagnare” la nascita e le fasi iniziali delle residenze lombarde, ho seguito tutta la vita le prove degli spettacoli che producevo, ma questo tipo di esperienza – cioè osservare il percorso breve della residenza artistica di un gruppo giovane che non conosco (ancora) – è relativamente nuova.
Mi sono chiesta cosa fa (che cosa ci si aspetta da) un osservatore “critico-organizzativo”, se può (e come può) essere utile, quanto deve appunto “osservare” e quanto interagire. Il rischio inevitabile è sovrapporre la propria esperienza, le conoscenze pregresse, i cortocircuiti della memoria che qualunque progetto apre, alle specificità del progetto che si osserva. La sfida, e il bello (non so se anche l’utilità) sta nell’individuare l’originalità degli obiettivi, degli approcci, del metodo di lavoro, e anche nel rilevare (e forse discutere) limiti e criticità.
C’è una cosa che tutti sappiamo ma che forse è utile ricordare: la diffusione della pratica delle residenze artistiche ha modificato i modi di produzione, soprattutto per i gruppi giovani. Fino a dieci o quindici anni fa, le modalità prevalenti – se pure dopo fasi di studio, preparazione eccetera, ciascuno a suo modo – erano quelle classiche: scegliere un testo (o magari un tema su cui costruire un testo in prova), individuare eventuali coproduttori, definire un periodo di prove preciso, uno o più luoghi dove provare nel corso di quel periodo, debuttare (e se possibile girare). Da alcuni anni ormai (e in crescendo dopo i Decreti Ministeriali dal 2014 in avanti e gli accordi di programma Stato-Regioni) i gruppi cercano una o più “residenze”, quasi sempre con verifiche pubbliche. Le residenze sono altrettante fasi del percorso produttivo che prima o poi (forse) arriva a conclusione. Personalmente credo che questo sia l’effetto di un limite (grave) del sistema, anche se si stanno affermando vie di mezzo e varianti interessanti (alcune istituzioni hanno promosso e accolto residenze più strutturate, alla francese).
Tuttavia le residenze artistiche consentono processi creativi originali (anche se a volte troppo estenuati), fasi e affinamenti progressivi, trasformazioni dei progetti in corso d’opera, interazioni e verifiche che modificano la percezione e in parte il ruolo degli spettatori. È per queste funzioni – ma con la consapevolezza che di percorsi produttivi (quasi sempre) si tratta – che andrebbero valorizzate molto più di quanto non succeda.
In questa fase le residenze sono le principali depositarie del ricambio generazionale, ma sono anche luoghi (al di là delle definizioni e dei riconoscimenti ministeriali e regionali) sottofinanziati in rapporto alle funzioni e alle aspettative, che sono particolarmente elevate soprattutto nei territori meno serviti, più poveri di istituzioni. In Calabria per esempio.
La Calabria e le residenze
In Calabria non ci sono Teatri stabili né Centri di produzione riconosciuti (di nessuna tipologia), non ci sono circuiti, non ci sono Fondazioni Lirico-sinfoniche. Secondo statistiche pre-Covid, con il 3,26% degli abitanti della penisola, la regione registra il 1,19% dell’offerta nazionale di spettacolo (per numero di rappresentazioni) e riceve lo 0,27% del FUS (che come si sa interviene dove le organizzazioni esistono). La Regione Calabria non spende molto meno di altre per cultura e ricreazione: 11 centesimi pro capite: è vero che Emilia-Romagna, Toscana e Umbria ne spendono 14 o 15, ma Puglia e Campania investono ancora di meno e la ricca Lombardia arriva solo a 12. È l’Italia a diverse velocità (e che attribuisce alla cultura ruoli molto diversi). Per approfondenti dei dati statistici e dei riferimenti normativi: Le politiche per lo spettacolo dal vivo fra Stato e Regioni, a cura di Caporale, Donati, Gallina e Panozzo, Franco Angeli 2023. (L’appendice statistica è a cura di Giulio Stumpo).
In questo quadro, la Regione Calabria, nella Legge Regionale 18 maggio 2017, n. 19 Norme per la programmazione e lo sviluppo regionale dell’attività teatrale, una Legge esclusivamente dedicata al teatro, cerca una sua strada e sembra attribuire alla Residenze una funzione strategica, quasi di supplenza rispetto all’assenza di istituzioni.
Nella legge il riconoscimento di Residenza comporta la gestione di spazi nella disponibilità di enti pubblici (per un triennio rinnovabile) e attività di produzione, oltre che di formazione e programmazione multidisciplinare e orientata alla valorizzazione del turismo culturale. Il bando 22/24, allineato al finanziamento MiC, ridimensiona un po’ le funzioni e prevede tanto un Centro di Residenza (che però non ha potuto essere riconosciuto perché non c’è: i soggetti interessati non si sono messi d’accordo; i teatranti calabresi sono comprensibilmente cauti – l’impegno era notevole – o forse fanno un po’ fatica a mettersi assieme) e Residenze per artisti nei territori. In questa tipologia
i progetti e le attività connesse devono essere fondati su una progettualità condivisa tra l’artista ospite e la struttura ospitante e mettere l’accento sull’accompagnamento alla creazione artistica del residente, anche sviluppando la capacità di coinvolgimento creativo delle comunità territoriali. Le attività di accompagnamento dovranno costituire il fulcro del progetto e potranno essere affiancate, in modo comunque non prevalente, da restituzioni del lavoro svolto o da spettacoli ospitati strettamente coerenti con il progetto stesso e nettamente distinti dalle eventuali attività di programmazione della struttura ospitante e dei soggetti titolari del progetto di residenza.
Per ogni Residenza per artisti nei territori, il contributo regionale è stato per il primo anno di euro 66.666,67 (per il Centro di Residenza sarebbe stato di euro 375.000,00). Le residenze riconosciute sono state quelle di Dracma a Polistena (Reggio Calabria), Primavera dei Teatri a Castrovillari (Cosenza) e Teatro del Carro a Badolato (Catanzaro).
Il Teatro del Carro, il progetto MigraMenti
Il Teatro del Carro Pino Michienzi è in primo luogo una compagnia di produzione. Obiettivi e programmi sono orientati con convinzione alla rappresentazione di temi e alla valorizzazione degli autori calabresi. Lo spettacolo Spartacu Strit Viù. Viaggio sulla S.S. 106 (scrittura scenica Francesco Gallelli e Luca Michienzi, regia Luca Maria Michienzi, con Francesco Gallelli), visto l’anno scorso a Catanzaro, è una convincente espressione di questa linea, uno spettacolo politico originale, ben costruito e ben interpretato.
Per un approfondimento: Una finestra sul teatro calabrese
L’“appartenenza” e la “lingua madre” calabrese stanno molto a cuore al Teatro del Carro, ma questo non impedisce, anzi stimola, lo spirito di confronto nazionale che è alla base del progetto di residenza MigraMenti, attivo con continuità dal 2012, da quando cioè la compagnia ha in gestione il Teatro Comunale di Badolato.
La scelta dei progetti è orientata a “idee performative e drammaturgiche inedite, fondate sul concetto di ricerca contemporanea e ascolto del territorio”, progetti al primo stadio della creazione e della ricerca, che si muovono tra tradizione e innovazione. Inoltre
MigraMenti vuole essere un’esperienza nuova e originale per sintetizzare il desiderio di trovare un luogo adatto a mettere assieme la sperimentazione artistica con un diverso modo di fruire degli spazi di produzione, ricerca e studio, in continuo dialogo con la comunità e il territorio.
Con riferimento alle diverse sezioni del bando, quest’anno sono pervenuti 151 progetti e ne sono stati selezionati 5.
Badolato e il suo Teatro Comunale
MigraMenti, in linea con il profilo e gli obiettivi comuni alle residenze artistiche, offre un luogo adatto a concentrarsi e sperimentare, propone e chiede di relazionarsi con un territorio specifico.
Quanto alla possibilità di concentrarsi, il Teatro Comunale di Badolato presenta senza dubbio una condizione ideale. È un edificio degli anni Novanta, ha subito un successiva ristrutturazione una quindicina di anni dopo e per la verità richiederebbe molti interventi: il Teatro del Carro ha ottenuto un contributo importante (e un ottimo punteggio) sul bando PNRR di riqualificazione energetica ma ci sono problemi di cofinanziamento e per ora il progetto non può decollare. In compenso ha un discreto palco e una platea rettangolare, che costituisce uno spazio di lavoro mobile, senza sedie o altre strutture fisse. E’ un luogo di ritiro vista mare, a un chilometro e mezzo dalla Marina, a sette dal borgo antico. Forse anche troppo isolato: nessuna distrazione.
L’isolamento non è la condizione ideale per coinvolgere gli abitanti del territorio, almeno non secondo modalità laboratoriali, che richiedono tempo e conoscenze approfondite. Su questo forse il testo del bando di MigraMenti può creare equivoci, ma l’approccio sociale al territorio non è l’unico possibile e la situazione può suggerire altre forme di partecipazione: negli anni il Teatro si è costruito un proprio pubblico, che abbiamo visto molto disponibile a farsi coinvolgere in occasione della restituzione pubblica informale di Pay-per-View.
Il Teatro Comunale di Badolato: esterno, interno e dall’alto, fra mare e collina
Uno scorcio del centro del borgo antico di Badolato e il borgo visto dal teatro
Dai curdi a Badolato alle politiche per i borghi
Arrivando a Badolato, e pensano a questa località come sede di ricerca, mi aspettavo un collegamento più stretto del progetto di residenza con i problemi socio-economici del paese e della costa ionica della Calabria, che conosco superficialmente ma che posso immaginare.
E’ un limite forse un po’ “coloniale” pensare che nei territori disagiati si debba trattare questo tipo di problemi, antichi o recenti, cronici o contingenti, e non quelli esistenziali, o generazionali, comuni a tutto il paese o ad altri territori (il Veneto di Businaro e Fortin per esempio).
Di Badolato i più vecchi forse ricorderanno lo sbarco dalla nave Ararat con 800 profughi soprattutto curdi, la sera del 26 dicembre 1997. L’accoglienza e l’insediamento dei curdi a Badolato fu un’esperienza pilota, antesignana del “modello Riace” di Mimmo Lucano. Antonio Neiwiller, che scelse di risiedere qui per un certo periodo, girò su quella vicenda un bel video assieme a Loredana Putignani. Del passaggio di Neiwiller da queste parti pochi si ricordano, dei curdi accolti venticinque anni fa ne è rimasto forse uno sullo sbarco della nave Ararat e sui curdi a Badolato c’è molto materiale on line.
Badolato oggi è uno dei “borghi più belli d’Italia”, l’unico Comune della Provincia di Catanzaro e uno dei 15 in Calabria a ottenere questo riconoscimento. Ma il borgo (la frazione antica del Comune) è spopolato: è un paese per vecchi, senza scuole e – a fine settembre – appare quasi disabitato. Il riconoscimento, per quanto prestigioso, non muove (o forse non ancora) il turismo e l’economia in genere. Dei 3.000 abitanti circa (sulla carta: ma quelli effettivamente residenti sono molto meno), solo 300 abitano nel borgo antico, la maggior parte abitano nella Marina, ma i giovani tendono ad andarsene, anche da lì.
Sono tante le contraddizioni e le controindicazioni nelle politiche di lancio e sostegno dei borghi e delle aree interne. Ma la vita di questi paesi è anche una sfida culturale e generazionale. Ne ha parlato in questi giorni in giro per l’Italia e anche da queste parti Filippo Tantillo, presentando il suo libro L’Italia vuota. Viaggio nelle aree interne (Laterza, 2022). Secondo Tantillo, in questi territori emerge
una nuova generazione impegnata in una energica e irriducibile ricerca della felicità, che oppone lo stare insieme agli altri al benessere individualizzato, i colori del mondo al grigiore della prepotenza, l’indipendenza all’abbrutimento del lavoro senza diritti, e che trova nell’Italia vuota uno spazio del possibile. Una generazione che vive una condizione di movimento permanente, senza ancora sapere se e quando si fermerà o atterrerà.
Ritroviamo questo spirito nel progetto We’re South, cui Teatro del Carro ha collaborato, una nuova rete di turismo lento ed esperienziale in sei comuni del Basso Ionio: proposte culturali, ricettive, artistiche, paesaggistiche messe in rete.
Il paesaggio è suggestivo, la campagna bellissima, ma anche in un approccio turistico più tradizionale le spiagge di Badolato e degli altri paesi di questo tratto della costa ionica sono quasi caraibiche e le strutture ricettive non mancano.
Resta il problema delle infrastrutture e dei trasporti (enorme) e di una promozione efficace orientata anche alla destagionalizzazione.
Paesaggi e scorci di Guardavalle, sede della realtà promotrice della rete We’re South, e la spiaggia di Badolato il 25 settembre 2023
Businaro-Fortin e il progetto Pay-per-View. Diario di un’osservatrice
I curricula
Venendo al diario della residenza Pay-per-View, prima cosa è bene leggere i materiali.
I curriculum sono importanti, orientano la riflessione sui progetti, alimentano le aspettative.
Alessandro Businaro, regista, 30 anni, è diplomato alla “Silvio D’Amico”, finalista di Biennale College, dirige un festival (a Rocca di Mezzo in Abruzzo), ha fondato un collettivo europeo di giovani registi, El encuentro.
Stefano Fortin, drammaturgo e dramaturg, 34 anni, si diploma come attore ma la sua vocazione sembra proprio la drammaturgia: finalista al Premio Tondelli, collabora a Abbecedario per un mondo civile al Piccolo Teatro, nel 22 vince Biennale College autori under 40 con Cenere.
Entrambi veneti, ma uno mobile (Alessandro) e l’altro sedentario (Stefano), innamorato di Padova dove è anche ricercatore universitario in ambito linguistico, hanno già fatto parecchie cose assieme: lo spettacolo George II alla Biennale 2020, la trilogia Abitare lo specchio nel quadro del progetto residenziale Orizzonte postumo al Teatro Stabile del Veneto.
E assieme hanno creato una compagnia che nasce per affermare la co-autorialità dei diversi ruoli: come scrivono nei loro materiali, “non esistono collaborazioni ma autorialità condivise (…) non esiste una gerarchia precostituita di autorialità”.
Con lo spettacolo 35040 (è un codice postale veneto), che ha debuttato a Pergine Festival nel 2023, hanno lavorato sulla memoria personale e condivisa sperimentando una modalità partecipativa originale: sono gli stessi spettatori guidati da un performer-musicista a dar vita a una drammaturgia collettiva sul tema della casa.
Lorenzo Frediani, attore, diplomato alla Paolo Grassi, ha lavorato fra gli altri con Peter Stein, Valerio Binasco, Maurizio Schmidt, Fabrizio Arcuri, ma è entusiasta soprattutto della collaborazione con Lisa Ferlazzo Natoli che l’ha diretto in alcuni spettacoli (il più recente e particolare è stato “Anatomia di un suicidio” al Piccolo Teatro). Ha già collaborato con Businaro e Fortin in diverse occasioni, in particolare in “George II” alla Biennale di Venezia. Anche Lorenzo non si accontenta di fare l’attore e nella sua città, Piombino, ha promosso una compagnia e progetti di teatro ragazzi.
Chiara Businaro, la più giovane del gruppo, diplomata attrice alla Silvio D’Amico, sorella di Alessandro, è assistente alla regia, che a maggior ragione nei progetti complicati è un ruolo per niente secondario.
Incontrare di persona il gruppo non delude: come spesso gli operatori teatrali di questa generazione (qualunque sia il ruolo), sono vivaci, preparati, impegnati, informati, in questo caso anche colti (e questo è raro), determinati ma aperti. Meno ingenui dei fratelli maggiori, sicuramente meno fortunati dei padri, sono loro malgrado già esperti delle contraddizioni e dei limiti del sistema teatrale, per quanto ne abbiano colto qualche opportunità, e portati o costretti a pensare anche in termini organizzativi, in prospettiva strategici.
Le pratiche partecipative e l’idea iniziale
In questa fase al centro della ricerca di Businaro/Fortin c’è la partecipazione attiva del pubblico. Il progetto Pay-per-View va letto in continuità con 35040 e come il precedente spettacolo mira a creare un dispositivo che coinvolga totalmente gli spettatori. Alessandro ha iniziato a sperimentare pratiche analoghe anche nel festival che dirige e con i registi europei della rete.
Ancora dallo statement del gruppo (quasi un manifesto):
Gli spettatori sono parte attiva del lavoro teatrale. Non assistono ma partecipano allo spettacolo: la loro presenza e il loro sguardo non vengono presupposti o dati per certi ma conquistati costantemente. In alcuni casi possono essere co-firmatari dell’opera modificandola attivamente.
Il progetto iniziale (già in parte testato al Premio Scenario) intendeva sviluppare questi presupposti e creare un dispositivo partecipativo, applicandolo a un nodo cruciale delle società democratiche: il rapporto fra la tutela della salute e il reddito, fra il nostro benessere (anche psichico) e il denaro di cui disponiamo. Il tema è politicamente e socialmente rilevante: il beneficio e la privazione, lo svantaggio di classe. Il dispositivo è quello del gioco: il pubblico diviso in due squadre avrebbe determinato l’andamento e la sorte dei contendenti fino alla morte, in rapporto alle condizioni economiche.
La documentazione
Fra gli allegati al progetto iniziale, una serie di slide sintetizza con efficacia il tema: il costo delle sedute di psicoterapia, il bonus psicologo, le ospitalità nelle RSA, anziani e disturbi depressivi, quanto costa avere un figlio, povertà e padri separati, gli assegni di mantenimento, le morti per inquinamento nel mondo, le morti per inquinamento a Vicenza.
Prima e nel corso delle prove, sono stati inoltre individuati e analizzati alcuni materiali, molto utili per approfondire il tema e orientare il lavoro scenico. Fra quelli condivisi: Mark Fischer (sulla depressione), Manolo Farci (sull’approccio soggettivo e di classe all’analisi dei privilegi), Ray Dalio (sul successo), Raffaele Alberto Ventura (sulla classe disagiata e la teoria dei giochi) ma anche Marx e Engels (sul rapporto tra pensieri e comportamento materiale), Anton Cechov (dal Giardino dei ciliegi), Vitaliano Trevisan (considerazioni autobiografiche fra precarietà e casualità). Questi materiali sono solo in parte confluiti nella traccia drammaturgica sperimentata con il pubblico.
Uno dei materiali di partenza del progetto, quello che ha poi determinato la svolta della ricerca, è la sconvolgente lettera di Michele, un ragazzo friulano, trentenne, ceto medio, laureato, morto suicida:
Questa è la realtà sbagliata, è una dimensione dove conta la praticità che non premia i talenti, le alternative, sbeffeggia le ambizioni, insulta i sogni e qualunque cosa non si possa inquadrare nella cosiddetta normalità. Non la posso riconoscere come mia. Da questa realtà non si può pretendere niente.
A Michele si contrappone Matteo, con una lunga lettera pubblicata dai giornali veneti che si chiude così:
Nemmeno a me questo sistema va a genio, anzi: così un lavoro me lo sono inventato, il sistema lo provo a cambiare nel mio piccolo, e ho lottato e lotto per ciò che mi appassiona. Perché il mondo ha bisogno di persone che hanno scelto di vivere, con passione.
Michele e Matteo diventeranno i due punti di riferimento del dispositivo scenico.
Come la pratica della residenza consente – e come è nelle linee programmatiche del gruppo – il tema del progetto si è adattato e il taglio è cambiato nel corso dei lavori. Ancora dallo statement:
La creazione teatrale non corrisponde a un prodotto finito ma a un processo. Questo significa che il punto di partenza (il progetto iniziale) e il punto di arrivo (l’evento performativo) potranno parlarsi a distanza ma non coincideranno mai.
Matteo e Michele sono molto simili, hanno in partenza le stesse potenzialità: dallo svantaggio di classe il progetto si è spostato sullo svantaggio generazionale, dal tema della salute al tema della precarietà, temi molto più vicini come età e come esperienza a quelli di Businaro-Fortin. E che sono, se possibile ancora più tragici perché dominati in misura prevalente dal caso.
Il gioco
Il dispositivo del progetto di partenza è stato confermato. Il gioco ha come protagonisti due personaggi dalle biografie simili, che partono dalle stesse condizioni economiche e affrontano un percorso di sopravvivenza a tappe (fra stage non retribuiti, lavori precari, un lavoro vero forse, o forse no). Gli spettatori, divisi in due gruppi, attraverso le gare determinano l’avanzamento o l’arretramento del proprio personaggio e si battono per l’arretramento dell’avversario.
Tuttavia non è facile creare un meccanismo che garantisca il coinvolgimento e il protagonismo degli spettatori, salvaguardando tempi e ritmi, e al tempo stesso definire contenuti e modalità delle gare in collegamento con il tema. Questa ricerca ha occupato gran parte delle prove, con molti adattamenti e qualche rinuncia.
La struttura della performance e la verifica pubblica
Se la gara resta il cuore del progetto, la performance, anche in funzione della verifica pubblica, è stata strutturata in tre parti.
Nella prima parte, all’esterno del teatro, il pubblico viene introdotto al tema dall’attore conduttore, Lorenzo Frediani, richiamando la favola della cicala e della formica: l’apologo invita al risparmio, ma non sempre se ne ricorda la crudeltà. Il pubblico è diviso in due squadre e introdotto al meccanismo del gioco.
La successione delle prove determina il tempo (di vita) e il desiderio (di vivere) dei due contendenti (ovvero delle due squadre). I due fattori appaiono su uno schermo (un semplice computer e un telefonino: una scelta dettata dal contesto). Il gioco termina con la morte di uno dei due contendenti.
Nel finale, messo a punto a Badolato e da verificare nelle prossime tappe, vengono consegnate al pubblico le due lettere di Michele e Matteo.
La cosiddetta “verifica pubblica” è stata molto più che una verifica: fino a quel momento la performance non c’era, senza il pubblico questo spettacolo non esiste, e il pubblico era ed è una grande incognita. Non era affatto certo che il meccanismo avrebbero funzionato.
A Badolato hanno partecipato una quarantina di spettatori, non giovani (non della generazione di Michele e Matteo), molto aperti e motivati: erano consapevoli che non avrebbero assistito a uno spettacolo, ma erano ignari del gioco che li attendeva.
Le squadre hanno espresso dei portavoce, in qualche prova delegati a rispondere, in altri a raccogliere le indicazioni del gruppo. Questo era uno degli aspetti da testare, forse quello più a rischio in rapporto ai tempi e al ritmo del gioco. Nella conduzione è stato fondamentale l’apporto di Lorenzo Frediani, che ha impersonato un conduttore simpatico ma un po’ cinico: è stato capace di stimolare ma anche censurare e troncare la discussione nelle squadre.
Le prove erano più o meno direttamente collegate al tema e si sono dimostrate piuttosto difficili e in qualche caso divisive. Un solo esempio: i due contendenti (le due squadre) alla disperata ricerca di lavoro dovevano decidere a un certo punto del gioco se accettare l’aiuto di un “amico di famiglia” (scelta eticamente molto difficile); la prova consisteva nell’indicare, in una lista di nomi di personaggi famosi, chi è stato raccomandato dalla famiglia e chi no, e si è rivelata molto difficile. Un rebus finale poi si è dimostrato insolubile.
Un aspetto, forse un problema che la verifica ha evidenziato è come il meccanismo del gioco sia così popolare e coinvolgente da prendere i partecipanti al di là e indipendentemente della riflessione sul tema, che rischia quindi di passare in secondo piano. La terza parte della performance, la consegna delle lettere (il suicidio di Michele), ha colpito e sconvolto alcuni spettatori, ma altri – forse la maggior parte – sono rimasti concentrati sul rebus rimasto irrisolto.
Di questo soprattutto si discute, con il pubblico a conclusione della verifica, e a cena fra Businaro-Fortin, il Teatro del Carro (e anche qualche spettatore dai tavoli vicini).
E di tutto si discute a lungo il giorno dopo: ci sono aspetti da mettere a punto, ma l’idea e il meccanismo hanno funzionato, le prossime tappe – altre residenze, altre opportunità – consentiranno a Pay-per-View di decollare.
Per l’osservatrice è stata un’esperienza interessante – per il metodo, il tema, il dispositivo e la modalità di partecipazione – e anche divertente e il risultato è stato decisamente convincente. Restano alcuni temi aperti e domande da porre a Businaro-Fortin.
La parola alla compagnia
Un’intervista a Alessandro Businaro e Stefano Fortin
Rispondendo a un bando in Calabria, avete fatto qualche riflessione sulle specificità del territorio, Calabria e costa ionica? (dal punto di vista socio-politico ma anche rispetto al sistema teatrale)
In questa prima fase del lavoro la nostra intenzione era quella di avere un tempo non produttivo per poter rimettere in discussione le tematiche e l’impianto del dispositivo scenico del lavoro. Sapevamo che la realtà del Teatro del Carro, anche in virtù della specificità calabrese, sarebbe stata il luogo giusto in cui affrontare questa delicata fase senza alcun tipo di pressione e con il tempo necessario per compierla al meglio.
Conoscevate il Teatro del Carro? Come vi siete rapportati e confrontati?
Conoscevamo la realtà del Teatro del Carro grazie all’esperienza positiva che alcuni colleghi avevano già avuto con loro in precedenti edizioni di Residenze MigraMenti.
Durante il periodo di lavoro, abbiamo inoltre avuto diverse occasioni di confrontarci direttamente con la loro realtà e ci siamo resi conto di alcune affinità rispetto al ruolo e alle funzioni di un teatro fortemente inserito nel proprio contesto e promotore di tematiche sociali.
Abbiamo poi visto al teatro di Lamezia Terme lo spettacolo Spartacus che, in una forma matura e avanzata, riesce a trattare il tema delle morti sulla SS 106 attraverso un linguaggio estremamente accessibile e diretto. Questa prospettiva si avvicina molto ad alcune delle nostre linee di ricerca.
Da un punto di vista organizzativo, inoltre, ci siamo resi conto che il loro lavoro sul territorio rappresenta una sorta di “resistenza teatrale”, in una Regione in cui (anche per la mancanza di istituzioni) la proposta culturale è parcellizzata e con un alto rischio di dispersione, assai diversa da quella della nostra regione di provenienza.
Vi aspettavate un luogo così appartato? In che misura la collocazione e le caratteristiche il teatro di Badolato ha orientato la ricerca?
Il processo di residenza si è costruito giorno per giorno. Quando siamo arrivati a Badolato sapevamo che l’incontro con il pubblico sarebbe stato decisivo per verificare alcuni aspetti del lavoro, ma non sapevamo in che fase e in che misura questo incontro sarebbe potuto avvenire. L’isolamento geografico e urbanistico del Teatro Comunale di Badolato ha sicuramente giocato un ruolo fondamentale nella programmazione del nostro piano di lavoro. I primi giorni ci sono serviti per rimettere in discussione le premesse e i materiali che già avevamo collezionato e a individuare il dispositivo ludico come la chiave di questo lavoro. Una volta compreso ciò, abbiamo lavorato sulle regole e le dinamiche del gioco per favorire un’interazione quanto più possibile diretta da parte del pubblico.
Nei vostri materiali (statement, curricula) parlate della centralità e dell’interesse per le pratiche partecipative nella vostra ricerca e di un potenziale ruolo quasi autoriale dello spettatore. Questa visione può prescindere da una conoscenza del territorio dove operate/ delle comunità cui vi rivolgete?
Sì, dal momento che le domande e le richieste che proponiamo si rivolgono più ai singoli partecipanti che alla collettività generalmente definita “pubblico”. I nostri lavori hanno l’ambizione di instaurare un rapporto dialogico con chi partecipa: noi proponiamo delle tematiche e ci aspettiamo da chi guarda l’assunzione di un preciso punto di vista sulla questione, che generi situazioni di conflitto o di identificazione.
In 35040, per esempio, l’unione delle diverse memorie “abitative” dei partecipanti alla performance crea un’ideale casa condivisa nella quale ognuno è portato a identificarsi, grazie all’opera di collezione e sintesi attuata dal performer.
Progetti della compagnia? Non è forse un entità un po’ chiusa? E come immaginate il futuro?
Nel 2024 puntiamo a portare in giro 35040 e a completare il lavoro su Pay-per-View tramite altre occasioni di residenza, considerando anche la possibilità di cominciare a lavorare su una versione francese, in collaborazione con la compagnia Cie du tous vents. E tra qualche mese inizieremo a lavorare su uno spettacolo sul tema del suicidio, già in parte affrontato in Pay-per-View. Infine, stiamo progettando un festival per l’estate prossima in Veneto.
La realtà che abbiamo fondato unisce tre professionalità fluide ed eterogenee, motivo per cui la nostra identità artistica non è definibile come “chiusa” o “fissa”: la progettualità è fortemente condivisa e non prevede una rigida compartimentazione dei ruoli. Pensiamo, inoltre, che nel futuro ulteriori campi e medium potranno essere integrati nelle attività e, di conseguenza, la collaborazione con professionalità diverse è parte del nostro DNA. Il lavoro “di compagnia” non vuole in nessun modo diventare una roccaforte dove chiuderci per limitare i confini, tutt’altro. La nostra realtà nasce proprio per favorire le connessioni e le reti con istituzioni pubbliche e private che vogliano abbracciare progetti con una forte identità artistica e in connessione con il pubblico.
Tornando a Pay-per-View: il progetto originale era molto diverso dall’esito. Inizialmente lo svantaggio economico sembrava prevalente, poi quello esistenziale e generazionale, per quanto collegato al precariato, è diventato prevalente… Quando e perché avete fatto questa scelta?
L’idea di Pay-per-View nasce più di un anno fa in seguito alle riflessioni che Stefano stava maturando rispetto alla sua condizione economica e professionale e su come dei repentini cambi di programma, imposti dal mondo del lavoro, lo stavano costringendo a fare delle scelte che avrebbero, inevitabilmente, modificato la percezione che lui aveva di sé. Il punto di partenza di questo lavoro, quindi, era già intrinsecamente legato alla connessione tra la sfera economica e la sfera esistenziale. Nei mesi scorsi abbiamo allargato il campo e abbiamo preso in considerazione svariati fenomeni che riguardassero la messa in crisi dello slogan “chiunque può arrivare dove vuole a prescindere dalle proprie condizioni economiche” e ci siamo resi conto di navigare dentro a un mare ampissimo di privilegi e svantaggi. Arrivati a Badolato, abbiamo dovuto inevitabilmente fare una scelta, viste le due settimane di lavoro e il desiderio da parte nostra di arrivare in fondo al segmento di indagine che avremmo deciso di portare avanti. Così siamo ripartiti dalla base, dalla miccia che aveva fatto accendere la catena di connessioni e di relazioni: il precariato generazionale indagato attraverso un gioco di sliding doors.
Che funzione ha avuto la raccolta dei materiali, si potrebbe fare qualcosa di quelli scartati?
Il nostro lavoro si articola sempre (sia quando l’esito è performativo sia quando ci troviamo in contesti laboratoriali) in due fasi : indagine e sintesi. È un lavoro che riguarda noi, ma anche i performer e i collaboratori, e riteniamo che, a oggi, questa suddivisione sia la strada migliore per garantire un’autoralità condivisa. Prima dell’inizio delle prove, a ognuna delle persone che lavoreranno con noi nel processo creativo viene fornito un dossier contenente spunti diversi, che affronta svariate tematiche legate al lavoro che andremo ad affrontare. Su tale dossier viene poi chiesto, a ogni collaboratore, di esprimere il proprio punto di vista. Il primo giorno di prove è, in questo senso, una raccolta dei punti di vista di tutti, che permette al processo artistico di arricchirsi e di trovare, magari, prospettive imprevedibili. Nel passato (soprattutto nel caso della trilogia Abitare lo specchio) l’esito finale del processo è stato drasticamente modificato dalle indagini dei performer.
In passato abbiamo cercato vari modi di restituire al pubblico tutta la mole di materiale preziosissimo scartato: con George II, alla Biennale 2020, avevamo creato dei libretti digitali da consultare prima o dopo lo spettacolo, mentre per la trilogia avevamo creato online (purtroppo ora non si trova più sul sito del Teatro Stabile del Veneto) una rete connettiva dove chiunque poteva scoprire quali fossero le connessioni dietro a un’idea, quali autori o quali materiali l’avessero condizionata.
Nella nostra discussione è emerso il problema del rapporto fra i contenuti e il dispositivo del gioco che rischia di ridimensionarli. È un rischio reale o un falso problema?
Sicuramente il gioco può rivelarsi riduttivo rispetto all’approfondimento di determinate tematiche, ma è vero anche che alcune relazioni tra gli spettatori e la performance senza il gioco non sarebbero mai state possibili. Il prossimo passo della ricerca verterà proprio su questa domanda. Quello che ci interessava per ora era mettere da parte tutta una serie di pregiudizi che si possono avere quando si parla di tematiche così delicate e di occuparci principalmente dell’attivazione dei partecipanti del gioco (e della performance quindi). La nostra ricerca era indispensabile partisse da qui perché alla base di Pay-per-View si trovano i rapporti concorrenziali, di desiderio di sopraffazione e di vittoria. Detto questo, il lavoro fatto a Badolato era per noi anche uno strumento per mettere in discussione, all’interno del nostro percorso, il termine “spettacolo”.
La dimensione “televisiva” del gioco è un possibile problema o una garanzia di riconoscibilità del meccanismo e di incentivo alla partecipazione?
La dimensione televisiva non ci interessa a livello tematico, ma ci rendiamo conto che faccia parte del nostro immaginario. Così l’abbiamo scelta come collante per avvicinarci al pubblico, permettendogli di “accasarsi” e di giocare sentendosi più protetti.
Il dispositivo si è dimostrato coinvolgente e leggero per quanto rifletta sul disagio. Avete già qualche idea rispetto al modo in cui le reazioni del pubblico a Badolato indirizzeranno le prossime tappe del lavoro?
A Badolato abbiamo capito diverse cose sui limiti e sulle possibilità del dispositivo. Crediamo che le prossime tappe debbano da una parte essere più coraggiose rispetto al gioco (mettendo il pubblico in situazioni ancora più difficili) e dall’altra che debbano prendere una decisione più chiara sul livello di stratificazione che vogliamo raggiungere. A Badolato abbiamo mantenuto il piano di crudeltà scollato dal gioco. Questo servirà sicuramente capire se vogliamo proseguire su questa strada o provare a far collidere il tutto.
Ha senso pensare che il dispositivo possa essere applicato ad altri temi? (salute, anziani, padri single…)
Certo, perché alla base del dispositivo c’è la questione dell’accessibilità e dei percorsi differenti che possono portare a esiti felici o tragici.
In che misura le caratteristiche di Lorenzo come attore sono state costitutive del processo di creazione (oltre che dell’esito)?
Con Lorenzo abbiamo iniziato a lavorare quattro anni fa e riteniamo di avere una conoscenza abbastanza approfondita delle modalità e degli strumenti che lui mette in campo nel suo processo di lavoro. Di conseguenza, quando abbiamo pensato a Pay-per-View e abbiamo scelto lui come performer, sapevamo che avremmo trovato un artista in grado di affrontare un dispositivo così aperto e imprevedibile come quello che abbiamo creato, un artista capace di portare (una volta raggiunta un certo grado di maturazione del lavoro) una propria prospettiva sulle tematiche e sulla modalità con cui veicolarle.